Nella pratica della vita, essendo solo un concetto umano, troveremo la felicità tradotta, in modi profondamente diversi fra di loro, ma tutti e sempre comprensibili (pur se fastidiosamente mal sopportati da quei cultori delle verità assolute, che si lasciano ossessionare dalle preoccupazioni di un loro apparente ed incompreso «disordine», piuttosto che impegnarsi a seguire la nostra naturale propensione ad affrontare intelligentemente e con approcci flessibili, il problema dell’irriducibile complessità della condizione umana).
La felicità sembra essere presente (nelle sue diverse forme e significati testimoniati da oggetti ed usanze) nelle tradizioni, di ogni tempo delle civiltà umane. Prime manifestazioni di felicità si possono riconoscere nel piacere che gli uomini, alcune decine di migliaia di anni fa, hanno forse provato nel rappresentarsi e rappresentare il loro mondo con i graffiti ritrovati sulle pareti di alcune caverne. Erano felici, forse, gli uomini che, già a partire dalla fine del periodo paleolitico, riuscivano ad assicurarsi la sopravvivenza con la caccia e la raccolta dei prodotti della terra.
Momenti di felicità possiamo individuarli nelle sofisticate attività artistiche (e nelle loro creazioni giunte fino ai nostri giorni) che hanno fissato la concretezza del bello nelle forme modellate di una pietra. Possiamo riconoscere una felicità, ancora più sofisticata, nella ricerca del senso delle cose, nel riflettere sui fenomeni naturali e nelle relazioni che hanno animato e, ancora oggi, danno articolazione al pensiero umano. Fra i primi, a cercare il senso della felicità, troviamo Epicuro (341-270 A.C.) che, in particolare, nella pratica della conoscenza e della saggezza, trovava i presupposti necessari per vivere felice.
Oggi, invece, la competizione, che come una frusta immateriale vorrebbe percuoterci e incitarci ad un nostro sempre maggiore rendimento produttivo, non sembra proprio uno strumento che possa promuovere la felicità o far passare, come tale, forme solo prosaiche di piacere offerte da logiche utilitaristiche. La competizione in atto sembra indurre, infatti, una moderna ma subdola e umiliante forma di schiavitù, una condanna a subire meccanismi di sfida che sembrano richiamare quelle azioni e quegli attori degli spettacoli di lotta che venivano presentati nel circo ai tempi dell’impero romano.
È emblematico, in tal senso, il modo scelto, da un imprenditore bolognese, per promuovere la difesa del made in Italy con una pagina di pubblicità a pagamento, apparsa sui quotidiani italiani. La pubblicità invitava a riflettere e ad acquistare prodotti italiani con l’immagine di un gladiatore pronto al combattimento (in questo caso come militante di un sistema produttivo asservito ad una lotta competitiva) e sicuro della propria forza e della vittoria che avrebbe conseguito. Oggi, non c’è l’arena del circo e non si viene più mandati nella fossa dei leoni da un potente in carne ed ossa, ma ognuno si espone spontaneamente ai rischi per necessità di sopravvivere, ma forse anche coltivando una disorientata speranza di avere l’opportunità di trovare la felicità.
In realtà ci troviamo oggi di fronte a giochi allucinanti che promettono, ad alcuni, ricchezze e potere (o permettono, solo, di identificarsi in mitizzati vincitori contemporanei), ma che mettono, poi, a rischio anche la salute fisica e mentale di inermi malcapitati. I più sprovveduti rischiano, così, di essere anche soggiogati da quelle forme irreversibili di psicopatia del successo caratteristiche delle attività competitive che costringono, per esempio, i giocatore d’azzardo a persistere nel male del quale loro stessi si sono fatti vittime.