L’uomo ha le risorse intellettuali per comprendere questa situazione. In effetti ci sono molti pensatori e studiosi che spiegano queste cose sin dai tempi di Malthus (almeno nel concetto di finitezza delle risorse). Ma la visione culturale antropocentrica acceca narcisisticamente la nostra capacità di comprensione. Ci concentriamo su noi stessi e, tutt’al più, ci curiamo dei rapporti intraspecifici. Con questo identifichiamo «classi» contrapposte, che si confrontano e si combattono. Si fanno le rivoluzioni, in vista del riscatto delle classi oppresse, contro gli oppressori. Queste battaglie sono sacrosante, ma sono battaglie. Poi c’è una guerra che dobbiamo giocare uniti, come specie: la lotta per l’esistenza. E dobbiamo renderci conto che la specie è più importante dell’individuo.
In cosa consiste questa presa di coscienza? La specie è fatta di individui che, naturalmente, pensano alla propria sopravvivenza e a quella della propria prole. Ma una specie intelligente, che vede il futuro, deve pensare anche al futuro della specie. Per gli altri animali il futuro non esiste. Il passato è passato, il futuro, non essendo ancora arrivato, non c’è. Esiste solo il presente. E quindi ogni individuo pensa a sé o, tutt’al più, ai suoi figli e nipoti. Ma una specie intelligente deve pensare agli individui che ancora non ci sono. Se non ci sono non esistono, eppure sono loro che rappresentano «la specie». Le battaglie si fanno per noi, la guerra si fa per loro.
Con una buona tattica si vincono le battaglie, ma è proverbiale la valenza tattica di Pirro, che vinse tutte le battaglie ma poi perse la guerra. Era un buon tattico ma un pessimo stratega. E rappresenta benissimo quel che stiamo facendo oggi.