In ogni puntata della serie di successo i pazienti pagano lo psicoterapeuta senza fiatare: cento euro a seduta, con un totale di quattrocento al mese. In un film la cosa passa quasi inosservata. Nella realtà fa la differenza fra il curarsi e l’avere la sensazione di farlo
Questa rubrica è dedicata alla salute ed a tutto il mondo che gira attorno ad essa. Poche parole, pensieri al volo, qualche provocazione, insomma «pillole» non sempre convenzionali. L’autore è Carlo Casamassima, medico e gastroenterologo, ecologista nonché collaboratore di «Villaggio Globale». Chi è interessato può interagire ponendo domande.
Mi ci sono trovato dentro dalla prima puntata, «adescato» dalla sapiente pubblicità che insisteva su primi piani dalla sofferta espressività, volute di fumo dense di non detti, silenzi e mezze frasi che annunciano molto più di quanto non dicano. Ed ho cominciato a seguirlo con la stessa curiosità (a metà fra il cinematografico ed il professionale) con la quale accolsi, qualche anno fa, le prime puntate di House, in cui il ghigno a tratti indisponente ed irriverente di Hugh Laurie si mescolava alla sua «sapienza» medica, immergendosi ogni volta in storie di medicina e di vita sempre un po’ al limite del possibile, quasi sempre oltre il limite del prevedibile. La versione italiana del format israeliano «Be Tipul», col nome di «In Treatment», ha fatto capolino il primo aprile 2013 su Sky, dividendo il pubblico fra entusiasti e delusi: come sempre.
Per un medico, per di più amante della buona recitazione e della televisione di qualità, era però pur sempre un must ed il richiamo della teatralizzazione della propria attività professionale era ancora una volta, ammettiamolo, irresistibile.
Come col tempo sono diventati fonte di richiamo l’espressività sofferta e problematica di Sergio Castellitto (lo psicoterapeuta Giovanni Mari) e dei suoi pazienti (dalla splendida Kasia Smutniak, la tormentata Sara, alla bravissima Irene Casagrande, l’autolesionistica Alice, a tutti gli altri davvero brillanti attori, fra i quali merita una citazione a parte la intensa e misurata Licia Maglietta nel ruolo della terapeuta del terapeuta, amica e mentore del frastornato Gianni) che ruotano nel suo studio, uno per giorno, raccontando i propri problemi, svelando le proprie insicurezze, palesando, di giorno in giorno e di puntata in puntata la trama della propria vita. E, con essa, quella dell’analista che li segue, altrettanto ricca di difficoltà e conflitti (con la propria moglie, Valeria Golino) ed incertezze e dubbi, come quello, centrale nell’economia della serie, sul se lasciarsi tentare dal fascino indiscutibile della sua paziente Sara o rispettare tenacemente i dettati che stanno alla base di un corretto rapporto fra terapeuta ed assistito, come gli impone la deontologia e gli ricorda la propria ferrea «maestra» di terapia.
Insomma, un gomitolo di pensieri e sentimenti che, col passare delle puntate, invece che srotolarsi e rendersi sempre più leggibili e comprensibili si fanno via via più ingarbugliati, così come ingarbugliata è la vita ed ancor più la vita delle relazioni, che non solo hanno una esistenza propria ma, incontrando quella degli altri, finiscono per crearsene un’altra ancora, altrettanto complicata e decisiva.
Ma non lasciamoci prendere dal piacere del racconto e dall’indiscutibile fascino della narrazione: perché ne parliamo, perché lo prendiamo a pretesto di questa Pillola? Per più di un motivo che, pure, in qualche modo avevamo accennato alcune settimane fa proprio su questi spazi.
Al di là della messa in scena teatrale l’elemento centrale di In Treatment sta nella proposizione filmica dell’elemento del disagio psicologico di tutti i protagonisti accettato nella serie come «normale» in quanto quotidianamente vissuto. Vissuto da persone di ogni tipo che, quindi, in assoluta «ordinarietà» vanno dallo psicoterapeuta per gestire fasi della propria vita nient’affatto assimilabili a quella che in genere si ritiene sia la condizione della «patologia mentale»: andare dallo psicologo (o dallo psicoterapeuta, questo elemento è secondario ai fini della nostra riflessione) viene (giustamente) visto come un passaggio logico ed auspicabile per sciogliere i nodi della propria esistenza, della propria condizione vitale, della propria insicurezza relazionale, della incapacità di scegliere un destino o di accettarlo.
In una società che non vede di buon occhio il disagio psicologico perché immolata alle categorie dell’efficientismo o che più comodamente lo consegna alla medicalizzazione farmacologica questo discorso pare svolgersi su un piano di disarmante dualità: lo psicoterapeuta va bene per un film o una serie televisiva (e lì fa anche ascolti e suscita interesse) mentre nella vita di tutti i giorni quel disagio deve vivere nascosto e ben mimetizzato, reso socialmente meno dirompente da un’abitudine ipocrita alla pillolina ed all’esame, alla radiografia o allo screening di turno. La visita al proprio medico (più che la visita del proprio medico) finiscono per l’assumere le sembianze di una ritualità succedanea, in vece di altre e diverse visite di altri e diversi colloqui.
Purtroppo la condizione mentale e psicologica che tanti vivono senza avere le armi per affrontarne i lati più difficili non è, ad oggi, gestita con compiutezza dalla nostra proposta sanitaria complessiva, dividendosi fra un precario sistema di assistenza psicologica del Ssn (in genere rivolto ai casi più eclatanti di patologia) ed un costoso impianto privato che si mette sul mercato a prezzi vissuti dal possibile fruitore come mediamente troppo elevati, specie in periodi di crisi come questo.
Il risultato è un discorso che non comincia affatto o che viene affrontato tardi o che si sviluppa secondo un linguaggio che non è quello corretto, con un picco sempre più alto nella offerta e nel consumo di psicofarmaci, ansiolitici, antidepressivi così come in tanti andiamo denunciando da ormai molto tempo.
Vero è che, senza una articolazione pubblica della rete dei consulenti in psicoterapia, il destino di chi vive il disagio psichico (anche all’interno di relazioni o condizioni che necessitano di una guida o di un’assistenza qualificata) è quello di imbottirsi di farmaci e di nevrotizzarsi di tecnologia. O, in alternativa, di rivolgersi ad uno psichiatra o uno psicoterapeuta privato a condizione di spendere quei soldi che oggi volano via solo a nominarli.
In ogni puntata di «In Treatment» i pazienti pagano lo psicoterapeuta senza fiatare: cento euro a seduta, con un totale di quattrocento al mese. In un film la cosa passa quasi inosservata. Nella realtà fa la differenza fra il curarsi e l’avere la sensazione di farlo.
Carlo Casamassima, Medico, Gastroenterologo