Quando parliamo di energie vitali umane richiamiamo le energie fisiche che sono alla base dei nostri processi fisiologici, ma con un’analogia possiamo indicare, come energia, anche quelle risorse mentali che muovono la nostra volontà e permettono, così, di dare prospettive ad una realtà umana di relazioni e processi creativi. Dunque se manca questa volontà, che è frutto delle nostre scelte, è come se venisse meno o fosse dirottata altrove un’energia immateriale capace di attivarla. È, questa, un’analogia che permette di richiamare, anche per i processi mentali, il fenomeno dell’Entropia e i suoi significati (in particolare quelli della perdita irreversibile dell’energia consumata).
Con meccanismi diversi, i processi di elaborazione dei nostri pensieri producono, anche, fenomeni di obsolescenza che possiamo considerare come una forma di perdita irreversibile di nostri specifici pensieri, ovvero di energie immateriali necessarie per dare origine ad una nostra volontà. A questo fenomeno possiamo, anche, associare la trasformazione dei risultati delle nostre attività mentali, in rifiuti immateriali, destinati ad essere confinati in una specie di discariche «virtuale».
Questa forma di degrado delle energie o dei nostri pensieri, ha conseguenze rilevanti sui nostri comportamenti, oltreché sui nostri modi di dare senso alle cose. Se, infatti, l’uso delle risorse, messe in gioco, dalle nostre attività mentali, non producono attività creative e vitali avremo solo un inutile aumento di Entropia, una perdita irreversibile di energia. Volendo esemplificare questo tipo di situazioni si può fare riferimento a che cosa avverrebbe se si decidesse di illuminare un luogo buio (consumando una certa energia fisica) per proporlo alle attività vitali dei suoi visitatori. In questo caso, se i visitatori non avranno trasformato una loro volontà di utilizzare quella opportunità, per attivare fenomeni creativi e vitali (che quella luce avrebbe, invece, potuto permettere), sarà stata persa l’energia fisica (spesa per illuminare i luoghi), ma sarà stata anche persa quell’energia mentale che li avrebbe potuti vitalizzare.
Tutta questa energia, fisica e mentale, in mancanza del successo creativo e vitale di questa iniziativa, sarà stata inutilmente spesa e non potrà essere richiamata in un secondo momento perché degradata in forme di energia non più disponibile. In questo caso avremo, infatti, una diminuzione dell’organizzazione del sistema fisico e mentale rispetto alle sue potenzialità iniziali e un aumento di Entropia, senza aver generato fenomeni vitali: è come se avessimo messo in moto una macchina che, però, ha consumato solo energia senza che una nostra volontà la destinasse a qualcosa di utile; è come se avessimo coltivato un campo senza, poi, dare attuazione alla nostra volontà di seminarlo per generare elementi vitali.
Al maggior stato di disordine fisico (che si crea nella trasformazione della materia e che genera aumento di Entropia) possiamo in questo caso far corrispondere, per analogia, un maggior stato di disordine dei pensieri necessari per definire una volontà. La morte entropica (che viene già richiamata dalla perdita delle energie fisiche), può presentarsi, così, anche nella perdita delle energie della nostra volontà quando le consumiamo senza cogliere l’occasione per realizzare quelle attività che potevano avere ricadute vitali sulla realtà fisica e immateriale dei nostri intorni di vita. Se, dunque, la volontà fosse stata quella di attivare una ricerca di felicità, in questo caso, ne avremmo perso l’occasione. Se consumiamo risorse senza produrre quei fenomeni creativi e vitali che presiedono gli equilibri naturali, metteremo in crisi questi stessi equilibri (fino ad una loro eventuale fine) e, comunque, continueremo ad avere problemi, irrisolti e complessi, ancora da affrontare. L’entropia è, dunque, un fenomeno connesso alla qualità del mondo fisico e, per analogia, anche alla qualità delle azioni guidate della nostra volontà.
Il compito dell’uomo è, dunque, come avviene in natura, non trasformare energie in Entropia senza aver contemporaneamente attivato un fenomeno vitale (anche se nel merito del tipo di fenomeno l’uomo ha la possibilità di offrire l’eventuale valore aggiunto della sua volontà).
L’uomo ha la libertà (che diventa onere di valutare e di rispondere personalmente degli effetti delle sue scelte) di decidere obiettivi, finalità e percorsi diversi da quelli del divenire spontaneo delle cose interrompendo, con un atto di volontà, quanto meno la direzione dei fenomeni naturali determinata dal caso o dalle probabilità o dalla necessità o da un’eventuale volontà superiore. C’è, infatti, una qualità umana che permette di scegliere e che spazia in un ampio ambito di possibilità disponibili per l’uomo (fra consapevolezze e coltivate inettitudini, fra autonomie e avvilenti sudditanze, fra responsabilità e perfide incoscienze, fra volontà costruttive e insensate indifferenze).
In questo ambito l’uomo ha, quindi, la possibilità di intervenire con meccanismi che, spesso, sono però attivati da poche ma potenti minoranze di suoi simili e che possono portare al fatale esaurimento dei patrimoni di diversità della natura affidati anche alla sua gestione. Ma in presenza di questi processi infertili, nessuno potrà poi, appellarsi ad un destino cinico e baro al quale attribuire le conseguenze di imprevidenti comportamenti umani. La sottovalutazione degli effetti degli interventi umani sugli equilibri ambientali, la mancanza di verifiche, la convinzione ideologica che la natura, comunque, saprà sempre risanare ciò che l’uomo faber si sente in diritto di modificare (vantando la «neutralità» di un intervento umano comunque da non associare alle sue conseguenze) e una supremazia assoluta del suo volere esercitata al di là di ogni altra questione, non potrà in nessun modo, in questi casi, essere invocata da qualsiasi uomo in sua difesa e per assolversi dalle sue tremende e mancate responsabilità. Si tratta di conseguenze, a danno della qualità e della possibilità sopravvivenza della specie umana, che possono essere solo oggetto di incontestabili e irredimibili condanne e che possono proporre solo scenari di «Decadimento».
Eppure se un giorno dovessimo metterci in gioco in una riflessione comune, proprio sulla felicità, alla fine sicuramente non saremmo più quelli di prima. Il peso delle contraddizioni, fra ciò che pensiamo di essere e di fare e ciò che invece siamo e facciamo, sarebbe insopportabile e forse, anche così, potremmo cominciare a liberarci dalla sottomissione alle ideologie e alle verità uniche e assolute dei poteri che condizionano pesantemente le nostre volontà e iniziative.
Si potrebbero, finalmente, avere le occasioni per dare spazio concreto alle nostre consapevolezze che sono, poi, anche sostanza essenziale per la ricerca della felicità. Questa, infatti, non può essere accolta dall’inettitudine di un popolo di sudditi (anche a partecipazione mediatica avanzata) perché sono necessari contenuti e metodi, fertili e originali, capaci di sviluppare e comunicare il piacere personale di vivere, di mettersi alla prova, di sorprendersi, di sperare, persino quando non si dovessero avere più ragioni per cercare una qualsiasi forma di felicità.
Richiamando la memoria di un nostro lontano passato, possiamo, forse, riconoscere un suggerimento implicito nella comparazione del pensiero di tempi lontani, con quello del tempo attuale. È un suggerimento che possiamo interpretare come un invito a riflettere. Il riferimento è, in particolare, ad Epicuro che sembra ritenere, come riportato in alcune sue Massime e in alcune sue Sentenze, che lo studio della natura e il ragionamento siano elementi fondanti per la felicità. Oggi, dopo più di 22 secoli di diffusi consensi su queste affermazioni, dovremmo saper andare oltre le mete della sola conoscenza.
Procurarsi, come individui o come loro comunità, nuove conoscenze e industriarsi per una loro razionale applicazione che le renda espressioni concrete e vendibili di tecniche e tecnologie, forse non è sufficiente per dare, oggi, senso e valore umano ai nostri progetti e impegni operativi. Anzi, sotto molti aspetti, è un segno che potrebbe indicare un regresso rispetto alle riflessioni che Epicuro ci invita a frequentare. È un segno che potrebbe, addirittura, indicare una nostra preoccupante incapacità o difficoltà a strutturare, oggi, modi di pensare e di agire, anche solo, adeguati alla percezione della dimensione complessa dei fenomeni e a cercare risposte alle nostre domande (che pur sappiamo diversamente formulare e confrontare) sul senso delle cose e sulle finalità di questo mondo.
Dovremmo, per esempio, cominciare col condividere le nostre diverse riflessioni su quel vortice meccanico di «produzione, mercato e consumo» che sottrae tempo e risorse alle nostre consapevolezze e responsabilità. Dovremmo riflettere su questioni alle quali non sono state date risposte appropriate, ma solo precari aggiustamenti che dovrebbero ancora interrogarci per la loro parzialità, per gli equivoci che hanno creato e per le ingiustizie delle quali sono origine.
Dovremmo riflettere sulle conoscenze che sono sicuramente a nostra disposizione, ma che poi non è chiaro se sono ricchezze indivisibili a disposizione di tutti o se sono risorse, solo ad uso personale, di chi, in un modo o in un altro, ne rivendica una proprietà esclusiva o se, ancora, sono beni di scambio o oggetti del mercato dei consumi o patrimoni comuni da investire in sinergie, o se sono informazioni ed esperienze utili solo per competere sui mercati, per predare ricchezze economiche e finanziarie, o se sono strumenti per costruire una comunicazione piegata ad interessi particolari, da far suonare a qualche pifferaio magico, o se sono (come speriamo che siano) energie da finalizzare alla ricerca della qualità della vita, ad alimentare il progresso umano.
È necessario uscire da quelle spirali, predisposte per ridurre tutto ad uno scontro, pregiudizialmente strutturato (come è quello fra il bene e il male, nel quale tutti ritengono di essere dalla parte del bene e sembra quasi che il male consista proprio nell’essere convinti di essere dalla parte del bene, e che, proprio così, riesca ad avanzare senza ostacoli contro tutti).
È necessario riflettere su questa persistente contrapposizione che fin dai tempi più lontani della nostra storia affligge ostinatamente l’umanità e ci paralizza in false e infertili visioni di un mondo che sembra non comprendere e non saper far dialogare le diversità del bene.
È uno scontro che ha condizionato le nostre vite facendo deviare il senso da dare alla nostra esistenza, proprio nei momenti più drammatici della nostra storia.
Nonostante tutto (forse anche grazie a condizioni familiari attente almeno ad una formazione, dei più giovani, libera da pregiudizi e capace di dare senso alle relazioni e ai conflitti interpersonali senza bigotte sudditanze), ancora oggi non è stato cancellato il nostro naturale orientamento a vivere in società umane.
Anche se le occasioni tendono a diminuire cancellate da urgenze economiche, dalle complicazioni di una ottusa ed equivoca chiarezza amministrativo-burocratico, dalle mistificazioni competitive che sottraggono solo tempo al vivere umano, rimaniamo sempre capaci di valorizzare le esperienze di amicizia, di gestire con saggezza l’incontro con i nostri simili, di cercare il senso della vita nella collaborazione e nella solidarietà, di immaginare che per migliorare la qualità di vita è necessario mettersi in sintonia con gli equilibri naturali e con quel divenire della realtà che non è solo l’oggi che viviamo, ma anche quell’enigmatico «oltre» che ci interroga al di là delle nostre convinzioni.
Ma, a fronte di questo orientamento che fa parte della nostra natura umana, di fatto, continuiamo ad essere vittime di ritmi e di vincoli che impediscono la cura di fertili relazioni umane e soprattutto di quella diffusa sindrome del dominatore, che rende incapaci di coltivare relazioni sinergiche, con i propri simili, e trasforma le proprie devastanti ambizioni in piccole e grandi arroganti pretese di sottomissione dei propri simili, esponendo tutti, ma anche se stesso, a smisurate e idiote, ingiuste e ingiustificabili, violenze.
C’è da conquistare una nostra diffusa autonomia mentale e partecipativa, una nostra capacità di confronto fra giudizi e scelte diverse, una qualità delle nostre relazioni con la realtà. C’è un’assunzione di consapevolezze e di responsabilità personali e collettive da sottrarre alle prepotenze distruttive che qualcuno vorrebbe attribuire ad una mitica lotta fra il bene e il male, per convincere che i nostri più tristi destini dipendono da questa lotta e non dagli esasperati e arbitrari interessi di parte che li scatenano.
Una mitica lotta che attivando paure, insicurezze, emergenze, in un mondo globalizzato di individui conformati ai consumi rende impraticabili le temute migrazioni che, pur lentamente, sono capaci di portare risorse e visioni del mondo alternative e necessarie, oggi, per produrre consapevoli e responsabili cambiamenti, senza i quali è impossibile vivere e condividere la felicità.
Nella realtà oggi assistiamo, purtroppo, a fenomeni inversi che certo spingono verso una gestione sempre meno razionale delle risorse ed aumentano i rischi di pericolosi collassi locali (con conseguenze imprevedibili che possono arrivare fino ad un punto terminale almeno per la sopravvivenza umana). C’è una comprensibile aspirazione, da parte delle élite delle nazioni che stanno emergendo da condizioni di sottosviluppo, a realizzarsi nei consumi delle società economicamente più avanzate.
Ma oggi senza invocare la povertà e la miseria (minacciata da chi immagina di poter, così, rimanere in eterno nelle attuali condizioni di sperpero delle risorse) le strade da imboccare sono altre e, forse, solo la disinformazione e i mancati confronti sui temi delle risorse, delle relazioni fra i popoli, possono spiegare la nostra inerzia a comprendere verso quali prospettive drammatiche ci siamo incamminati. I livelli dei consumi sono oggi in uno stadio così avanzato che forse non offrono più gli spazi e i tempi migliori per quel cambiamento epocale che dovrebbe mirare a favorire gli equilibri naturali e a trovare in essi il modo per spendere le nostre vocazioni.
Il cambiamento che sembra, oggi, più probabile, sarà anche il più radicale mai realizzato nella storia dell’uomo. In particolare, il peggio colpirà (diversamente da come alcuni immaginano) proprio quella ampie quote di popolazioni dei paesi economicamente più avanzati, che sono le più impreparate (a superare le difficoltà ignote di un cambiamento) per mancanza di esperienze e di strumenti necessari per affrontare difficoltà imprevedibili ed estreme.