Si avvicina la possibilità di realizzare biochip fotonici in grado di ospitare su un’area di pochi mm2 centinaia di sensori per analisi simultanee, veloci e a basso costo in campo medico (analisi delle mutazioni del DNA, rilevazione di agenti patogeni…), della sicurezza delle persone (agenti chimici e batteriologici, gas tossici…) e del settore agroalimentare. In sostanza, veri e propri laboratori miniaturizzati su un singolo chip
Due ricercatori del Politecnico di Milano hanno dimostrato ciò che si pensava impossibile: misurare l’intensità luminosa senza assorbire nemmeno un fotone. Un po’ come calcolare la portata di un liquido che scorre all’interno di un tubo, senza far uso di rubinetti o di sonde che ne disturbino il flusso.
È nato così il primo «osservatore di luce» non invasivo, un dispositivo molto semplice costituito da due contatti metallici (solitamente d’oro) del diametro di un capello (100 micrometri) e posti ben distanti dal fascio di luce per non perturbarne le caratteristiche. Una misurazione a distanza, senza contatto (da qui il nome Clipp, «ContactLess Integrated Photonic Probe»), ma allo stesso tempo così sensibile da permettere di «spiare i fotoni», seguirne le orme, sapere dove e quando sono passati.
Questa scoperta apre molteplici scenari, perché aumenta le nostre capacità di manipolare i segnali luminosi e sfruttarne appieno le potenzialità e allo stesso tempo compie un grande passo verso la penetrazione delle tecnologie fotoniche nella vita di tutti i giorni. In un futuro non lontano avremo a disposizione biosensori ultrasensibili, data center ad elevatissima capacità, computer ottici.
Si avvicina la possibilità di realizzare biochip fotonici in grado di ospitare su un’area di pochi mm2 centinaia di sensori per analisi simultanee, veloci e a basso costo in campo medico (analisi delle mutazioni del DNA, rilevazione di agenti patogeni…), della sicurezza delle persone (agenti chimici e batteriologici, gas tossici…) e del settore agroalimentare. In sostanza, veri e propri laboratori miniaturizzati su un singolo chip.
Nel settore dell’informazione, questa invenzione contribuirà alla realizzazione di sistemi di interconnessione ottica ad altissima capacità, oggi considerati la soluzione più promettente per una crescita sostenibile del traffico dati, destinato a scontrarsi con il continuo aumento di consumo di energia dei sistemi tradizionali di connessione elettrica. Sono in molti a scommettere che il futuro delle comunicazioni tra banche dati, server, schede elettroniche e perfino processori è nei fotoni.
Ma per fare tutto questo in modo efficiente, serve poter osservare i fotoni senza distruggerli, per non distruggere anche l’informazione. Oggi sappiamo come fare.
L’invenzione è stata ideata, realizzata e brevettata da Francesco Morichetti e Marco Carminati due giovani assegnisti del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria (Deib) del Politecnico di Milano, che sotto la guida dei proff. Andrea Melloni e Marco Sampietro, operano nell’ambito del progetto europeo Bbot («Breaking the barriers of optical integrations»). Il progetto ha come obiettivo quello di creare le condizioni per una crescita esplosiva e pervasiva delle tecnologie fotoniche, analogamente a quanto accaduto per i dispositivi elettronici.
La rilevanza del risultato scientifico è stata messa in luce anche da «Nature Photonics», la rivista di riferimento nel mondo della fotonica. http://www.nature.com/nphoton/journal/v8/n4/full/nphoton.2014.64.html