A «caccia» della vita extraterrestre

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foto Phl@Upr Arecibo, Esa/Hubble, Nasa
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Ricercatori dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr e dell’Osservatorio astronomico di Trieste studiano il clima possibile dei pianeti al di fuori del sistema solare, per determinare quali potrebbero avere maggiori probabilità di «abitabilità». Un elemento fondamentale è la pressione atmosferica. Uno studio è stato pubblicato su «Astrophysical Journal»

Ipotizzati per molto tempo e oggetto di speculazioni filosofiche, i pianeti che ruotano intorno a stelle diverse dal Sole, chiamati esopianeti, oggi sono una realtà scientifica, comprovata da osservazioni compiute da Terra e da satelliti dedicati, come Kepler della Nasa: quasi un migliaio quelli già scoperti e circa 2.700 in attesa di conferma. Ma, al momento, non si ha certezza se esistano altre forme di vita fuori dal sistema solare.

Un gruppo composto da ricercatori dell’Osservatorio astronomico di Trieste e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Torino ha sviluppato un modello climatico a «bilancio di energia (Ebm)», proprio per determinare quali pianeti potrebbero avere caratteristiche di abitabilità analoghe a quelle terrestri, ovvero acqua allo stato liquido, in funzione della pressione atmosferica, concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, caratteristiche dell’orbita (eccentricità, inclinazione dell’asse di rotazione) e del periodo di rotazione. I risultati di questo primo studio sono pubblicati su «Astrophysical Journal».
«Alcuni esopianeti potrebbero non essere molto diversi da quelli del sistema solare, come la Terra, Marte o Venere, e diversi gruppi di ricerca hanno cominciato a stimarne la composizione chimica delle atmosfere – spiega Antonello Provenzale, ricercatore dell’Isac-Cnr e coautore dello studio -. Queste osservazioni consentiranno di determinare se l’atmosfera planetaria sia in equilibrio termodinamico con la superficie, come ci si aspetta per un pianeta senza vita, o se vi siano disequilibri dovuti all’attività degli organismi viventi, come avviene sulla Terra».
L’abitabilità planetaria riguarda in particolare la regione di spazio intorno a una stella dove le temperature superficiali dei pianeti permettono la presenza di acqua allo stato liquido. «La posizione della zona di abitabilità dipende da varie caratteristiche – spiega Provenzale -. Gli astri di maggiore luminosità “scaldano” di più la superficie planetaria e la zona abitabile sarà dunque spostata a distanze maggiori. Sull’abitabilità incidono poi le caratteristiche dell’orbita (eccentricità, inclinazione dell’asse di rotazione) e il periodo di rotazione del pianeta. Per pianeti con un’atmosfera come la Terra, Marte o Venere, inoltre, le dinamiche interne all’atmosfera e caratteristiche climatiche come la presenza di polveri o gas serra, ghiacci continentali o oceanici, possono modificare sensibilmente le temperature superficiali, ampliando, restringendo o spostando la “zona di abitabilità”».
Stimare tale incidenza delle condizioni climatiche dei pianeti extra-solari (esoclimi) consente di concentrare la ricerca della vita sui pianeti potenzialmente abitabili. «Per ora, gli esoclimi sono analizzati mediante modelli climatici semplici, così da simulare rapidamente situazioni diverse e ottenere stime della regione di spazio e dei parametri di abitabilità – aggiunge il ricercatore -. I risultati di questo primo lavoro hanno mostrato che la pressione atmosferica gioca un ruolo assai importante nel determinare tali condizioni, a causa del suo legame con circolazione atmosferica e distribuzione delle temperature. La zona abitabile si allarga con l’aumentare della pressione e, inoltre, a pressioni elevate la temperatura superficiale del pianeta tende a diventare uniforme, livellando differenze stagionali e latitudinali».
Questi modelli, oltre a indagare le condizioni dei pianeti più distanti, «possono essere utilizzati per capire meglio le condizioni della Terra primitiva di 4 miliardi di anni or sono, quando il nostro Sole era ancora giovane e la sua luminosità era circa il 30 per cento inferiore a quella attuale», conclude Provenzale.