In questi ultimi anni stiamo assistendo ad un vertiginoso aumento di disturbi (gastrointestinali e no) in qualche modo rapportabili al consumo di determinati alimenti che, pure, avevamo sempre consumato. Intolleranze varie, dispepsie fastidiose, allergie dall’incerta origine, la stessa famosa sensibilità al glutine stanno facendo capolino sempre più nella vicenda personale di tantissime persone e nella storia clinica di numerosi pazienti
Ma se il 63% delle pizze e delle mozzarelle che i ristoratori o i negozianti ci servono sul tavolo a cui ci siamo seduti per degustare qualche buona specialità nostrana proviene da mille chilometri di distanza ed anzi non ha alcuna indicazione di provenienza qualche problema, anzi molto più che qualche problema, indubbiamente c’è.
E se olio e peperoncino piccante hanno etichetta (per modo di dire) cinese o pakistana o tunisina e se quella pasta col pomodoro che dovrebbe essere uno dei nostri orgogli nazionali batte bandiera americana o spagnola evidentemente siamo di fronte a qualcosa di anomalo ed inspiegabile.
Parrebbe una barzelletta o un paradosso o un’assurdità e invece no: è la pura e semplice realtà, denunciata tante volte dai critici di quel mercato globale che si fa beffe delle specificità e delle tracciabilità e che è stato ancora una volta segnalata da uno dei tanti dossier che si abbattono sul tavolo della discussione nazionale ma che non ci pare dia luogo a quelle riflessioni che pure occorrerebbero. L’ultimo report di Coldiretti, intitolato «La crisi nel piatto degli italiani 2014», ha messo urgentemente in primo piano questo dato per molti aspetti sconvolgente e che racconta di un Paese in cui ben i due terzi degli alimenti che pure costituiscono il più forte elemento di richiamo (oltre che di specificità) nazionale proviene dall’estero e manca delle caratteristiche di identificazione richieste e della qualità auspicata.
Nelle pizzerie, ed in due casi su tre, viene servito un prodotto di provenienza cinese o americana o spagnola, con mozzarelle preparate non da latte italiano bensì da cagliate semilavorate a partenza dall’est europeo, condito con pomodoro cinese oppure americano, insieme ad olio di semi al posto dell’extravergine italiano.
Grano e farina hanno targa francese o ucraina o tedesca (oltre che americana) e il peperoncino piccante viene prevalentemente dal Vietnam, con buona pace di chi si illude di chiedere e ricevere una specialità «made in Italy» e pensa ingenuamente di stare a degustare un piatto tipico, magari a chilometro zero.
C’è però di più: nel 61,5% dei campioni di peperoncino importato c’è una irregolare e pericolosa presenza di residui chimici al punto che l’arrabbiata o la puttanesca o la diavola che ci accingiamo a mangiare probabilmente è non solo piccante ma anche nociva. È un esempio, quello del peperoncino, che però può e deve essere esteso anche a molte altre categorie di alimenti per i quali vale, a parere della Coldiretti, lo stesso meccanismo di approvvigionamento e di distribuzione, in barba a tanti bei discorsi sulla agricoltura a basso impatto, la produzione d’eccellenza e la sicurezza alimentare.
Già perché qui i problemi sono almeno tre.
Il primo ha a che fare sulla stupidità di un sistema che di fatto favorisce l’economia di altri Paesi mortificando i nostri produttori e ponendoli in condizione di concorrenza sleale con chi non è soggetto a leggi e disposizioni garantiste ed aggiornate. Col risultato che siamo costretti a veicolare ed a consumare prodotti che mortificano la nostra produzione agricola a maggior ragione quando mancano gli elementi di identificazione di quello che arriva a tavola.
Il secondo è relativo alla mancanza di controlli sulla sicurezza dei cibi e sulle caratteristiche dell’intera macchina produttiva degli alimenti, con la conseguenza che rischiamo di mangiare fitofarmaci e pesticidi quando non peggio (il riferimento al Vietnam è inquietante, diciamolo pure) in quasi totale assenza di garanzie per i consumatori.
Il terzo è un po’ più specifico ma assolutamente interessante sia per noi medici che per i consumatori-pazienti. In questi ultimi anni infatti stiamo assistendo ad un vertiginoso aumento di disturbi (gastrointestinali e no) in qualche modo rapportabili al consumo di determinati alimenti che, pure, avevamo sempre consumato. Intolleranze varie, dispepsie fastidiose, allergie dall’incerta origine, la stessa famosa sensibilità al glutine stanno facendo capolino sempre più nella vicenda personale di tantissime persone e nella storia clinica di numerosi pazienti. La domanda è sempre la stessa: ma perché dovrei esser diventato/a intollerante a pane e pasta o perché non riesco più a mangiare la pizza senza sentire poi strani gonfiori di pancia se pane, pasta e pizza li ho sempre mangiati?
È vero, abbiamo sempre mangiato pane, pasta, pizza, pomodoro, mozzarelle e peperoncino. Siamo cresciuti in quel modo, certo. Senza problemi e senza disturbi. Ma quello che nel frattempo è cambiato è ciò di cui quelle mozzarelle o quel pane o quella pizza sono costituiti: alla loro base non ci sono più gli stessi prodotti con cui il nostro intestino ha avuto a che fare per secoli bensì un qualcos’altro, più buono o più cattivo al limite non interessa nemmeno, con caratteristiche costitutive abbastanza o molto diverse. E probabilmente il nostro organismo scova le differenze, ne soffre o almeno lancia segnali.
Chi di noi medici si occupa di dinamiche di assorbimento dei cibi sa bene che si tratta di un fenomeno sempre più diffuso, rispetto a cui le risposte che si possono dare sono ancora in parte precarie mentre le insistenti domande vertono proprio sul nostro corpo e sui motivi che lo rendono meno «capace» di assorbire ciò che è sempre stato in grado di assorbire. Senza problemi.
Forse la risposta non sta in noi e nel nostro modo di digerire. Forse la vera risposta sta in quello che mangiamo e da cosa mangiamo. E da quell’inquietante 63% di cibi a targa sconosciuta.