La scuola è una struttura formativa che requisisce tutto il processamento; e però i suoi interventi, connessi con la sua macchina, sono più favorevoli ai traguardi informativi e meno attenti all’ambito psicologico personale in cui si giuoca l’impatto di cui parliamo.
Con questa impostazione meccanicistica l’informazione diventa tutt’uno con la struttura e così l’altra strutturazione, quella personalistica individuale resterà marginale se non è sostenuta dalle competenze scientifiche e se non è suffragata da un solido progetto oggettivo1, finalizzato alla promozione globale dei soggetti affidati. Nel frattempo il travaso dei giudizi sommativi, dal profitto sulle discipline al «valore» della persona, si effettua in modo invasivo, condizionante e riduttivo rispetto alla maturazione globale di ogni soggetto.
Viene meno, nell’educazione, la prima ed assoluta legge che si applica in matematica: la ricerca del minimo comune denominatore che permette di risolvere operazioni tra frazioni diverse.
Nella scuola si pretende che giudizi di profitto sommativi esprimano in cifre quantitative i valori dei processi che sono invece di qualità; non solo, pretendono anche di fornire valore medio su produzioni tra loro non compatibili perché differenziate da forme e strumenti impiegati (scritto/orale); come se si volesse proporre un risultato sommando la Primavera del Botticelli con quella di Vivaldi: è possibile il confronto, ma solo se riferito su elementi di rapporto, ad esempio su colore, emozione, stile, ecc. e non certo sulle figure.
I soggetti affidati alla struttura scolastica attraverso quali canali possono seguire il percorso evolutivo dell’identità e dell’autonomia? Per giungere ad una risposta bisogna eliminare alcune zone d’ombra, per superare le quali è necessario che il progetto formativo sia liberato dall’incapsulazione strutturale. Quella, ad esempio, che attribuisce un indice numerico all’educazione. Neanche il livello del Quoziente Intellettivo può vantare, oggi, valore scientifico assoluto. Eppure, il numero attribuito alla condotta degli alunni, con la sua scarsa escursione valoriale, diventa sempre (a livello cinque!) provocatore del blocco del percorso: l’elemento strutturale per antonomasia sancisce così la qualità della formazione e dell’evoluzione; non solo, pretende anche di estendere al campo etico il giudizio quantitativo.
Questo l’interrogativo: perché l’individualità e l’autonomia nel percorso scolastico sono condizionate dalla struttura dell’istituzione? La risposta è tutta nella scoperta ed applicazione della didattica che conquisti il valore di scienza.
Perché ciò si realizzi si dovranno verificare le condizioni di ricerca e di pianificazione oggettiva, cioè di progetti circostanziati, commisurati alle reali possibilità dei soggetti affidati e si dovranno porre le condizioni che permettano di giocare le potenzialità, liberate dai condizionamenti di ordine ambientale e soprattutto psicologico.
La prospettiva positiva è collaterale alla destrutturazione, realizzata con interventi di segno psicopedagogico, in cui l’obiettivo non è il traguardo delle conoscenze disciplinari quanto la scientificità del processamento.
Un esempio: un soggetto autistico non potrà quasi mai raggiungere mete conoscitive disciplinari ritenute «di norma»; l’inadeguatezza dei risultati disciplinari niente toglie, però, alla ricchezza degli interventi applicati con rigore scientifico nell’azione complessa che tratta questo disagio. I valori in campo potrebbero esserci tutti, eppure l’esito generalmente non è percepibile e quindi neanche documentabile, ancor meno misurabile. Questo caso è una prova tangibile dell’importanza della qualità applicata, anche pienamente scientifica, nonostante la povertà della quantità desiderata in esito.
Nella situazione della scuola come «sistema rigido», al cui interno si verificano situazioni di «legami deboli»2, interpretiamo la rigidità-debolezza non proprietà positiva ma carenza; essa ha una fenomenologia strutturale che caratterizza la scuola come sistema autoreferenziale e per tanto «chiuso».
All’interno di tale sistema è possibile invece imprimere azioni formative che, al di sopra delle coordinate di spazio e tempo, permettano operazioni di ortoprassi capaci di rendere le persone affidate libere ed in salute? riteniamo che ciò sia possibile, ma ad alcune condizioni.
L’insegnante dovrebbe rimodellare la propria funzione. Nella dinamica relazionale, infatti, la sua funzione come ora concepita è direttamente proporzionale alla struttura, di essa si fa strumento e garanzia con il risultato di mantenerla asfittica. Se invece la destrutturazione è direttamente proporzionale all’autonomia dei soggetti allora la rivoluzione copernicana produrrà nell’insegnante più la funzione del facilitatore e meno quella dell’informatore. Egli stesso si oggettifica, cioè si dispone all’analisi critica sia verso i suoi assunti culturali sia verso la sua mediazione e, di conseguenza, riesamina l’influenza che esercita sui soggetti affidati.
Il «ruolo» complica l’azione educativa dell’insegnante perché il servizio di mediatore disciplinare congiunto a quello di giudice dei risultati lo assoggetta a produrre giudizi quantitativi e meno qualitativi. È vero che si dirà che nella espressione numerica quantitativa sarebbe incluso il coefficiente qualitativo, ma ciò sarebbe prova della sovrapposizione dei due piani, di cui abbiamo già detto.
Il ruolo lo colloca nella «dignità» di funzione, anticamera del dispotismo magistrale. Se la sua azione, per la tipicità delle regole e dei comportamenti conseguenti auto affermativi, produce inquietudine nei minori poco importerà alla sua funzione di sistema, tanto gli atti dovuti (documenti e registrazione delle prove) sono archiviati e giustificativi sempre dei giudizi prodotti sugli esiti formativi.
La relazione di reciprocità, anello indispensabile nella catena formativa, è il solo canale di valore reale e fecondo del progresso oggettivo e globale delle persone affidate.
Fatte salve tutte le definizioni dello status dell’insegnante che dal ruolo come funzione viaggia verso quello del rapporto di lavoro a tempo in determinato (per cui, «insegnante di ruolo») o all’altro come docente di segmento (ruolo di base, ruolo superiore, universitario), è preferibile invece valorizzare il ruolo come condizione formativa ed educativa del facilitatore che studia e perfeziona la sua funzione diadica in rapporto di reciprocità, radice della pedagogia della salute.
L’uscita dall’ambiguità dei termini ci introduce nella ricerca degli interventi che consentano la fondazione di rapporti ispirati alla salute, all’interno del progetto educativo.
La didattica può essere liberata, disincapsulata, dalle soggezioni, quando si attuano alcune situazioni che favoriscono l’esaltazione degli stili collaborativi. Qui ne indichiamo due.