Il progetto Sanpei condotto dal Cnr ha mostrato che le specie d’acquacoltura, con una buona gestione degli impianti, sono una valida fonte per una dieta corretta nelle mense scolastiche, con maggiori livelli di acidi grassi omega-3. I maggiori costi sono molto contenuti e i bambini, se educati, gradiscono la proposta
Il pesce costa molto e i bambini lo mangiano malvolentieri, scartandone la gran parte… sono alcune convinzioni che ostacolano l’adozione nelle mense scolastiche di un alimento pure nutrizionalmente utilissimo. Una ricerca condotta dell’Istituto di biologia ambientale e forestale del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibaf-Cnr) nell’ambito del progetto Sanpei fornisce però dati utili a valorizzare le specie di acquacoltura biologiche autoctone adatte al consumo dei bambini, ora pubblicati nel volume «Sano come un pesce».
«Abbiamo affrontato, per la prima volta in Italia, la filiera acquacoltura dall’allevamento di spigola e orata negli impianti sperimentali, passando per la distribuzione e la trasformazione, fino al consumo nelle mense – spiega Elena Pagliarino dell’Istituto di ricerca sull’impresa e sullo sviluppo (Ceris) del Cnr, responsabile della ricerca -. Possiamo concludere che, con una buona gestione degli impianti e una corretta formulazione dei mangimi, il pesce di acquacoltura rappresenta una valida fonte di elementi nutrizionali essenziali per una dieta corretta».
Un gruppo dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa-Cnr) ha monitorato le caratteristiche nutrizionali del pesce di acquacoltura biologica e convenzionale rispetto al pescato. «Le orate di allevamento presentano livelli di acidi grassi omega-3 ben otto volte superiori a quelli delle spigole di allevamento e 2,5 volte superiori alle spigole di cattura, mentre nelle spigole di allevamento i livelli sono più bassi rispetto alle spigole selvatiche. Questi dati rilevano che l’orata allevata è la specie ittica che offre il maggior apporto di omega-3 – prosegue la ricercatrice -. Per quanto riguarda gli elementi tossici, piombo e cadmio, nei campioni allevati i livelli risultano al di sotto dei limiti di legge, mentre nel pesce selvatico il piombo risulta pari o leggermente superiore ai limiti. Il pesce di allevamento presenta però una quantità maggiore di grassi, a causa dell’utilizzo di mangimi composti da farine e oli di pesce e vegetali, senza differenze sostanziali tra allevamento biologico e convenzionale».
Dal punto di vista economico, «i maggiori costi del pesce biologico incidono in modo molto più marginale di quanto si pensi: un euro in più per ogni chilogrammo di pesce incide sul costo pasto per lo 0,6% – afferma la ricercatrice -. Per un Comune come Roma, che ogni anno spende per l’acquisto delle derrate alimentari 64,4 milioni di euro, di cui 5 per il solo pesce, l’aumento sarebbe di 4.320 euro ogni volta che il menù prevede pesce. Le stime ottenute nel corso del progetto mostrano come la ristorazione pubblica e collettiva italiana potrebbe assorbire quasi la metà della produzione della piscicoltura nazionale».
È però necessaria un’attività dedicata per modificare le scelte alimentari dei bambini. «I bambini coinvolti nel progetto educativo mangiano progressivamente sempre un po’ di più della loro porzione di pesce e alla fine dell’anno scolastico gli scarti sono del 7%, contro uno scarto medio del 40% circa degli altri bambini – conclude Pagliarino -. L’analisi del gradimento delle varie specie ittiche rileva forti differenze: trota e orata, somministrate a progetto educativo inoltrato, registrano la minore percentuale di scarto, rispettivamente del 12 e 11. La spigola proposta all’inizio della fase educativa ha uno scarto medio del 32%, quello di merluzzo e platessa somministrate senza alcun intervento educativo è del 43%».
L’Ufficio agricoltura biologica del ministero delle Politiche agricole alimentarie e forestali, ha rinnovato il finanziamento al progetto Sanpei che vedrà Cnr e Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (Cra) impegnati per altri due anni.