Il Dna e l’esobiologia

1360
spazio
Tempo di lettura: 8 minuti

Dalla negazione della vita portata dalle comete alle ultime teorie. Nel 2000 il gruppo di scienziati che fa capo all’ormai anziano prof. Wickramasinghe ha dimostrato che le influenze virali giungerebbero dagli spazi siderali. L’ultima prova che la vita viene dallo spazio è nata all’Università della Tuscia di Viterbo grazie ad un esperimento del prof. Silvano Onofri, fisico e biochimico tra i più esperti al mondo nello studio dei batteri estremofili. Il giallo del «Dna spazzatura» e le teorie del prof. Sam Chang

Secondo le ultime scoperte degli scienziati del Kepler Space Telescope della Nasa, impegnati dal 2009 nella ricerca di nuovi pianeti, oltre il 22 per cento delle stelle simili al Sole potrebbe ospitare un pianeta roccioso delle dimensioni della Terra all’interno della propria zona abitabile. La nostra galassia ha oltre 100 miliardi di stelle, questo vorrebbe dire che ci potrebbero essere fino a 22 miliardi di pianeti simili alla Terra. E questo solo nella Via Lattea, ma l’universo fino ad ora conosciuto ha miliardi di galassie, quindi pianeti simili al nostro potrebbero rappresentare un numero impensabile.
Tornando alle scoperte, consolidate del Kepler Space Telescope della Nasa, ad oggi i pianeti scovati sono 715, molti dei quali fanno parte di sistemi solari simili al nostro. Ruotano attorno a 305 stelle e molti di essi potrebbero essere abitabili. Tutto questo grazie al telescopio orbitante Kepler lanciato nel 2009 e restato in funzione fino a qualche mese fa. Purtroppo un danno ai suoi sistemi di puntamento lo ha reso operativo solo per il 20%. Tuttavia Kepler ha raccolto dati così numerosi da rendere ancora possibili scoperte come quella appena resa nota dalla Nasa su «The Astrophysical Journal» e cioè del pianeta Kepler – 186f. Questo pianeta roccioso a 490 anni luce da noi orbita intorno alla sua stella nella cosiddetta fascia dei riccioli d’oro, ossia non troppo vicino né troppo lontano, condizioni queste perché l’acqua non congeli né evapori. È più grande del nostro pianete del 10%.

Ma oltre Kepler-186f a «soli» 4,5 anni luce da noi nel complesso stellare di Alfa Centauri sono candidati altri 2 pianeti rocciosi dalle dimensioni della nostra Terra. Insomma la caccia ai pianeti gemelli della Terra si fa sempre più fitta e nuovi telescopi, aventi l’unico scopo di scovare pianeti extrasolari, stanno per andare in orbita o essere istallati sulle Ande.
Solo 50 anni fa, gli astrofisici e gli astronomi, pensavano che il nostro sistema solare con il suo piccolo pianeta abitabile fosse un unicum in tutto l’universo. La stessa Margerita Hack in un suo intervento pubblico nel 1955 aveva dichiarato che la vita sulla Terra era un’eccezione in tutto il cosmo. Dichiarazione che poi si rimangiò completamente negli anni successivi divenendo invece, dal 1970 in poi, un’assertrice della vita presente nell’universo, anche se affermava che date le distanze siderali l’uomo non avrebbe mai potuto conoscerla.
Superato il primo scoglio che era quello di dimostrare che pianeti abitabili come il nostro possono essere miliardi di miliardi nell’universo (di questo ne era convinto più di 400 anni fa anche Giordano Bruno, ma questa sua certezza finì per mandarlo al rogo), serve ora cercare di capire se esiste la vita come noi la conosciamo su questi pianeti rocciosi. Al momento la scienza ufficiale parla di vita intendendo microorganismi o forme elementari di aggregazione cellulare.

Vita dalle comete

Da circa 30 anni e forse più si è cominciato a pensare che la vita come noi la conosciamo non sia sorta indipendentemente ed esclusivamente sulla Terra, ma che possa essere stata generata altrove, nel cosmo e poi giunta non si sa bene come, forse con le meteore o con le comete, fino a noi. I primi a pensare a questa ipotesi furono alcuni medici inglesi, appassionati di astronomia, che nel 1921 al termine della drammatica pandemia del secolo, conosciuta come «La Febbre Spagnola», che causò in tutto il mondo tra il 1918 e il 1920 più di 50 milioni di morti, iniziarono a studiare le cause della sua rapida diffusione.
Ciò che li sconcertò fu il fatto che vittime di questo virus furono anche pastori ed altri individui isolati dalla società perché vivevano da mesi e da anni da soli su montagne e zone impervie, senza alcun contatto con il mondo civile. A questi medici venne il sospetto che il virus mortale fosse giunto dallo spazio e non sorto sul nostro pianeta. Secondo loro fu la coda di una cometa a portare sul nostro pianeta i virus letali. Nel 1910 ben 2 comete visibili ad occhio umano diedero spettacolo di sé nei cieli di tutto il mondo, si trattava della ben nota cometa di Halley e della luminosissima C/1910 A1. Questa ipotesi però fu subito scartata perché per gli accademici di allora era priva di aspetti concreti dimostrabili.
Nel 1974 però lo scienziato Chandra Wickramasinghe, dell’Università gallese di Cardiff e allievo di Fred Hoyle, pubblicò un suo studio in cui dimostrava scientificamente che la polvere dello spazio e in particolare quella delle comete sarebbe di origine organica. Secondo lo scienziato molte forme d’influenza virale non nascono sul nostro pianeta, «ma piovono dal cielo sotto forma di polvere che contiene spore di virus…».
Nel 2000 il gruppo di scienziati che fa capo all’ormai anziano prof. Wickramasinghe ha dimostrato che le influenze virali giungerebbero dagli spazi siderali. Fu dato per certo quindi che i medici inglesi del 1920 avevano visto giusto: il virus della febbre spagnola è giunto dallo spazio. Alcuni virus quindi si insediano nella polvere delle comete che passano vicine alla Terra. In particolare, questa polvere interstellare, verrebbe proiettata nell’atmosfera terrestre dall’energia sprigionata da alcune macchie solari con un contenuto di energia particolarmente alto. La polvere stellare cade sulla Terra e colpisce. È così ci si ammala di influenza, secondo il professor Wickramasinghe. E a sostegno della sua tesi lo scienziato ricorda che non è la frequentazione di gente già colpita dal virus a far insorgere la malattia, ma il luogo dove ci si trova in quel momento. È questa comunque una teoria che, tra l’altro, «potrebbe aiutare a prevedere altre epidemie perché c’è un lasso di tempo molto breve tra il picco dell’attività solare e gli effetti che ci colpiscono sulla Terra», ha concluso lo scienziato.
A questo punto si apre il secondo aspetto che è quello che la vita viene dallo spazio, come semi che cadono sui pianeti e se trovano «terreno fertile» si sviluppano e danno il via all’evoluzione della vita. Questa teoria è conosciuta come Panspermia Cosmica(dal greco Pan=tutto e Sperma=seme).
A supporla, pensate un po’, non fu qualche scienziato di inizio 800, ma nel lontano 480 a. C. il filosofo greco Anassagora, il quale sosteneva che i semi della vita sono sparsi nell’universo e quando giungono sulla Terra possono germogliare e dare la vita a piante, animali e all’uomo stesso. Solo dopo più di 2000 anni tale teoria riprese vigore, il primo a rispolverarla fu il medico, fisico e filosofo tedesco Hermann von Helmholtz che nel 1845 scrisse: «Una volta che tutti i nostri tentativi di ottenere materia vivente da materia inanimata risultino vani, a me pare rientri in una procedura scientifica pienamente corretta il domandarsi se la vita abbia in realtà mai avuto un’origine, se non sia vecchia quanto la materia stessa, e se le spore non possano essere state trasportate da un pianeta all’altro ed abbiano attecchito laddove abbiano trovato terreno fertile».
Si deve a questo scienziato l’avvio della vecchia teoria della panspermia cosmica, infatti nomi insigni di scienziati come Lord Kelvin, del premio Nobel Svante Arrhenius fino a Fred Hoyle hanno portato avanti fino ai giorni nostri tale teoria migliorandola e rendendola scientificamente accettabile. L’ultima prova che la vita viene dallo spazio è nata proprio in casa nostra ed esattamente all’Università della Tuscia di Viterbo.
Alcuni anni fa, infatti, in collaborazione con la Nasa furono spediti nello spazio muschi ed alghe in appositi alloggi per essere esposti, fuori della stazione orbitante, per un periodo di 6 mesi. Lo scopo era di valutare se questi muschi e queste alghe microscopiche potevano resistere ai raggi gamma, a quelli cosmici in genere e ai forti sbalzi di temperature dai – 100 ai + 100° C.
Al ritorno sulla Terra questi campioni, per grande meraviglia degli scienziati, avevano resistito e, dopo un po’, ripreso a svilupparsi. Lo scienziato italiano che aveva gestito tutto l’esperimento è l’attuale prof. Silvano Onofri, fisico e biochimico tra i più esperti al mondo nello studio dei batteri estremofili. I risultati di questo esperimento furono presentati 4 anni fa a Viterbo grazie ad un convegno organizzato da Accademia Kronos.
Ma ancora prima di questo esperimento nel 1968 nella polvere interstellare vennero identificate molecole policicliche aromatiche e nel 1974 si scoprì che nello spazio sono presenti polimeri organici complessi (poliformaldeide). A questo punto gli scienziati Hoyle e Wickramasinghe si convinsero che i polimeri organici costituivano una parte importante della polvere interstellare e quindi potevano rappresentare i veri mattoni della vita. Immaginate che putiferio si scatenò a queste affermazioni, ma dopo un decennio di polemiche e posizioni a favore e contrarie, grazie al proseguire delle scoperte scientifiche, oggi i risultati di questi due scienziati sono stati ufficialmente accettati.
Ma la cosa non finisce qui, ormai ci si avventura in quella che potrebbe sembrare pura fantascienza e invece, per molti scienziati è pura realtà, forse una sconcertante realtà e per molti versi anche una scomodissima realtà.
A questo punto del nostro viaggio alla ricerca dell’origine della vita, entriamo nel mondo del Dna per capire ancora di più. Uno scienziato indiano alcuni anni fa affermò che il segreto dell’origine, sviluppo e fine della vita come noi la conosciamo si trova all’interno del nostro Dna.

La Panspermia «guidata»

Ancora prima di riuscire a sequenziare il Dna umano alcuni scienziati nel 1960, come Francis Crick e Leslie Orgel, iniziarono a speculare sull’origine del codice genetico. Dieci anni più tardi, acquisite nuove informazioni e scoperte, i due scienziati giunsero a teorizzare sulla possibilità che la produzione di un sistema molecolare vivente rappresenta un evento molto raro nell’universo e che tuttavia una volta avviato esso possa essere stato diffuso da un forma di vita intelligente attraverso una tecnologia che consenta viaggi nello spazio; tale processo fu definito «Panspermia guidata». Una nuova impostazione della classica Panspermia nata dall’intuizione di 2500 anni fa dal filosofo Anassagora. Oggi sono molti gli studiosi e gli scienziati che sostengono questa teoria.
Recentemente un’équipe di scienziati guidata da Sam Chang, docente di biologia extraterrestre al Mit Usa, si è spinta oltre, infatti ha comunicato al mondo scientifico un qualcosa che ha lasciato tutti di stucco. Questi scienziati, con a capo sempre il prof. Chang, credono che le cosiddette sequenze non codificanti del Dna umano, ovvero quello che si pensava essere Junk (spazzatura), non sono altro che il codice genetico di forme di vita non appartenenti a questo pianeta.
Le sequenze non codificanti sono comuni a tutti gli organismi viventi sulla Terra, dalle spore (muffe) fino ai pesci, come per l’uomo, nel Dna umano esse costituiscono gran parte del genoma totale, come asserisce il prof. Sam Chang. Sequenze non codificanti, originariamente conosciute come «Dna spazzatura», sono state scoperte anni fa, e la loro funzione è rimasta un mistero. La stragrande maggioranza del Dna umano, per l’équipe del prof. Chang, non è di questo mondo. Gli apparenti «geni spazzatura extraterrestre» possono solo godersi il viaggio. Dopo un’analisi approfondita con l’aiuto di altri scienziati, programmatori informatici, matematici e altri ricercatori, il professor Chang si è chiesto se l’apparente «Dna spazzatura» non sia stato creato da una sorta di «programma o programmatore extraterrestre».
Un altro biologo australiano, partendo dalle ricerche di Chang si è spinto ancora oltre asserendo su un giornale di divulgazione scientifica che «sulla base della teoria del prof. Chang è possibile che una più evoluta civiltà extraterrestre sia stata impegnata nella creazione della vita sui pianeti con caratteristiche tali da svilupparla. Forse, dopo la programmazione, i nostri creatori ci crescono allo stesso modo come si crescono i batteri in piastre di Petri, non possiamo conoscere le loro motivazioni. Se si tratta di un esperimento scientifico, o un modo di preparare nuovi pianeti per la colonizzazione, o si tratta di affari da tempo in corso di seminare la vita nell’universo questo non ci è dato sapere, almeno per il momento».
Concludiamo con una recente affermazione del prof. Chang: «Il programma completo del Dna umano non lo conosciamo ancora a pieno, non sappiamo se è legato ad una sorta di strategia cosmica, né se ha al suo interno un orologio a tempo. In esso non c’è scritto prima e dopo. Quello che possiamo dedurre al momento è che prima o poi, dovremo fare i conti con l’idea incredibile che ogni vita sulla Terra porta con sé un pezzo genetico di un parente o cugino extraterrestre e che l’evoluzione non è quello che pensiamo che sia».
Si conclude qui il mio intervento, ma suppongo che in ognuno di noi ora si è accesa la fiamma della ricerca della verità, del sapere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, lo stesso enigma che 3000 anni fa si ponevano le sacerdotesse e i sacerdoti del Tempio di Apollo.
Stiamo parlando del mitico oracolo di Delfi dove sul frontone del tempio c’era scritto «Nosce te ipsum…» ossia: «Uomo conosci te stesso…», quello che segue in quella famosa frase di Delfi però è poco conosciuto, perché volutamente celato, perché infondo rappresenta tutta la chiave della conoscenza dell’uomo, dalla sua origine al suo vero scopo nell’universo. Questa è la frase completa scolpita sul frontone del tempio di Apollo «Uomo conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei».

LogoABB