«Keynes espresse questo concetto: perché preoccuparci del lungo termine? tra cento anni saremo tutti morti. I consigli di amministrazione devono produrre risultati nel breve termine, e così devono fare i politici. Se i guadagni del breve termine si pagano con costi nel lungo termine, a loro non interessa. Tanto nel lungo termine saranno morti. Questa filosofia è semplicemente suicida»
Ormai i dati sui cambiamenti climatici si basano su un secolo di informazioni, la ricerca scientifica ha approfondito molti degli aspetti che riguardano il funzionamento del clima ed i modelli matematici, sempre più sofisticati, sono quasi univoci. Le polemiche, sempre più rare, del mondo accademico, lasciano il tempo che trovano anche perché alla lunga si scoprono fra le pieghe interessi del mondo economico e politico che si sta profilando come un vero, oscuro e ottuso ostacolo.
In fondo, le politiche di adattamento sono figlie di questa incapacità economico-politica di cogliere il cuore del problema che è un cambiamento di rotta dell’attuale modello di sviluppo.
Allora la domanda sorge spontanea: queste politiche vanno assecondate o combattute? Bisogna rassegnarci a farci inquinare un po’, a perdere piano piano il nostro pianeta o dobbiamo essere più radicali e pretendere lo stop delle cause che ci stanno portando alla catastrofe?
«L’ambiente evolve e cambia continuamente, ma noi stiamo velocizzando il cambiamento. Siamo noi la causa di questa velocità. Ovviamente non possiamo eliminare noi stessi, ma dovremo eliminare i nostri comportamenti». Ci dice Ferdinando Boero, Biologo marino all’università di Lecce, dalla vasta e complessa cultura ambientale.
Proprio a fine mese a Venezia, in un seminario dell’Iccg presenterà il Quinto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici che rappresenta la più aggiornata, esaustiva e comprensiva sintesi della conoscenza scientifica sui cambiamenti climatici.
La pubblicazione del Quinto Rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) è uno dei più importanti eventi nel dibattito internazionale sui cambiamenti climatici degli ultimi anni. Il secondo capitolo si occupa delle vulnerabilità dei sistemi umani e naturali, degli impatti dei cambiamenti climatici e delle opzioni di adattamento, e cerca di fare luce su quali conseguenze avranno tali cambiamenti sui sistemi ecologici, sulla salute umana, sulle condizioni di vita e sul sistema socioeconomico.
A Ferdinando Boero abbiamo rivolto alcune domande.
I cambiamenti climatici sono una realtà evidente e a parte gli allarmi lanciati in questi anni sulla salute, sulla perdita di biodiversità, sull’avanzare dell’aridità, lei dal punto di vista scientifico cosa ha registrato di macroscopico?
La vita nel Mediterraneo è cambiata moltissimo negli ultimi 30 anni. Il Mediterraneo che ho visto all’inizio della mia carriera di biologo marino quasi non c’è più. Le specie sono cambiate, molte sono arrivate dai tropici. Altre si sono spostate a settentrione dalle latitudini più meridionali, i periodi riproduttivi delle specie sono cambiate, ci sono stati eventi di mortalità massiva di specie che non tollerano temperature troppo alte, mentre le specie ad affinità tropicale stanno diventando sempre più dominanti. La pesca sta dando sempre meno frutti, perché abbiamo preso gran parte dei pesci, e le meduse stanno diventando sempre più dominanti, sia con specie tipiche del Mediterraneo, sia con specie ad affinità tropicale.
In concreto quali rischi corre l’umanità a breve?
Vediamo che gli estremi climatici sono diventati sempre più netti. Magari la quantità di acqua piovana che arriva sulla terra, in media, non è cambiata, ma quello che prima arrivava in un periodo prolungato ora arriva a ondate sempre più intense. Questo porta ad un aumento di inondazioni, frane, dissesti idrogeologici che rendono la nostra vita sempre più instabile e insicura. Le estati sono sempre più calde, e le ondate di calore mietono vittime soprattutto nella popolazione più anziana. Un ambiente che prima ci era amico sta diventando sempre più ostile.
E nel lungo tempo?
Il trend è iniziato molto tempo fa, all’inizio dell’era industriale. La tendenza oramai è nettissima verso un riscaldamento globale e nessuno più lo può negare. Non sappiamo fino a quale livello arriverà, quando si fermerà, ma sappiamo che le condizioni di un tempo stanno cambiando rapidamente, e dovremo fare molto per adattarci alla nuova situazione.
È razionale adattarsi accettando un arretramento rispetto alla vita che conosciamo sul pianeta?
La vita ha sempre cambiato, e gli ambienti sono sempre stati in continua evoluzione. È una cosa normale. In epoche di cambiamento rapido, come la presente, di solito le specie che vivevano meglio prima del cambiamento si trovano svantaggiate, ma se ne avvantaggiano altre, preadattate alle nuove condizioni. Ovviamente le specie che hanno possibilità di rapida evoluzione possono «seguire» le modificazioni ambientali ed evolvere opportuni adattamenti. La nostra specie non evolve rapidamente da un punto di vista biologico, ma evolve rapidissimamente da un punto di vista tecnologico. Resta da vedere se il nostro impatto tecnologico sugli ecosistemi che ci permettono di vivere non cambierà le condizioni a tal punto da renderci non adatti al nuovo ambiente che stiamo contribuendo a determinare.
Ci si può fidare sugli orientamenti dell’adattamento se l’uomo non è stato capace di eliminare le cause?
L’ambiente evolve e cambia continuamente, ma noi stiamo velocizzando il cambiamento. Siamo noi la causa di questa velocità. Ovviamente non possiamo eliminare noi stessi, ma dovremo eliminare i nostri comportamenti. La nostra economia si basa su processi di combustione che consumano ossigeno e producono anidride carbonica. Lo facciamo da quando abbiamo «addomesticato» il fuoco, usando i combustibili più svariati. Abbiamo cominciato con il legno, e abbiamo deforestato gran parte degli ambienti terrestri, poi siamo passati al carbone, e poi al petrolio e al gas. Continuiamo a bruciare cose per produrre energia. Non possiamo andare avanti così. E le prime cose che abbiamo bruciato sono proprio le foreste, diminuendo proprio il comparto ecologico che produce ossigeno e consuma anidride carbonica. Una vera follia.
Perché la comunità scientifica sembra ancora divisa sulle cause mentre ormai è un secolo che aumenta la temperatura globale?
La comunità scientifica, oramai, concorda nel dire che siamo la causa principale della velocità del cambiamento. È la comunità economica che tende a negare il cambiamento, continuando a proporre un modello di sviluppo che è evidentemente insostenibile. Gli economisti ricevono più attenzioni degli scienziati.
Possibile che il business sia riuscito ad addomesticare anche l’istinto primordiale della sopravvivenza?
Keynes espresse questo concetto: perché preoccuparci del lungo termine? tra cento anni saremo tutti morti. I consigli di amministrazione devono produrre risultati nel breve termine, e così devono fare i politici. Se i guadagni del breve termine si pagano con costi nel lungo termine, a loro non interessa. Tanto nel lungo termine saranno morti. Questa filosofia è semplicemente suicida. Chi detiene il potere economico e politico, però, ha anche il potere di controllare i media e, con essi, l’opinione pubblica. La protezione dell’ambiente è ancora vista come un costo. Ma chi pagherà i costi della distruzione dell’ambiente? Oramai lo spostamento nei prossimi cento anni non è più possibile. Il conto non ci verrà presentato tra cento anni, ci viene presentato ora. Abbiamo contratto un mutuo con la Natura e ora non siamo quasi più in grado di pagarne le rate. Inutile dire che se si fallisce avendo la Natura come creditore non si può semplicemente ignorare il creditore dichiarando fallimento. La Natura non fa sconti, e quando presenta il conto è implacabile.