Se non si ha niente da perdere siamo propensi a sentirci «umanitari», «umani», «sensibili». Ma quando in gioco entra il denaro tutto cambia. A quel punto l’etica lascia il posto all’egoismo. La morale viene diluita, transazione per transazione, dal mercato, sino a quando la mente inizia ad operare come un semplice automa in grado solo di discernere tra costo e beneficio
«Alcuni beni, come i widget (gadget elettronici, applicazioni e strumenti web, N.d.R.), sono liberamente acquistati e venduti nei mercati senza creare grande clamore, al contrario di altri, come le indulgenze – scrivono gli editorialisti della famosa rivista «Science», introducendo una ricerca pubblicata questa settimana che sta già facendo il giro dei media mondiali -. Alcuni topi che sono stati allevati per l’utilizzo in esperimenti di laboratorio e che si rivelano essere un surplus vengono sacrificati. Falk e Szech […] hanno studiato l’effetto che la trattativa di mercato ha avuto sulla disponibilità di un campione di soggetti sperimentali di pagare per il mantenimento di questi topi in eccedenza. Gli individui erano disposti a pagare molto di più per salvare i topi, ma gli scambi di mercato hanno abbassato i prezzi».
L’ampia risonanza che una ricerca simile sta avendo su molti mezzi d’informazione e anche quotidiani italiani è giustificata da almeno due ragioni. La prima è che questo lavoro degli economisti Armin Falk e Nora Szech, dell’università di Bonn, conferma un’idea già nota da molti secoli: il denaro altera l’etica individuale. Il mercato l’annichila.
Il secondo motivo per cui la notizia sta ricevendo ampia eco è l’implicazione che deriva da questa lapalissiana dimostrazione: saremmo disposti a salvare qualcosa o qualcuno se ci viene richiesto un sacrificio economico?
I due esperti di mercati e finanza tedeschi riassumono così il loro lavoro: «La possibilità che l’interazione di mercato eroda i valori morali è una ipotesi di lunga data, seppur controversa, sia nelle scienze sociali, sia per l’etica e la filosofia. Ad oggi, l’evidenza empirica sul decadimento dei valori morali attraverso l’interazione di mercato è stata scarsa. Vi presentiamo evidenze sperimentali controllate su come cambia a causa dell’interazione di mercato il valore che i soggetti umani danno alle azione causate a terzi. Nell’esperimento, i soggetti decidono tra salvare la vita di un topo o ricevere denaro. Abbiamo confrontato decisioni individuali a quelle prese in trattative di mercato bilaterali e multilaterali. In entrambi i casi, la volontà di uccidere il topo è sostanzialmente superiore alle decisioni individuali. Inoltre, nel mercato multilaterale, i prezzi per la vita si deteriorano tremendamente. Al contrario, per le scelte di consumo moralmente neutre, le differenze tra le istituzioni sono minime».
A 800 volontari, in altre parole, è stato chiesto di decidere se alcuni topolini di laboratorio usati per la ricerca, ma ormai considerati superflui (come precisano nell’editoriale pubblicato su «Science») dovessero trascorrere la loro vecchiaia assistiti e curati. All’unanimità la risposta è stata affermativa.
Queste decisioni, estraniate da ogni contesto economico, sono state poi confrontate con la seconda e la terza fase della ricerca. Solo la metà dei volontari ha accettato l’uccisione dei topi in cambio di 10 euro, mentre quando le transazioni economiche si sono fatte più complesse ed hanno iniziato a coinvolgere più persone (mercato multilaterale) i principi morali sono stati messi da parte e il 76% degli animali è stato sacrificato in cambio di un prezzo medio di 10 euro, molto simile alla cifra del costo di mercato bilaterale.
Non c’è da stupirsi, dunque, se in un mercato globalizzato la sorte di bambini-operai nelle fabbriche cinesi, di assemblatori nelle industrie del Bangladesh o di minatori nel bacino del Congo interessi ben poco al consumatore finale, poiché il mercato è stato «sporcato» da decine di transazioni intermedie, modificato passando attraverso le mani di numerose aziende appaltatrici, trasportatori e rivenditori finali, edulcorato da brand ultrareclamizzati e svenduti a prezzi che esternalizzano persino il costo di manodopera.
Ci si stupirà ancor meno, però, del fatto che a quel 76%, che da «campione» può essere tranquillamente estrapolato ad «universo», ad umanità intera insomma, in un mondo dove è impossibile guardare in faccia chi fa cosa, chi produce cosa, chi vende cosa è ben più arduo interessarsi della sorte di esseri viventi di altre specie. La ricerca è chiara, spesso banale. Se non si ha niente da perdere siamo propensi a sentirci «umanitari», «umani», «sensibili». Ma quando in gioco entra il denaro tutto cambia. A quel punto l’etica lascia il posto all’egoismo. La morale viene diluita, transazione per transazione, dal mercato, sino a quando la mente inizia ad operare come un semplice automa in grado solo di discernere tra costo e beneficio.
La domanda da porsi è: ha senso, per contrastare la forza del denaro sulla mente umana, porre un prezzo alla vita e all’ambiente, come si sta tentando di fare con il meccanismo del Pagamento per i servizi ecosistemici (Pes)? Serve a ripristinare la coscienza prezzare tutto ciò che esiste nell’Universo?
Probabilmente, quei topi «sacrificati» per soli 10 euro sarebbero tenuti in vita se avessero un valore di mercato di 20. Ma il loro prezzo sarebbe imposto comunque dall’essere umano secondo principi alquanto arbitrari, se dovessimo giudicare inestimabile il valore della vita. Che valore avrebbe la vita di una tigre? E quella di una Drosofila, moscerino della frutta ampiamente utilizzato e «sacrificato» nella ricerca scientifica? Quanto varrebbero un fiume non inquinato o una quercia secolare? Un simile modo di «economizzare» il mondo porterebbe certamente a una monetizzazione della vita stessa e a un cambiamento radicale del modo di considerare l’altro, ognuno che non sia contenuto nell’immagine di «io». Vale di più una nonna o una mamma? Se il nonno vale 5.000 Euro, il papà ne varrà di più perché è giovane o di meno perché non è così saggio? Sembra ridicolo solamente pensarci, eppure è ciò che la ricerca pubblicata su «Science» ci induce a fare.
Certamente, se imparassimo a considerare la vita bene supremo appartenente ad ogni essere, valore inestimabile per qualunque specie, non sarebbe più necessario imporre alcun prezzo. Cagionare la morte, la distruzione, l’estinzione, l’inquinamento sarebbe considerato in termini di Diritto umano, omicidio. E non sacrificio, come si suole dire per addolcirne il significato quando si tratta di topi utilizzati come cavie in laboratorio. Ma «omicidio» non sarebbe davvero il termine giusto poiché la sua stessa etimologia suggerisce «l’uccisione di un uomo da parte di un altro uomo, particolarmente se fatta con colpa».
Allora potrebbe risultare utile ad abrogare ogni costrizione etico-morale, ogni alterazione causata da un mercato globalizzato multilaterale, ogni dilemma amletico sul valore della vita, introdurre il termine «vitacidio» con l’esplicito scopo di definire «qualunque atto intenzionale volto alla privazione della vita di una qualunque forma vivente, sia essa animale, vegetale, ecosistemica o planetaria».
Sarebbe così molto più semplice condurre esperimenti d’etica poiché alla domanda «cosa ne faresti di un topo da laboratorio in cambio di 10 euro o di una serie di transazioni che potrebbero farti arricchire?» la risposta sarebbe «lo sottrarrei alle sperimentazioni e lo lascerei vivere, perché altrimenti commetterei un reato chiamato vitacidio». A quel punto non sarebbe questione di prezzo, ma di principio. Di consapevolezza sociale. Basta immaginare cosa accadrebbe da domani se nel Codice penale fosse inserito il reato di «vitacidio»? Riterremmo ancora di poter insegnare ai bambini che tutto ha un prezzo? Penseremmo ancora che la vita di un topo valga meno di quella di un uomo? Crederemmo ancora che una semplice forma di approvvigionamento dei beni vitali e non, qual è la moneta, possa prevaricare il rispetto della vita stessa che permette di sostenere?
Gli stessi economisti di Bonn, nel dimostrare qualcosa che agli osservatori alieni non sarà certamente sfuggita guardando l’operato umano, hanno confermato che non solo i soldi, ma anche la fama (un articolo pubblicato su «Science» ad esempio) e il successo (il riscontro dei media mondiali per una ricerca) possono spingere scienziati e ricercatori ad agire contro i propri stessi principi morali uccidendo, e non «sacrificando», migliaia di animali ogni anno per svelare all’uomo qualcosa che non ha rilevanza per la sua specie, né per la sua sopravvivenza. Insieme al denaro, potere, ambizione e affermazione ci fanno costantemente dimenticare che ciò che davvero conta, ciò che davvero vale, è la vita. E non c’è prezzo che si possa imporre per preservarla. Non c’è mercato che debba giustificarci a «sacrificarla».
Come scrive Abel Bonnard ne «Il denaro» del 1928 «Il mondo moderno è il mondo del denaro, ma è solo il modo più breve per dire che non ha più un’anima».
Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo