La tragedia causò 1.910 morti. Gian Vito Graziano: «La domanda più ovvia che possiamo porci è se quella tragedia sia servita, se dopo 50 anni si sia fatto tesoro di quel che è successo. A giudicare dallo stato in cui versa il territorio italiano, si dovrebbe dire di no; dopo il Vajont la storia italiana ci racconta di troppe altri morti e distruzioni, che negli ultimi tempi sembrano diventare persino frequenti»
Le Nazioni Unite nel febbraio 2008, individuano il disastro del Vajont tra i primi cinque peggiori disastri provocati dall’uomo. L’evento: ore 22 e 39 del 9 ottobre 1963, una frana di oltre 263 milioni di metri cubi di roccia con un fronte di mille e settecento metri, di cui si conosceva l’esistenza, si stacca dal versante del Monte Toc crollando nel lago artificiale sottostante, realizzato per la produzione di energia elettrica. La massa di roccia precipitando nel lago scaraventa verso l’alto cinquanta milioni di metri cubi di acqua creando un’onda di piena che, superata la diga, s’incanala nella valle sottostante.
Pochi minuti e l’acqua, preziosa risorsa per la vita, diventa un maglio di morte che distrugge ogni forma di vita e opera realizzata dall’uomo. Una forza così violenta che cancella dalle carte geografiche il paese di Longarone con tutti i suoi abitanti. Anche i paesi di Erto, Casso e Castellavazzo subiscono danni e vittime. La tragedia del Vajont ha causato 1.910 morti tra inermi e inconsapevoli cittadini di uno Stato al quale gli stessi avevano affidato la loro sicurezza e incolumità. Una lapide ricorda che alcuni corpi non furono mai più ritrovati: «Diga funesta, per negligenza e sete d’oro altrui persi la vita, che insepolta resta».
Il Consiglio nazionale dei geologi, sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica, in commemorazione del 50° anno dal disastro della diga del Vajont ha organizzato la Conferenza nazionale sul Vajont.
Gian Vito Graziano, Presidente del Consiglio nazionale dei geologi, ha aperto i lavori ricordando:
«Questa tragedia non è solo figlia degli errori per così dire interpretativi, ma è figlia di omissioni e di superficialità di chi avrebbe potuto mettere a disposizione importanti elementi tecnici di valutazione e non l’ha fatto e di Organismi tecnici dello Stato che colpevolmente non hanno garantito lo Stato, non hanno garantito cioè i suoi cittadini. La diga è figlia di un progetto ardito, approvato dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici e più volte modificato, per aumentarne l’altezza e quindi la capacità d’invaso, senza che lo stesso Consiglio superiore si sia mai posto il problema della stabilità di quel versante, quello del famigerato Monte Toc, che era stato già oggetto di studi geologici corretti e che non aveva dato soltanto dei semplici segnali d’instabilità, ma dei veri e propri episodi d’instabilità, prima e durante la costruzione della diga. Eppure nessuno volle guardare, nessuno volle approfondire: la geologia, l’ambiente fisico, le condizioni al contorno erano poca cosa rispetto agli interessi economici in gioco. Ancora oggi troppo spesso la geologia è poca cosa rispetto agli interessi economici in gioco».
Per molti anni e molti (opinionisti, tecnici, scienziati e uomini dello Stato) hanno voluto sostenere che quello del Vajont era da annoverare nell’elenco dei grandi disastri naturali, quei fenomeni imprevisti e imprevedibili che il destino improvvisamente fa accanire contro l’umanità. Per anni si è cercato di sostenere che «gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva, ma indifferente».
Oggi sappiamo con certezza che non è stato così, raccontare senza filtri quello che è accaduto nel 1963 in Vajont, come ha fatto dal 1997 Marco Paolini e Gabriele Vacis con il suo libro/spettacolo «Il racconto del Vajont» (ridistribuito in questi giorni dalla casa editrice Garzanti), insegnare nelle scuole e nelle università gli errori tecnici commessi e ripetuti, potrebbe aiutare tutti ad acquisire una coscienza di buona progettazione in relazione ai caratteri dell’ambiente; potrebbe concretamente contribuire ad accrescere in ogni cittadino la coscienza della previsione e prevenzione i cui costi iniziali sono ripagati nel tempo con la protezione delle vite umane e la tutela del territorio.
Così ha terminato il presidente Gian Vito Graziano: «La domanda più ovvia che possiamo porci è se quella tragedia sia servita, se dopo 50 anni si sia fatto tesoro di quel che è successo. A giudicare dallo stato in cui versa il territorio italiano, si dovrebbe dire di no; dopo il Vajont la storia italiana ci racconta di troppe altri morti e distruzioni, che negli ultimi tempi sembrano diventare persino frequenti. Dal 2009 a oggi, negli ultimi cinque anni, dai 37 morti di Giampilieri, assistiamo con una frequenza allarmante ad alluvioni e frane, che coinvolgono il Paese da Nord a Sud, senza risparmiare città importanti, ricche e industrializzate come Genova, aree altrettanto ricche e industrializzate come il Veneto, aree di grandi tradizioni storiche e culturali e di grande bellezza paesaggistica come la Toscana».