Con il via libera definitivo del Parlamento europeo all’accordo sulla riforma della Direttiva in materia di Ogm, ogni Stato membro avrà finalmente la libertà di consentire o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul proprio territorio. Si tratta di una buona notizia, che arriva alla fine del semestre italiano di Presidenza europea e che permette di avvicinarci a una soluzione definitiva della questione, anche nel nostro Paese dove da tempo è stata richiesta l’attivazione della clausola di salvaguardia. Lo afferma la Cia-Confederazione italiana agricoltori.
La norma va nella direzione auspicata, che è quella di lasciare l’ultima parola al singolo Paese Ue. E ad oggi, ricorda la Cia, la maggior parte dei consumatori e dei produttori europei si muove in direzione opposta agli Ogm. Non solo tre cittadini su cinque in Ue sono contrari ai cibi «biotech», ma la stessa superficie agricola comunitaria dedicata alle colture geneticamente modificate è irrisoria, rappresentando lo 0,001 per cento del totale. In Europa, ricorda la Cia, sono solo 5 Paesi (Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania) a coltivare Ogm, con 148.013 ettari nel 2013, una percentuale più che esigua rispetto al totale della superficie agricola utilizzata nell’Ue che ammonta a circa 170 milioni di ettari.
Da parte nostra, spiega la Cia, non c’è un atteggiamento oscurantista o ideologico, né una preclusione nei confronti della ricerca, ma è chiaro che bisogna tutelare prima di tutto quelle che sono le esigenze peculiari delle produzioni tipiche dei territori agricoli italiani, che sono appunto diversificate e legate saldamente alla storia, alla cultura, alle tradizioni delle variegate realtà rurali. Il nostro «no» agli Ogm scaturisce quindi dalla semplice consapevolezza che la loro introduzione può annullare la nostra idea di agricoltura e il maggiore vantaggio competitivo che abbiamo all’estero.
D’altra parte, la domanda alimentare nel nostro Paese è chiara e netta: prodotti di qualità, tracciabili, biodiversi, tipici, che fanno grande il «made in Italy» nel mondo, con esportazioni che muovono 34 miliardi di euro l’anno. E i mercati stranieri, conclude la Cia, chiedono vini, oli, formaggi, salumi e trasformati tipici dei nostri territori, con i loro sapori caratteristici assolutamente non omologabili.