L’uomo post-moderno è ormai un adolescente, lo abbiamo partorito noi nell’Ottocento, ora è tempo di bilanci, dobbiamo ragionare e decidere, di fronte ai guasti e alla fine di un mondo così come lo abbiamo conosciuto, se dobbiamo dotarci di nuovi orizzonti come la qualità della vita e la solidarietà o se dobbiamo dare una mano a quella che una volta si chiamava la selezione naturale ed accettare il sacrificio finale per evolvere verso l’ignoto
La plastica fa parte della nostra vita, ci è entrata nel corpo e nella mente. La plastica, in un certo senso, è un materiale archeologico i cui effetti negativi, purtroppo, ancora permangono. Nel numero on line di «Villaggio Globale» si fa il punto sulle ultime ricerche scientifiche, sulle prossime tappe di questo materiale che si cerca di rendere inoffensivo per la salute e per l’ambiente. Qui proponiamo l’Editoriale.
La ricerca di materiali nuovi ha sempre contrassegnato lo sviluppo dell’uomo. È il simbolo della sua voglia di penetrare i misteri del mondo circostante, affrancarsi delle difficoltà e bypassare i limiti imposti dalla natura.
La creazione dei polimeri sono il simbolo di questa capacità dell’uomo. La polimerizzazione, utilizzando varie molecole, ha messo sul mercato prodotti indistruttibili, colorati, flessibili, capaci di piegarsi a tutte le esigenze della tecnologia prodotta dall’uomo.
Noi volgarmente chiamiamo plastica tutti prodotti riconducibili a questa produzione che dal dopoguerra ad oggi non si arresta né ha conosciuto crisi.
I resti di questo materiale che finisce in mare dalle vie terrestri, formando ormai numerose grandi isole, segnalate dalle mappe di navigazione e che stanno portando la morte in un’area del pianeta impensabile fino a qualche decennio fa, sono un «monumento» alla superbia, al senso di potere e di dominio che assale l’uomo sempre più isolato in una visione armonica e concatenata della biosfera.
Così come la plastica, l’uomo rimarca il suo essere estraneo al pianeta che pure lo nutre e lo tiene in vita.
Come i dittatori non sanno comprendere quando la loro onda positiva si è esaurita e quando è il tempo di cedere il passo, così l’uomo non molla il suo potere e rischia di portare l’intero pianeta alla catastrofe finale.
Si dirà che questa è una visione catastrofista, l’anima tecnologica cercherà di difendere se stessa, sicura di contenere in sé gli strumenti per riparare i guasti. Ma anche questo è un film già visto.
I cambiamenti climatici, l’impoverimento del mare, la costante estinzione di specie terrestri, i crescenti avvelenamenti del cibo dell’uomo attraverso l’impiego di sostanze contrabbandate per migliorare la vita e aumentare la produzione, oggetti nati per facilitare la comunicazione allontanandone sempre l’esistenza di pericoli, come gli inquinamenti elettromagnetici, l’impiego di risorse energetiche antiquate e dannose per l’ambiente, pur in presenza di soluzioni nuove e più efficienti solo perché il sistema sociale si è avvitato in meccanismi finanziari che stanno strozzando il pianeta… e si potrebbe continuare entrando nei dettagli, nei sistemi di costruzione e di viabilità, di mobilità, di commercializzazione.
Tutto questo non è catastrofismo, è purtroppo l’amara fotografia della realtà, solo che c’è chi vede, chi non vede e chi non vuol vedere.
Come c’è tutto un popolo sul pianeta che sta ricostruendo le file di un’agricoltura sostenibile, quella chiamata a km zero che non vuole tornare ad un’epoca di stenti e di fame ma vuole sostituire l’attuale modello di sviluppo fondato sullo spreco e sull’egoismo. Così come esistono interi quartieri senz’auto e come stanno sorgendo supermercati che non vendono i prodotti in confezioni ma sfusi.
C’è tutto un popolo, insomma, di pazzi e catastrofisti così come continuano a crescere le sovrastrutture nazionali che vogliono, «per la nostra sicurezza» controllare il commercio e i prodotti, i semi e le produzioni.
Un quadro gigantesco, delicato e che può offrire mille pericoli e rischi ma certamente basato su un processo di azione e reazione di attacco e difesa della vita. Se si riuscisse ad affrontare tutta questa «materia» senza bracci di ferro, deponendo le armi e partendo dalla considerazione che siamo tutti sulla stessa barca, sarebbe già un passo avanti nella civiltà.
Per fare questo però, occorre consapevolezza e cultura, cioè bisogna sapere come siamo arrivati a questo punto e se abbiamo ancora qualcosa da dire o dobbiamo rassegnarci a pensare in termini totalmente nuovi e diversi.
Secoli prima di Cristo, fino a quando arrivano le nostre conoscenze ufficiali, sappiamo che discorsi filosofici hanno caratterizzato l’azione dell’uomo con l’aiuto delle religioni. Senza iniziare dai primordi fermiamoci all’elaborazione «moderna» fatta dai filosofi greci che parlavano di téchnē ed epistémē. Téchnē era tutto ciò che si sapeva e che riusciva a trovare un’applicazione pratica, e spaziava dalla giustizia all’arte. La téchnē dipendeva dalla scienza, cioè dalla epistémē che abbracciava ontologia, matematica e fisica.
Per parecchi secoli ha funzionato il controllo e la dipendenza stabilite in queste discipline ma è nel XVII secolo che in Inghilterra nasce un nuovo termine che rivoluzionerà questo equilibrio: technology.
Ma se per i greci la téchnología era la discussione che metteva in relazione la tecnica con la teoria scientifica, con il termine inglese questa disciplina vive di vita propria fino, al giorno d’oggi, ad influenzare, determinare e condizionare la quotidianità.
Ecco il punto. Non ci si pongono più domande, si accetta la corsa tecnologica e si corre insieme, ci si fonde con la tecnologia che diventa parte del nostro corpo e della nostra vita tanto che l’uomo è diventato non più compatibile con questa accelerazione della tecnologia. E si accettano così malattie nuove, sofferenze nuove, limitazioni nuove per correre verso un punto del futuro non chiaro e sconosciuto ma obbligati come se fosse scritto nel nostro Dna.
L’uomo post-moderno è ormai un adolescente, lo abbiamo partorito noi nell’Ottocento, ora è tempo di bilanci, dobbiamo ragionare e decidere, di fronte ai guasti e alla fine di un mondo così come lo abbiamo conosciuto, se dobbiamo dotarci di nuovi orizzonti come la qualità della vita e la solidarietà o se dobbiamo dare una mano a quella che una volta si chiamava la selezione naturale ed accettare il sacrificio finale per evolvere verso l’ignoto.