Cercare il senso proprio della qualità

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Non possiamo, dunque, confondere fenomeni, concretamente definiti da una misura di quantità (che si presenta, peraltro, con gli ignoti limiti delle applicazioni deterministiche consentite dalle sole proprietà che riusciamo a interpretare), con fenomeni non quantizzabili numericamente (quindi non finalizzati ad un immediato calcolo di consumi e di profitti e non destinati a un’immediata e, forse, anche infertile e non necessaria, morte entropica) che permettono, invece, alla nostra mente di esplorare nuove prospettive e di progettare le alternative per alimentare un progresso umano. Dobbiamo alimentare la ricerca sul senso delle conoscenze e delle nostre opere e sulle nostre capacità creative, per prefigurare scenari di vita, prima di realizzarli, per metterli alla prova e verificarli, assumendo consapevoli responsabilità sugli effetti, sulle correzioni e sui rimedi che consentono di continuare ad assicurare gli equilibri naturali, la fertilità e rinnovabilità delle risorse del sistema vitale che accoglie e offre sostegno alla nostra presenza. Dobbiamo realizzare condizioni di progresso che diano senso a una visione umana del mondo, alle potenzialità creative del nostro saperci relazionare e coordinare con i fenomeni vitali, alla nostra propensione a indagare i significati del vivere. Proprio su questi ultimi, dobbiamo curare le nostre riflessioni perché si tratta di significati nodali che permettono di riconoscere, nella loro diversità, le opportunità per interpretare il bene, la solidarietà, la ricerca sui fini ultimi del nostro esistere.

Dobbiamo valorizzare tutte le occasione che permettono di valutare non la precisione di uno strumento o della misura di qualche parametro, ma di riconoscere le indicazioni (quelle che danno senso umano alle risorse del pensiero e alle capacità umane di operare) e le diverse direzioni che permettono di scegliere una linea di progresso umano, da praticare, e non solo per fare promesse e finire, poi, col trovarsi, di fatto, sprovveduti di una cultura, e non solo dei mezzi, per superare i vincoli che lo impediscono.
È di questi giorni lo scandalo del Datagate. I telefoni, in particolare i cellulari personali, incontestabili strumenti di facilitazione delle comunicazioni e delle relazioni, in realtà non solo sono diventati un Luna Park di servizi (nella gran parte senza senso, se non anche occasioni per deviate pratiche di comunicazione e relazione), ma sono usati anche come strumenti micidiali di controllo del mondo. Possono, paradossalmente, rilevare e memorizzare anche singole questioni personali, che forse sfuggono all’attenzione degli stessi che sono oggetto delle intercettazioni. Sono strumenti che possono essere usati per interferire e danneggiare occultamente le linee politiche e l’economia di interi paesi e continenti. Tutta un’attività fraudolenta, fino a diventare anche criminale, condotta all’ombra di oscure ambiguità e prepotenze: all’ombra di mistificanti rappresentazioni e dichiarazioni in difesa della democrazia; all’ombra della neutralità vantata delle regole e dell’equilibrio dei mercati, garantito dalla domanda e dell’offerta; all’ombra del «sano» spirito liberista (che racconta agli sprovveduti favole di un mondo migliore, mentre offre potenti e micidiali occasioni per la formazione e l’espansione di centri di potere); all’ombra di complicate fantasie, spacciate come condizioni di complessità naturali e utilizzate per giustificare folli progetti tecnologici di possesso del mondo (dagli Ogm e da una possibile guerra biologica che renda impraticabile l’agricoltura naturale, dal controllo totale degli individui giustificato dalla necessità di prevenire attacchi terroristici, per arrivare fino al mercato senza regole della finanza resa florida da paesi prigionieri dei suoi ricatti); all’ombra del sistema del libero mercato dei consumi, della competizione e del successo che induce a comportamenti sleali e illegali per prevalere sui concorrenti; all’ombra di un futuro nel quale, come sostengono alcuni ottimisti (sconfessati dalla realtà e dalla avidità sempre crescente che porta a rincorrere solo profitti sempre maggiori): «la prosperità si diffonde, la tecnologia progredisce, la povertà si riduce, le malattie si riducono, la fecondità diminuisce, la felicità aumenta, la violenza si atrofizza, la libertà cresce, la conoscenza fiorisce, l’ambiente migliora e la natura si espande».
A ben vedere, i propositi del liberismo in atto (che sarebbe sviante definire «programmi») sono, però, altri. Sono quelli di uno sviluppo dell’economia mondiale, subdolamente asettico e persuasivo, ma che, di fatto, implica geno-emarginazioni e impoverimenti di risorse, che opera potentemente e senza regole in territori sottratti a ogni controllo (pur pretendendo, però, garanzie assolute per se stesso). Sono, ancora, i propositi che destinano intere comunità ai ruoli subalterni della produzione industriale e dell’appoggio logistico alle attività finanziarie speculative (fino all’occultamento e difesa di capitali e profitti illegali) e che sconsideratamente si affanna nella direzione di un progressivo e folle dissanguamento delle risorse vitali, compromettendo, così, la sopravvivenza (e non solo la salute e la felicità) degli esseri umani, in vaste regioni del nostro mondo.
Ma, a fronte di questo stato delle cose, purtroppo rimaniamo inerti. Forse non abbiamo la piena consapevolezza che le risorse culturali e le capacità operative sinergiche umane sono risorse che, se orientate consapevolmente e responsabilmente, possono diventare fondamentali per offrire vere prospettive di qualità (alla diversità dei nostri modi di vivere) forse ancora ignote alle nostre riflessioni. Possiamo, per esempio, realizzarci, nella nostra verificata e mai negata natura sociale (anche quando ci rendiamo conto di non poterla praticare nella sua interezza), facendo leva sia sulle sinergie per rispondere in modo razionale e ottimizzato ai bisogni, sia sulle nostre specifiche peculiarità: sul nostro saper riflettere sulle cose (per cercarne il senso) attraverso le relazioni che compongono la realtà e che arricchiscono tutti senza impoverire nessuno; sul saper fare scelte inclusive (che riconoscono identità a tutte le nostre diversità e alle comunità che le esprimono); sulle nostre capacità creative (che sulla diversità non costruiscono destini, ma pratiche di vita condivise che possono rispondere in modo propositivo alle nostre personali e più profonde aspirazioni).
La qualità, quella che vive di alternative offerte dalla diversità, quella che nel divenire delle cose alimenta il continuo diventare noi stessi, quella che cerca il senso delle cose negli scenari dell’immanenza e trascendenza dei fenomeni vitali, non la incontreremo mai nei target produttivi o nelle performance competitive o nelle tecnologie più avanzate o in altre questioni simili che, senza significati e finalità umane, possono solo avvitarsi su se stesse e certamente non comprendere e non decidere nulla, che abbia senso, sul modo di essere e di esprimersi della nostra natura e sulle nostre capacità creative. La qualità non si trova nelle novità (tecnologiche o ideologiche che vorrebbero imporsi come idoli inanimati) che, pur se suggestive, non dispongono dei presupposti per comprendere (e non solo per entrare nel merito) del senso del nostro saper ideare, realizzare e verificare progetti e saper, poi, ritornare su di essi (per ritrovare ragioni più profonde del nostro esistere) con altre soluzioni da provare, con nuove situazioni da affrontare e con la prospettiva di diventare più consapevoli e responsabili verso le cose esistenti e verso le esperienze umane da costruire e condividere. Abbiamo risorse di autonomia e di creatività che ci rendono partecipanti attivi di un vivere sociale intenzionale, estraneo alle sterili pratiche del consenso acritico e all’esercizio di un potere meccanicamente alimentato dai consumi, dalle mode e dai profitti.

La qualità viene, oggi, arbitrariamente attribuita sia a uno standard di consumi imposti attraverso le mode, sia alle pratiche per assicurare un benessere psicofisico funzionalmente combinato (secondo ruoli e condizioni) per offrire relazioni formali, confinate neutralità, rassicuranti modelli di comportamento rituale, rilassanti e appaganti consumi compulsivi, farmaci e interventi che promettono migliori performance (per esempio, di acquisire qualcosa che temiamo di non avere o qualcosa in più rispetto a ciò che già siamo e abbiamo). Dai lifting che consentono la simulazione di un’immagine, di se stessi, formalmente migliore, dalle frequentazioni di corsi di varia natura (alta cucina, sport estremi) per trarre rassicurazioni inattaccabili sulle proprie capacità competitive e di successo, dall’acquisizione di tecniche per il recupero di relazioni interpersonali convenzionali e predefinite (dopo traumi da alienazione per mancanza di relazioni sociali o per gli insopportabili ritmi di lavoro imposti da esigenze produttive), emerge tutto uno scenario di vita ricostruito e costituito da elementi formali di un mosaico senza significato, o nel migliore dei casi, solo attrezzato per esprimere buoni propositi e sentimenti.
Precisione, rigore, correttezza, affidabilità, funzionalità, sicurezza, certificazioni, e tutte le regole a salvaguardia dei diritti dei cittadini consumatori, sono riferimenti essenziali per favorire condizioni per il nostro benessere fisico e psichico, ma sono (nella loro sostanza formale) inadatti a indicare la portata dinamica di una qualità che si realizza, invece, in un’altra dimensione, in quella personale e condivisa della ricerca sul senso, non quantizzabile, delle nostre attività relazionali con ogni realtà, immanente e trascendente, che può essere concepita dalla nostra mente e sperimentata dalle nostre capacità fisiche.
Non è corretto, ma neanche conviene, perciò, immaginare, tali riferimenti quantitativi (di sostanza e contenuti delle cose) come indicatori di una qualità che, pur se approssimata in modi estremi, non può essere misurata da indici numerici. La qualità non può essere ridotta a oggetto di nostri contraddittori convincimenti sul peso di fattori, che ne vorrebbero definire (con una comparazione numerica) il livello, per vantare, poi, una scala di supremazie fra le diverse qualità. Non si può ignorare, cioè, che in natura, uomo compreso, la qualità di una propria riconosciuta e curata diversità non divide e non misura inesistenti superiorità assolute, ma alimenta la qualità dei fenomeni dei quali è partecipe. Per esempio, in questa prospettiva, possiamo riflettere non solo sull’autonomia della creatività e sulla flessibilità di tutti gli elementi vitali dei fenomeni naturali, ma anche sull’impegno, di ciascun individuo umano (con le sue qualità strategiche di diversità e unicità), a dare tenuta dinamica agli equilibri sociali della sua comunità e a quelli naturali del suo ambiente di vita.