Bioetica della sperimentazione animale e dei metodi alternativi

1036
Tempo di lettura: 8 minuti

La didattica delle facoltà di farmacia, medicina e biologia viene influenzata da professori e ricercatori a loro volta formatisi in contesti in cui la sperimentazione sugli animali-non-umani è la prassi, l’approccio scientifico rigoroso da seguire. Questo limita le possibilità di obiezione di coscienza da parte degli studenti, che ricevono pressioni psicologiche dirette e indirette contestando il metodo degli insegnanti, e impedisce lo sviluppo di ricerche sui metodi alternativi

La fine delle cose non avviene mai quando le cose finiscono. Partendo da questa considerazione appare facile constatare che ogni fase storica umana non si è conclusa con l’esaurimento della risorsa naturale che l’ha caratterizzata. L’Età della pietra non è finita con la fine delle pietre, così come l’Età del bronzo non è terminata con il depauperamento della lega di rame e altri metalli. Occupandomi da tempo di ecologia, oltre che di biologia ambientale ed evolutiva, posso tranquillamente affermare che, allo stesso modo, l’era del petrolio non terminerà con l’esaurimento di questo combustibile fossile, nonostante sia stato previsto che il suo picco coinciderà proprio con il prossimo decennio.
Affinché un’era finisca c’è bisogno di un cambiamento culturale. E questo è vero anche per la sperimentazione sugli animali. In molti, anche in campo accademico, sostengono che gli animali da laboratorio sono «una risorsa rinnovabile» e continuano a giustificare la sperimentazione animale come un male necessario. Come scriveva il filosofo Thomas Kuhn: «Perché possa avvenire una rivoluzione scientifica c’è bisogno che cambi il paradigma di riferimento». Innanzitutto, allora, è fondamentale che cambi il lessico di riferimento. È necessario che si parli di sperimentazione sugli «animali-non-umani» affinché l’illusorio confine di separazione tra uomo e animali venga definitivamente eliminato.

Dall’uomo agli animali…

Vi sono domande che, pur non essendolo sempre state, attualmente appaiono retoriche e di facile risposta, come: perché non si sperimenta più sugli ebrei? Perché si continua (segretamente) a sperimentare sugli africani o sugli indiani? Perché si sperimenta sugli animali non umani?
Sebbene la risposta alle prime due è semplicemente: perché in ogni epoca storica si sono utilizzati esseri viventi ritenuti inferiori e privi di diritti; una risposta al terzo interrogativo tentano di darla gli stessi sperimentatori: «La scelta delle specie utilizzate è dettata da considerazioni etiche ed economiche, oltre che scientifiche: i piccoli roditori di laboratorio quali il topo, il ratto e il criceto, sono le specie di elezione per le contenute dimensioni e il rapido ciclo riproduttivo». (Pacchierotti F. e Russo A., 2004)
Appare evidente, però, come le considerazioni etiche e scientifiche non vengano nemmeno menzionate.
Affinché possa avvenire il cambio di paradigma suggerito da Kuhn l’antropologia ci dice che sono fondamentali due fattori: economico ed etico.
Il fattore economico, che apparentemente tenderebbe a facilitare il rapido passaggio a sperimentazioni alternative (considerata la differenza di costo rispetto alla sperimentazione sugli animali-non-umani), in realtà mostra attualmente una tendenza verso il mantenimento e, anzi, l’incentivo dell’uso di animali nei laboratori biomedici.
Un tale controsenso si realizza perché, anche in campo biomedico, viene posta in essere quella che è possibile definire «La strategia Monsanto». Seguendo il modus operandi della multinazionale americana delle sementi, il potere economico viene concentrato nelle mani di poche aziende affinché la biodisponibilità sia limitata e brevettata. Nel caso dell’agricoltura, ai contadini viene privato il diritto e la possibilità di coltivare utilizzando sementi autoprodotte e viene imposto l’acquisto, direttamente dall’azienda, di semi brevettati.

Le lobby

Così, nel settore biomedico, una delle principali ragioni economiche che tiene in vita la sperimentazione sugli animali-non-umani è lo strapotere di alcune aziende che allevano e riforniscono di animali da laboratorio le università (i cui singoli dipartimenti, con le loro risicate risorse economiche, non potrebbero permettersi allevamenti intra moenia o la realizzazione di impiantistica e laboratori per lo sviluppo di metodi alternativi) e rallentano lo sviluppo di metodologie sperimentali alternative, come i test in vitro su microorganismi e colture cellulari che potrebbero essere autoprodotti dalle singole istituzioni di ricerca.
Così anche la didattica delle facoltà di farmacia, medicina e biologia viene influenzata da professori e ricercatori a loro volta formatisi in contesti in cui la sperimentazione sugli animali-non-umani è la prassi, l’approccio scientifico rigoroso da seguire. Questo limita le possibilità di obiezione di coscienza da parte degli studenti, che ricevono pressioni psicologiche dirette e indirette contestando il metodo degli insegnanti, e impedisce lo sviluppo di ricerche sui metodi alternativi.
A livello politico si riscontra la stessa situazione, come nel recente caso dell’affossamento da parte del ministero della Salute del «Tavolo ministeriale sulle alternative ai test con animali».
Il secondo fattore, in grado di facilitare il cambio di paradigma, è di tipo etico.
Ci si potrebbero porre tre quesiti, i quali ripercorrono i progressi bioetici compiuti dall’umanità:
1) Se uccidere è sbagliato, uccidere per migliorare la condizione umana è giusto?
2) Se uccidere propri simili è sbagliato, ucciderli per migliorare le condizioni di vita della propria specie è giusto?
3) Se uccidere propri simili per migliorare le condizioni di vita della propria specie è giusto (o sbagliato), uccidere individui di altre specie è giusto?
La risposta per tutti è: Sbagliato! Sbagliato! Sbagliato! Come dichiarato da Albert Schweitzer, medico, teologo e filosofo tedesco, Premio Nobel per la Pace: «L’etica nel nostro mondo occidentale si è finora in gran parte dedicata alle relazioni tra gli uomini. Ma questa è un’etica limitata. Noi abbiamo bisogno di un’etica senza confini che includa anche gli animali».
Io aggiungerei che abbiamo bisogno di un’etica senza confini che includa la vita intera.
Negli ultimi giorni, in seguito alla mia missiva rivolta alla paziente Simonsen che è balzata agli onori della cronaca con un provocatorio e fuorviante messaggio pro sperimentazione sugli animali, mi sono stati posti numerosi interrogativi. Tra questi, mi ha colpito l’osservazione di uno dei commentatori secondo il quale da biologo evolutivo non dovrei stupirmi del fatto che una specie ne usi un’altra per sopravvivere/nutrirsi/migliorare le sue condizioni.

Come fanno gli animali…

Sarebbe necessario un intero convegno per rispondere a una simile affermazione, ma sintetizzando all’estremo potrei facilmente rispondere che, a quanto mi risulti, nessuna specie, in Natura, ne usa un’altra per sperimentare come migliorare le sue condizioni di vita. Non si è mai documentato, infatti, un solo caso di topo che usa un ratto per verificare se il cibo è avvelenato. Inoltre, nessuna specie, in Natura, ne usa un’altra per testare come sopravvivere a una sua problematica. Non si è, altresì, mai visto uno gnu spingere lungo il fiume Mara una zebra per capire dove sono posizionati i coccodrilli affamati.
La competizione, in Natura, tende alla cooperazione (alla sopravvivenza di entrambe le specie mutualistiche), perché evolutivamente più vantaggiosa!
D’altronde, se l’uomo accettasse come principio esistenziale e morale, basilare, semplicemente che «una specie ne usi un’altra per sopravvivere/nutrirsi/migliorare le sue condizioni» e giustificassimo in questo modo la sperimentazione animale, dovremmo anche accettare lo stupro e l’infanticidio (comportamenti presenti in molte specie, sebbene spesso causati da limitazione degli habitat e stress di origine antropogenica), che la «moralissima» umanità, in questi casi, ripudia. Sarebbero comportamenti altrettanto naturali, eppure vengono puniti con l’arresto nella società umana.

Un metodo valido?

Perché, allora, l’utilizzo degli animali nella ricerca viene ritenuto esente da critiche, seppur scientificamente valide, considerato «puro» e addirittura da incentivare, nonostante faccia parte secondo alcuni della stessa categoria di comportamenti «d’utilizzo naturale» di una specie nei confronti delle altre?
Ponendosi, però, questi interrogativi di tipo bioetico in grado di mutare il paradigma esistente, da scienziati non possiamo evitare di chiederci se la sperimentazione sugli animali-non-umani sia valida scientificamente.
La risposta è chiaramente: no! No, perché il «modello sperimentale animale», proprio perché differenziato a seconda della specie d’interesse, non può essere esteso al regno, tantomeno applicato all’animale uomo, a meno che la cavia non sia umana. No, perché il «principio d’induzione» della patologia simula in maniera impropria l’insorgenza delle malattie umane in animali-non-umani sani, generando un errore sperimentale di base. No, perché, sebbene il patrimonio genetico possa essere simile, la fisiologia e la biochimica di una specie è estremamente differente rispetto a quelle di ogni altra.
Inoltre, allo stato attuale e come previsto dalle normative internazionali, non è possibile definire la validità o l’efficacia di un farmaco o di una terapia genica direttamente dopo la fase di sperimentazione sugli animali-non-umani, ma è obbligatorio un trial clinico sull’uomo prima dell’applicazione biomedica o della commercializzazione del farmaco o della terapia.
Quindi, il gioco non vale la candela. O meglio, il «sacrificio» non vale le sofferenze di miliardi di animali-non-umani utilizzati nei test di laboratorio di tutto il mondo.

La bioetica

Tornando alla bioetica, allora, possiamo stabilire l’assioma che ci conferma che: non è possibile sperimentare sugli animali-non-umani. Quanti sarebbero d’accordo a far nascere, in maniera programmata, feti umani per destinarli alla sperimentazione? Si tratterebbe certamente del metodo più affidabile e specie-specifico a disposizione. Chi lo farebbe con suo figlio? Qualcuno sarebbe d’accordo se si continuasse a sperimentare sugli ebrei? Forse qualcuno ancora sì. Ma per fortuna verrebbe presto arrestato. E su una scimmia? Su un topo? Che differenza fa? Non è sempre vita?
Uno scenario paradossale dimostra facilmente l’assioma bioetico: se esistesse un’altra specie, mettiamo di topi superevoluti, che trattenesse donne in stabulari pieni di gabbie e naftalina, che facesse loro partorire un figlio dopo l’altro per destinarli ad atroci esperimenti, indurre loro patologie e poi destinarli alla morte, l’uomo dall’alto della sua arroganza e con indignazione estinguerebbe questa crudele specie, che per curare le sue malattie sacrifica i nostri bambini.
Non concordo assolutamente con quanto asseriscono alcuni medici o biologi, come il dott. Casamassima che per giustificare il male necessario della sperimentazione animale risponde alle mie critiche al modello sperimentale sugli animali-non-umani in questo modo: «Solo attingendo alle indicazioni di un’etica della responsabilità si può oggi accettare di essere curati, come umani, togliendo la vita a viventi non umani, proponendosi di porgere loro come risarcimento metastorico i vantaggi complessivi di un miglioramento di vita sulla biosfera, che non può che essere all’inizio individuale o meglio di specie ma che, responsabilmente utilizzati, possono e debbono ribadirsi su tutti i viventi».
Appare evidente come la miglior sopravvivenza di una singola specie, ottenuta illusoriamente sacrificando animali-non-umani, non migliori assolutamente la vita dell’intera biosfera, anzi spesso crea sovrappopolazione e depauperamento delle risorse e delle nicchie ecologiche disponibili alle altre specie. Non vedo come potrà mai esserci alcun «risarcimento metastorico», poiché i vantaggi semmai reali saranno esclusivamente per l’arrogante specie Homo sapiens sapiens, mentre costeranno la vita inutilmente a milioni di cavie non umane.
Dobbiamo riconoscere che la filosofia indica la strada, ma spetta alla scienza trovare le soluzioni per affrontare il cammino. In questo caso, la bioetica traccia il confine, la biologia esplora le possibilità, ma se la medicina va alla ricerca di cure per l’uomo… la risposta può trovarla solo nell’uomo! Da un punto di vista bioetico, se le scimmie facessero medicina, i test sulle scimmie sarebbero eticamente e scientificamente accettabili!
Sono lapalissiani e noti a tutti gli scarsi progressi realizzati nella ricerca contro il cancro, dopo oltre 50 anni di sperimentazione sugli animali-non-umani. Attualmente si ricorre ai tre seguenti approcci di cura, esattamente come all’inizio della sperimentazione: asportazione chirurgica, chemioterapia e radioterapia.
Gli scarsi risultati nel settore, nonostante gli ingenti fondi a disposizione, sono inequivocabilmente da attribuire all’errato approccio interspecifico e aspecifico.

I metodi in vitro

La Direttiva 86/609, recepita in Italia con Decreto Legislativo 116/92, ha introdotto il principio delle 3R (traducibili come: Rifinire, Ridurre, Rimpiazzare). Queste 3R, però, devono diventare una: rimpiazzare la sperimentazione sugli animali-non-umani con metodi alternativi.
Per la sperimentazione cosmetica, alimentare e tossicologica questo è già possibile (mediante analisi in vitro, modelli computerizzati, analisi chimica e clinica, etc.). Per quanto riguarda la sperimentazione medica e farmaceutica è necessario, invece, un approccio sistemico.
La sperimentazione cosmetica, alimentare e tossicologica si avvale di metodi in vitro come le colture cellulari, le colture tissutali o i test su microrganismi (batteri, lieviti, virus), di analisi chimiche (Hplc, Ms, Elisa, etc.), di ricerche cliniche (analisi cliniche e genetiche su materiale biologico come gli scarti da interventi chirurgici; esame di sangue, urine, feci, saliva; eco-tossicologia ambientale, etc.), di tecniche di imaging (Tac, Pet, Risonanza magnetica, Laser scanner, etc.), di microdosaggi su pazienti controllati, etc.
I metodi in vitro sono molto promettenti e avanzati. Essi vengono differenziati in test con microrganismi (test di reversione e test error-prone in Salmonella ed E. Coli, test di mutazione genetica nei lieviti Saccaromycetes sp., etc.) e test con colture cellulari eucariotiche (test Hprt; test TK Timidina chinasi; analisi DNA: test di Comet, eluizione alcalina, test Uds; analisi citogenetica: aberrazioni in metafase, test dei micronuclei, Pcc e Fish, etc.).
La sperimentazione biomedica e farmaceutica si avvale già da tempo di plastici, manichini e simulatori (per la didattica), studi epidemiologici (per patologie target), bioinformatica (modelli computerizzati Sar e Qsar, reti neurali, etc.) e di nuove ulteriori tecnologie (come i microcircuiti cellulari, i microchip al DNA, gli organi bio-artificiali, etc.).
Nella sperimentazione biomedica, è importante sottolinearlo per onestà intellettuale, esiste una grande criticità: manca un approccio di tipo sistemico! Risulta, quindi, indispensabile andare oltre la sperimentazione animale e il riduzionismo, rispondendo alle due principali necessità della sperimentazione biomedica: analisi a livello sistemico (effetti sull’intero organismo) e valutazione di efficacia e danni in seguito a biodistribuzione e del metabolismo.
Sono stati definiti sin qui i seguenti capisaldi: la sperimentazione sugli animali-non-umani è eticamente, economicamente e scientificamente sbagliata; un insieme di cellule non è un organo; un insieme di organi non è un organismo; e, il settore biomedico necessita di un approccio sistemico e olistico, non riduzionistico.
Quali sono, dunque, le alternative etiche-economiche-scientifiche alla sperimentazione sugli animali-non-umani in biomedicina? Sono già disponibili, anche se ancora poco utilizzati, test calibrati sui pazienti affetti; terapie individuali con analisi farmacocinetica e farmacodinamica; protocolli di medicina personalizzata; analisi sistemica delle cure sui pazienti affetti e valutazioni epidemiologiche dell’efficacia (ad es., vaccino RTS,S contro malaria risultato inefficace).
È fondamentale, allo stesso tempo, che si realizzi una chiara etichettatura dei farmaci e delle terapie, che non solo indichi al paziente quali metodi sperimentali sono stati utilizzati durante la cura, ma permetta studi in grado di valutare e discriminare l’efficacia delle terapie che utilizzano o meno la sperimentazione sugli animali-non-umani.
È imprescindibile una ricerca mirata alla scoperta di altre valide soluzioni, ma dev’essere chiaro che il successo biomedico e il miglioramento dell’efficacia delle cure passa per il divieto assoluto di test sugli animali-non-umani!
«Dobbiamo svuotare le gabbie, non renderle più grandi» ha scritto il filosofo Tom Regan nel suo famoso libro «Gabbie vuote». E questo è l’obiettivo della filosofia, dell’economia e soprattutto della scienza. E degli scienziati che in essa credono, come in un mezzo per conoscere e apprezzare la vita.
Da biologo non posso dimenticare che è mio dovere «ragionare sulla vita» e non favorire metodi di morte.