Ci può salvare solo un’«educazione al fare»

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«Oggi viviamo la contraddizione profonda, e assai rischiosa, tra l’urgenza drammatica dei cambiamenti climatici e l’esigenza di modificare i nostri stili di vita e le nostre aspettative in modo da mitigare per tempo i loro effetti. Ognuno può valutare i pericoli che gli indubbi ritardi, non solo nel nostro Paese, comportano»

– Perché questo dibattito on line 

– L’intervento di Ugo Leone 

– L’intervento di Walter Ganapini

È un momento di grandi fibrillazioni a livello nazionale e globale, in cui l’economia mette a dura prova le politiche dei governi, e la natura pare voglia prendersi lo spazio che finora le abbiamo conteso. Viene quindi spontaneo chiedersi dove stiamo andando. Per questo continua il nostro dibattito on line tendente a «scoprire» dov’è finito l’ambientalismo italiano, che strade ha percorso e perché siamo ancora a questo punto dopo anni intensi di elaborazioni scientifiche, iniziative e leggi anche storiche. Dopo gli interventi già pubblicati, ospitiamo ora un’intervista ad un altro padre dell’ambientalismo italiano: Massimo Scalia.
Scalia è professore di Fisica Matematica al Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma. Fondatore di Legambiente, delle Liste Verdi è stato tra i primi parlamentari eletti negli anni Ottanta, poi capo gruppo e ancora primo presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Il suo nome è legato alle battaglie contro il nucleare e per le energie sostenibili.

 

Lei è considerato uno dei padri dell’ambientalismo italiano. È stato impegnato in attività produttive, ha elaborato progetti, ha ricoperto incarichi istituzionali, sempre con l’attenzione per la creazione concreta di realtà che dessero un contributo alla soluzione di problemi ambientali che affliggono la nostra società. Quell’impulso dato anni fa di importanti risultati raggiunti sembra essersi fermato da tempo. Secondo lei che cosa è successo?
Nel mondo quell’impulso non si è fermato, anche se procede a stento e con difficoltà. Né c’è da stupirsene, perché tutti i grandi temi dell’ambientalismo evocano in realtà la «riconversione ecologica dell’economia e della società», che abbiamo proposto da almeno un quarto di secolo e che impatta fortemente contro grandi interessi e grandi poteri.

Dividiamo il discorso fra politica e ambiente. Perché la politica ha perso la sua autonomia e capacità di decidere per il bene dei cittadini, e non solo in Italia?
È opinabile che, storicamente, la politica abbia espresso «autonomia» e che decida «per il bene dei cittadini». Questo è ciò che vorremmo e che hanno teorizzato filosofi ed economisti e che, in qualche periodo storico e in qualche Paese, si è, almeno parzialmente, realizzato. Ma temo che in realtà sia, più che altro, una pretesa; sicuramente da quando negli ultimi millenni si sono consolidate in tutto il mondo le civiltà stanziali. La dinamica masse/potere si è svolta quasi sempre uguale a sé stessa; l’unico vero fatto innovativo che ha in parte modificato questa dinamica è stato l’invenzione della democrazia da parte della civiltà greca.

Perché l’ambiente non è entrato negli stili di vita, trasformando la quotidianità di ognuno di noi, e si deve sempre intervenire in condizioni di emergenza?
Sostanzialmente perché, credo, la modifica degli stili di vita è un fatto culturale e abbiamo imparato che questo tipo di mutazioni richiede molto tempo, quello necessario perché una nuova cultura si affermi al punto tale da comportare atteggiamenti conseguenti nella maggioranza dei cittadini. Cambiare stili di vita implica poi, al profondo, di interiorizzare la convinzione che è necessario stabilire un nuovo equilibrio, senz’altro oggi tecnologicamente possibile, in cui le attività dell’uomo rispettino i grandi cicli della Natura. E operare conseguentemente.
Oggi viviamo la contraddizione profonda, e assai rischiosa, tra l’urgenza drammatica dei cambiamenti climatici e l’esigenza di modificare i nostri stili di vita e le nostre aspettative in modo da mitigare per tempo i loro effetti. Ognuno può valutare i pericoli che gli indubbi ritardi, non solo nel nostro Paese, comportano.

Di fronte ai cambiamenti climatici e alla fragilità del territorio non corrisponde un’adeguata legislazione. Esistono emergenze in tutti i settori, dall’alimentazione alla qualità dell’aria, con terribili ripercussioni sulla salute e la qualità della vita. Le rivoluzioni fra fine Ottocento ed inizio Novecento portarono a formazioni politiche anticapitalistiche fra cui il comunismo. Protagonisti di queste rivoluzioni furono operai e contadini. Oggi c’è un senso diffuso di malcontento che parte egualmente dal basso ma con motivazioni e cause ambientali. Ci troviamo ancora di fronte ad un movimento frammentato ma i vari no-Tav, no-Tap, movimenti per l’acqua, antinuclearisti, le varie madri della Terra dei fuochi, il caso Ilva, ecc. incalzano sempre più la politica. Pensa che siamo di fronte alla nascita di un qualcosa che segnerà questo secolo?
Alla fine degli anni 70 e nei primissimi anni 80 ci interrogammo, qui da noi e in collegamento con altri movimenti presenti in Europa, su quali strati sociali «puntare» per quel cambiamento radicale che la «classe operaia» non era in grado di garantire (dubbio per alcuni, evidenza per altri) secondo i «compiti» invero gravosi, e utopici, che Karl Marx gli aveva assegnato.
Erano gli anni che spingevano alcuni sociologi a teorizzare sul movimento degli «inquilini degli attici», altri sui «movimenti dei cittadini», con questo sottolineando l’esistenza di nuovi ceti, relativamente abbienti, sottorappresentati politicamente e, soprattutto, acculturati al livello di saper posporre i loro interessi personali a preminenti interessi generali. Alcuni di noi si misero alla ricerca di questi nuovi soggetti mentre altri, seppur non entusiasti, ribadirono la loro «fedeltà» alla classe operaia. Ma, al di là delle vicende soggettive, è in questo contesto che va collocata la nascita politica dei Verdi in tutta Europa e la loro crescita, che, seppure con oscillazioni, li ha portati nel giro di neanche vent’anni ad avere in vari Paesi europei risultati elettorali anche a due cifre, ruoli di governo nazionale o il governo di uno dei «motori d’Europa», il Baden-Württemberg.
Già, in Italia questo successo non c’è stato, ma lo spiegare il perché esula dalle brevi e schematiche risposte a queste domande. E questa diversità del destino dei Verdi è aggravata dai formidabili risultati invece ottenuti: dalla legislazione organica su fonti rinnovabili e risparmio energetico (leggi 9 e 10 del ’91) la prima al mondo, al bando dell’uso e della produzione dell’amianto, dall’istituzione dei parchi alla regolamentazione dei rifiuti, dalla sicurezza sul lavoro alla difesa degli animali, dalla tutela del mare al riconoscimento della difesa del suolo come priorità di politica economica con relativi ingenti stanziamenti (1999 – 2001). Per non parlare della vittoriosa battaglia contro il nucleare, fino alla sua chiusura (1990).
Il senso di rinnovamento della politica pervase gli anni 80 e buona parte degli anni 90, non solo in Italia. Da noi c’era stata l’onda lunga che aveva spostato a sinistra una parte significativa dell’elettorato e ingenerato, in termini socio-politici, un nuovo interesse per la politica, con la nascita di formazioni del tutto inedite (la «Rete», la «Lega») anche prima dello sfasciarsi dei due «partiti di governo» (DC e Psi) sotto i colpi di Tangentopoli. Come poi è andata a finire, almeno sul piano politico, ha a che vedere con la peculiare disposizione, ricorrente, di gran parte del popolo italiano ad accontentarsi dei molteplici miti del populismo e della figura del conducador che farà del bene a tutti, a soggiacere al fascino tutt’altro che discreto della illegalità, ammantata da quella tradizionale «furbizia» che, troppo diffusa, non fa crescere l’Italia verso il grande Paese che pure potrebbe e dovrebbe essere.
A partire dagli anni 90 il trionfo su scala mondiale del neoliberismo ha improntato non solo l’economia globale, con i devastanti effetti che ormai tutti possono riconoscere, ma più in generale gli atteggiamenti sociali, dall’«usa e getta» al mito rovinoso del successo individuale, erodendo o contenendo quella spinta significativa al cambiamento che aveva iniziato a dispiegarsi e ad ottenere risultati. La società diventa «riflessiva», anzi «liquida», il ruolo dei «corpi intermedi» viene attaccato e scompaginato, la lunghissima crisi economica sposta verso il basso interi settori sociali con effetti drammatici. L’antagonismo sociale, e ambientale, si frantuma, non solo in Italia, in tanti comitati e iniziative che non sono però in grado di proporre una sintesi efficace a contrastare l’avversario, a «cambiare lo stato presente delle cose». Già, quest’ultimo sarebbe il compito fondamentale di una politica che volesse innovare per davvero, ma vale per me quel che ho già detto prima.
Queste osservazioni tagliate con l’accetta, anche per i giusti limiti di spazio, sono poco esaustive della domanda, ma spiegano perché io non mi aspetti alcuna «nascita». Sarebbe forse anche improprio, nel contesto generale cui ho accennato, attendersi la nascita di un soggetto sociale e politico forte e in grado di dare risposte generali, oggi e domani così tremendamente necessarie.
Penso però che non sia davvero persa la partita affinché, certo con grande sforzo e grande impegno, diventiamo tutti «cittadini» del nostro Paese, dell’Europa e del mondo. «Cittadini» che assumono il dovere di battersi per i diritti di tutti nell’ambito di un necessario mutamento degli stili di vita verso una salutare sobrietà, di sapersi coalizzare per pesare di volta in volta nelle decisioni a ogni livello e orientare la nostra organizzazione sociale e politica in direzione della Sostenibilità. «Cittadini» così ce ne sono già per fortuna, deve crescere il loro numero e l’intensità della loro azione. Paradossalmente, è proprio la generale frammentazione cui accennavo, è la riscoperta di un’individualità che può però essere socialmente attiva e, al contempo, una sempre maggior consapevolezza di quali siano gli interessi generali, a rendere credibile un protagonismo efficace dei «cittadini».

Miscelando la realtà e considerando la storia, se lei avesse la possibilità di decidere la direzione da prendere, quale orientamento darebbe all’organizzazione sociale?
Penso di aver già risposto, soprattutto nell’ultima parte della domanda precedente. Posso solo aggiungere gli insostituibili compiti dell’informazione, della formazione e dell’educazione. Un’educazione multidisciplinare e interdisciplinare, che, ricca di conoscenza, sia soprattutto un’«educazione al fare».