La scelta di Brittany

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Brittany Maynard
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La nostra società, abituata a cantare ed inneggiare bellezza e gioventù, felicità e spensieratezza e poco propensa a rapportarsi con pensieri scomodi come quelli della gestione della malattia e della previsione della morte si scopre sempre impreparata e frastornata nell’affrontare i temi della finitezza dell’essere e della ipotesi della conclusione volontaria della vita

La scelta di Brittany Maynard, con la lucida decisione di porre fine alla sua esistenza di malata di cancro al cervello senza possibilità di cure e con la prospettiva di perdere giorno dopo giorno frammenti della propria coscienza in un prevedibile calvario fatto di terapie palliative e distruttive ricadute, è di quelle che lasciano il segno nell’animo di una intera civiltà. Non che sia il primo caso, perché anzi sempre più spesso siamo messi di fronte ad accadimenti simili, ma non c’è dubbio che il volto e la vicenda di questa ragazza sorridente e bella, apparentemente sana e felice nelle foto che compaiono sul web e sui media a corredo della vicenda hanno un che di beffardo ed al tempo stesso di sconvolgente.

La nostra società, abituata a cantare ed inneggiare bellezza e gioventù, felicità e spensieratezza e poco propensa a rapportarsi con pensieri scomodi come quelli della gestione della malattia e della previsione della morte si scopre sempre impreparata e frastornata nell’affrontare i temi della finitezza dell’essere e della ipotesi della conclusione volontaria della vita. La suggestione di una medicina capace comunque ed in ogni caso di aggredire e risolvere ogni male e l’ipocrita illusione di poter evitare le risposte alle domande sulla fine dell’esistenza si scontrano con la realtà dura delle consapevolezze sui limiti: limiti della nostra costituzione biologica, limiti sulla nostra capacità di prevenire le malattie, limiti sulla nostra possibilità di gestirle ed eliminarle. Non siamo preparati al dialogo col nostro corpo e ci imponiamo una visione ottimistica e per buona parte assai infantile secondo cui ad ogni male c’è rimedio e per ogni dolore una medicina.

Ma a volte, e la triste vicenda di Brittany ce lo dimostra con feroce realismo, le cose non stanno affatto così. Non siamo quei superuomini che crediamo/speriamo di poter essere, non siamo forniti di armi tecnologiche super perfezionate capaci di debellare ogni patologia, non abbiamo risorse che consentano di oltrepassare ogni ostacolo si frapponga fra noi, il nostro corpo, il nostro cervello, la nostra ottimistica volontà e quel destino che incombe, ferreo ed implacabile, sul nostro biologismo fatto di cellule che invecchiano, vasi che si otturano, organi che si corrompono.

E tocca così fare i conti con il cosa accade quando non siamo più padroni della nostra carne e, soprattutto, quando non riusciamo più a gestire i nostri pensieri e le nostre azioni. Quando, cioè, sappiamo che la nostra vicenda personale assume fattezze e contorni che non sono più nelle nostre mani e dipendono invece da variabili sconosciute ed oscure, proprie del nostro essere «umani» e «viventi».
È quello che è accaduto a questa dolcissima ragazza americana che, avuta la consapevolezza di non potercela fare non solo a vincere il tumore al cervello che l’aveva colpita ma anche a sopportarne le conseguenze in termini di dolore e di perdita di identità, ha scelto in maniera libera di chiudere la propria esperienza di vita assumendo un farmaco che si era procurata per tempo e che aveva deciso di ingerire quando la battaglia si sarebbe fatta più dura. Cosa che è successa a quanto pare il primo novembre dopo che la ragazza ha avvisato tutti, dai parenti agli amici del web, scusandosi per la scelta difficile e chiedendo di essere ricordata così, col sorriso sulle labbra ed un corpo ancora non stravolto dalla malattia e dagli inevitabili accanimenti terapeutici propri di quel genere di vicende.

Si riapre così, ed ancora una volta, lo struggente dibattito su cosa sia giusto fare e sul come sia giusto farlo, anche in considerazione del fatto che Brittany ha dovuto recarsi da San Francisco, dove viveva, all’Oregon, città che permette questo tipo di procedura, per poter metter fine ai propri giorni. In Italia, ad esempio e com’è noto, non avrebbe potuto farlo ed anzi, prevedibilmente, la sua decisione avrebbe provocato un innalzamento di scudi e di giavellotti quale siamo abituati a vedere spuntare puntualmente ogni qualvolta si ripresenta la necessità di una riflessione pubblica sui temi dei diritti individuali, delle libertà insopprimibili, del fine vita e dell’autogestione del proprio corpo.
Una riflessione complessa e difficile che però abbiamo il dovere di imporci di affrontare dandoci regole e linee guida se non vogliamo sempre più cadere nell’errore di trasformare vicende simili in terreni di scontro abbruttente quando non di squallida demagogia politica (si pensi ai dolorosi casi di Eliana Ongaro o di Piergiorgio Welby). Ed è una riflessione necessaria ed urgente per almeno due motivi che devono essere chiari a tutti: da un lato la possibilità sempre maggiore di diagnosticare malattie e prevederne il cammino, anche quando queste siano via via di fatto incompatibili con una vita normale o con la vita tout court, dall’altro la altrettanto enorme possibilità di gestire condizioni di non vita o di vita approssimata o di quasi vita fornita da una tecnologia che può preoccuparsi di battiti e di respiri ma non di coscienza e dignità. Come se la vita fosse solo battito ed alito e non anche e soprattutto identità e pensiero. E consapevolezza di identità e pensiero.

La scelta di Brittany è la scelta di una ragazza dolcemente coraggiosa e quasi sommessamente feroce. Una scelta che dice della voglia di viverla, la vita, e di viverla con la consapevolezza di rispettarla in quanto vita vera e non solo come somma di battiti e respiri (situazione a cui la ragazza era consapevole di dover giungere da lì a poco). Una scelta che ci pone dinanzi alla enormità della nostra possibilità di decisione ogni qualvolta l’enormità della nostra possibilità di intervento si fa meno capace.
La scelta, ancora una volta e sempre, sarà se rispettare la vita per il suo senso profondamente identitario o se rispettarla per il suo senso biologico. Brittany ha scelto la prima delle due opzioni e lo ha fatto con parole belle e struggenti: «le persone più felici sono quelle che si fermano ad apprezzare e ringraziare la vita». È stato il suo modo per cantare la vita nel momento in cui ha deciso di fermarla ed in questo le dobbiamo un piccolo silenzioso tributo di gentilezza verso la profondità di quell’esistenza che percorriamo scappando così da impedirci di pensare.