Nell’attuale stato delle cose, il concetto di una sicurezza, espressa nella forma di una naturale e condivisa pratica di vita, quantomeno non trova spazi relazionali che ne permettano la sua applicazione per lo sviluppo e la gestione in una società moderna e solidale. Eppure, sono molti quelli che invocano la pari dignità di ogni essere umano e si propongono di realizzare comunità sociali di pari che, nelle diversità, trovino risorse per arricchire patrimoni vitali e comuni di esperienze e conoscenze. Sono riferimenti fondamentali che nelle dinamiche delle culture umane possono trovare gli strumenti per ridimensionare paure e timori, origine delle nostre insicurezze. In molti casi sembra, invece, che i nostri comportamenti siano deviati e diventino simili a quelli di un gregge disorientato (pronto ad essere sottomesso dal primo condottiero di turno che dovesse trovarsi a passare da quelle parti) e che ogni individuo sia privato di quella identità che è fondamento della sua autonomia.
Oggi non possiamo non sapere che il sistema economico liberista e la globalizzazione dei mercati dei consumi, mentre accumula ingiuste quantità di denaro per pochi, distribuisce elemosine a tutti gli altri, ma pretende poi la crescita continua dei consumi di massa e costringe territori e popolazioni a scelte di fatto irreversibili con la promessa di uno sviluppo che porterà ricchezza, benessere, libertà, pari opportunità e compassione per i più deboli o più sfortunati di questo nostro mondo: in realtà, tutte cose dubbie nei contenuti e ancor più nei modi, nei luoghi e nelle contropartite non negoziabili che saranno richieste. Se non vogliamo annullarci nel girare intorno alle cose senza affrontarle, c’è solo da riconoscere, con consapevolezza e responsabilità, che tutti abbiamo lasciato che fossero imprigionate le nostre libertà. Le nostre sicurezze sono state le prime vittime sia di strutture che, con prepotenza, hanno condizionato i nostri comportamenti, sia dell’arroganza di pensieri unici impegnati a deformare i nostri modi di pensare per metterli in linea con il perfido «senso comune delle cose».
Oggi, organizzazioni come Scientology possono contare su molte adesioni di personaggi dello spettacolo, della letteratura narrativa e anche sulle simpatie di personaggi del mondo della scienza. La carica ideologica, l’assolutezza del bene progressista (che si immagina possa automaticamente derivare dalle scoperte scientifiche e dalle loro applicazioni tecnologiche al benessere e alla salute umana), sono suggestioni che affascinano i credenti della religione del fare. È sintomatico (in queste come in altre organizzazioni con forti riferimenti ideologici) il modo equivoco di fare proseliti che oscura i temi della sicurezza, mentre esalta l’attesa di gratificanti premi divini o le travisate dignità umane che sarebbero assicurate a chi offre la propria fede incondizionata a questo tipo di cause. In realtà si tratta solo di proposte e di strumenti di per sé senza senso in quanto connotati da mistificanti automatismi autoreferenti (di un bene, spesso poco trasparente e sempre prossimo a venire), ma suggestivi per la tangibilità dei risultati, scientifici e tecnologici, usati come prova di fondatezza e fattibilità delle prospettive di un mondo migliore. Buone prospettive che però confondono la qualità delle conoscenze scientifiche, dei prodotti tecnico-tecnologici e delle loro applicazioni, con la qualità di un mondo che permetta, invece, di essere se stessi e di realizzare le proprie aspirazioni più profonde mettendo alla prova le proprie capacità di entrare in sintonia con gli equilibri naturali.
Dunque non è priva di fondamento l’ipotesi che nell’ambito socio-politico ed economico delle società occidentali, abbia preso piede, sotto la copertura dell’attuale neoliberismo, una sovversiva visione integralista, economico-politica, della realtà che, pur con le proprie specificità e in totale contrasto, sembra allinearsi su metodi e visioni estreme, caratteristiche del fondamentalismo islamico, a matrice politico-religiosa, ormai sempre più diffuso, in altre e ampie parti del mondo.
Tutti assolutismi che vorrebbero sottomettere la complessa gestione della diversità del vivere umano, riducendo la sicurezza a semplici e ben governabili dispositivi meccanici, quelli militari compresi. Un contesto, cioè, funzionale all’esercizio dei poteri, alla tenuta della loro continuità, alla tenuta di un ordine pubblico formale (presentato, addirittura, come necessario per la liberazione dell’uomo dalle false credenze) e al successo delle adesioni entusiastiche alle verità che qualcuno (o qualcun altro) assicura di saper svelare nell’assolutezza della loro natura. Un contesto, dunque, che convinca i molti sprovveduti, e che induca altri, a immaginare la certezza di aderire ad un vero bene (magari, anche accompagnato da un’identificazione che gratifica e rende formalmente partecipi, come protagonisti virtuali, di quella mitica vittoria finale del bene sul male, che è origine delle nostre più disastrose tragedie sociali e ambientali).
Secondo i più recenti dati, oggi, abbiamo già consumato le risorse naturali disponibili per tutto l’anno e abbiamo cominciato a consumare le riserve (che, quindi, non saranno rigenerate e che, se le cose non cambieranno, finiranno anche loro e forse non solo loro). La Terra è ancora oggi, ma non sappiamo per quanto tempo ancora, nella condizione di rispondere a tutti i nostri bisogni di sopravvivenza e offrire sicurezze per un cambiamento, ormai urgente, che possiamo perseguire facendo riferimento a quanto possiamo comprendere dai segnali provenienti dagli equilibri naturali, non per trarne una nuova ricetta ideologica, ma per leggere e interpretare il senso dei suoi equilibri vitali e (con il contributo dei risultati che la scienza e la tecnologia possono offrire), per assumere una consapevole e responsabile gestione del bene comune da spendere per il progresso umano. Dobbiamo dare qualità alla vita e alle relazioni, dobbiamo aprire gli occhi davanti all’autoreferente, opaca e inverosimile idea di mondo, solo tecnologicamente più avanzato, che siamo stati indotti a sognare fuori da ogni realtà, arrivando anche a deformare dati scientifici, e a immaginare inverosimili capacità di costruzione di un mondo e di una vita artificiali.
Ma non si può pretendere che i cambiamenti avvengano dall’oggi al domani: il meglio del progresso è una realtà dinamica e, dunque, non può essere regalata da qualcuno, ma tocca a noi tutti costruirla e curarla.
Come è nei fatti del nostro mondo (e come è proprio della nostra intelligenza comprendere), tutti i riferimenti consolidati in condizioni di sostanziale stazionarietà dei modelli di vita (quelli che hanno caratterizzato la gran parte del nostro mondo almeno fino alla metà del secolo scorso) sono stati messi in profonda crisi, se non proprio demoliti, dalle dinamiche dei cambiamenti radicali che si sono presentati (dopo la nascita e lo sviluppo ottocentesco, della rivoluzione industriale) come una più decisa svolta liberista a inizio 900, per diventare, poi e ufficialmente, modello unico di sviluppo della modernità con l’atto finale della costituzione del Wto nel 1995.
Ormai, non ci sono più spazi per libere scelte politiche e quelli per i lamenti sono solo inutili, possiamo, però, attivare forme di una partecipazione democratica (quella che è mancata nelle vicende che hanno portato al Wto) per trasformare i momenti di cambiamento traumatico (come quelli che abbiamo già avuto modo di provare sulla nostra pelle, da poco meno di un ventennio) per assumere consapevolezze e responsabilità, per creare relazioni sociali capaci di sinergie (fra e all’interno delle diverse comunità umane), per costruire, metterci alla prova e sviluppare alternative, e per entrare in intelligente sintonia con gli equilibri naturali.
L’uomo occidentale, oggi, sa discernere il limite ma anche le potenzialità di un mondo artificiale. È cosciente che il mondo naturale non è il mondo di una condizione di vita primordiale e precaria. Ha buoni motivi per impegnarsi in ricerche e in conoscenze che possono migliorare la qualità della sua vita e che possono portare a non sentirsi né superiore, né estraneo al mondo della natura. Forse non ha, però, ancora chiaro che il mondo naturale, in questa prospettiva, non è una risorsa per nuovi consumi, ma è un luogo di incontro dove esercitarsi a dialogare con intelligenza per interrogarsi su quella complessità che, al di là dei suoi inesplorabili equilibri e degli indecifrabili processi dinamici, offre le opportunità per indagare sul senso delle cose e scoprire quanto la natura possa essere fonte di risorse uniche per affrontare e offrire buone dimensioni alla realizzazione delle nostre aspirazioni più profonde. L’uomo che si è avvicinato alla natura spendendo le proprie consapevolezze ha, oggi, maggiore sensibilità e disponibilità a riconoscersi come appartenente al mondo naturale. È certamente capace di interpretare, con maggiori conoscenze e consapevolezze (attraverso i segni offerti dalla natura), i sistemi dinamici, in equilibrio fra loro, che sanno rendere vitale ogni cosa.
L’uomo sa di poter gestire un proprio rapporto sinergico con la natura, di poter collaborare (con le proprie peculiari qualità cognitive, con consapevoli riflessioni, sviluppando competenze e assumendo responsabilità) per creare sintonie creative vitali, per riconoscere che il bene degli altri è indivisibile dal bene proprio, per concordare, con i propri simili, che nascere non è consegnarsi ad un destino, ma alla prova di un bene da ricercare insieme. Un bene che non può essere un’unica proposta senza alternative, confezionata, prezzata e messa nelle vetrine di chi ci vorrebbe passivamente dipendenti da compulsioni consumistiche e da nostre miserevoli visioni solipsistiche.
Converrebbe, oggi, ripartire (e forse si avrebbero grandi vantaggi) dalla consapevolezza che in un cambiamento, nello stato attuale delle cose, si può correre solo il «rischio» di essere privati della sicurezza nociva della necessità dei consumi e dei sogni somministrati da venditori di fumo (preoccupati pero di trattenerne, per sé, la certezza della relativa sostanza che lo origina).
Al di là delle considerazioni sui fantasmi della mente e sul non conoscere (che puniscono chi ha il timore di essere se stesso e che, incautamente si riduce ad affidare, alle opacità del potere, la definizione di una propria «non identità») si deve rilevare che il non scegliere di essere se stessi, non è solo a proprio, totale danno, ma è anche a danno di tutto il proprio contesto di vita e, perfino anche a danno di quelle risorse sulle quali il potere è interessato a costruire le proprie false e suggestive certezze.
Non possiamo, dunque, non prendere atto che siamo di fronte a una diffusa deviazione, da quei comportamenti e modi di pensare, che i grandi cambiamenti (la globalizzazione, nel nostro caso) avevano promesso come segno di sicurezze raggiungibili anche da intere comunità. Nella pratica del nostro vivere attuale possiamo certamente riconoscere quanto le sicurezze siano arbitrarie e non disponibili, e quanto, invece, siano state generosamente offerte come certezze, da sedicenti verità superiori (che, in realtà, veicolavano particolari interessi di proposte autoreferenziali, per noi solo pericolose).
Le sicurezze gratuite non sono in commercio e se sono offerte, lo sono solo nell’interesse di chi le ha strutturate, le cavalca e le distribuisce nelle forme di suadenti pensieri unici. Sicurezze che, poi, sono, anche, imperdonabilmente assunte da sprovvedute vittime, come soluzioni liberatorie da problemi stressanti (che, molto probabilmente, la stessa fonte, che vende sicurezze, aveva precedentemente procurato per creare vantaggi strategici a proprio favore). Nella pratica del nostro vivere non possiamo chiedere riscontri alle ideologie (che per definizione possono solo ripetere ciò che affermano), ma dobbiamo chiedere riscontri, concreti e verificabili, alle scelte e alle opere prodotte dalle nostre intenzioni. Dobbiamo esercitarci a distinguere i processi richiamati nelle nostre scelte consapevoli verso le verità di fede del trascendente (e non importa se solo riconosciute o se rivelata), dai meccanismi che producono verità subdolamente ben confezionate (nell’interesse particolare di alcuni nostri simili) e, per aumentare la loro credibilità, sostanzialmente private di equivoci, nell’ambito delle cose e dei fatti dell’immanente.
Osservando lo stato attuale di disorientamento socio-culturale, di pericolo e di sottomissione a misere certezze (che si vorrebbero, invece, imporre come assolute), è allora evidente che oggi l’inettitudine e la pavidità non possono più rientrare nella categoria delle debolezze umane, ma diventano, invece, inaccettabili e colpevoli scelte di vita. È bene, allora, che siano chiari ai nostri occhi almeno due questioni fondamentali:
1) le scelte per il futuro, in quanto dettate da riflessioni e decisioni umane, non potranno essere mai scelte assolute di un’idea, di un’istituzione, di una persona delegata a rappresentarci; sono scelte che non possono essere legittimate dal solo fatto di essere popolari (anche se espresse con meccanismi formali di tipo democratico); è necessario, infatti, che le scelte si articolino, con intelligenza, secondo le opportunità e le risorse disponibili per dare, per esempio, le migliori risposte ai bisogni che sono i nostri veri problemi; le scelte sono un consapevole ed autonomo esercizio di libertà umana e non devono in alcun modo finire confinate come attributi del culto del fare le cose, del consumare, dell’accumulare profitti);
2) la verifica dell’efficacia dei modelli, scelti per dare risposte ai piccoli e grandi bisogni, è un obbligo dettato dalla ricerca di condizioni di sopravvivenza, ma è anche un promotore creativo di buone relazioni sociali; le idee e i modelli (che ad esse fanno riferimento) sono solo ipotesi, non sono soluzioni; ne deriva che se le verifiche non confermano i risultati attesi, i modelli e le relative idee hanno fallito il compito a loro affidato e diventa necessario sostituirli e, quindi, anche disporre di alternative già in precedenza premurosamente curate.
Sulla base di queste semplici considerazioni non è difficile farsi un’idea sull’origine dei problemi di sicurezza, a largo spettro, che affliggono in particolare questi nostri giorni. Dobbiamo abbandonare l’illusione che possano essere disponibili miracolose soluzioni, solo da applicare, a problemi di sicurezza che trovano origine nella stessa tecnica che li dovrebbe risolvere: il rischio di un furto è la conseguenza delle false sicurezze, offerte dalle tecnologie di difesa, che sono le stesse che ci hanno convinto all’acquisto di beni (assicurandoci il diritto e la difesa del loro possesso); il rischio di un incidente, di qualsiasi natura, è compreso nelle false certezze delle tecnologie che lo dovrebbero impedire e che ci convincono, invece, a sottovalutare il suo evento.
Sulla disponibilità delle esperienze e delle risorse di diversità si possono costruire, invece, quelle sintonie con gli equilibri naturali e quelle sinergie fra le creatività umane che permettono di riconoscere e definire i problemi all’interno delle piccole e grandi comunità umane, di dimensionare le priorità, di realizzare cambiamenti, verificare risultati e perseguire interessi comuni (tutte nostre peculiarità da valorizzare per dare senso vitale alle cose), di ragionare in termini di bisogni e di progresso umano.