Che valore diamo a una fonte di energia rinnovabile se poi la sfruttiamo per un cambiamento che non è in sintonia con la realtà vitale, di quegli equilibri naturali, che sono fonte di tali energie e dei quali noi stessi facciamo parte? A disastri avvenuti ci stupiamo delle calamità naturali che sono, invece, proprio da noi distrattamente provocate anche solo sottovalutando la cura che avremmo dovuto avere verso l’ambiente. Occupiamo territori sui quali interveniamo solo per pretendere, con ogni mezzo, produzioni estreme e prepotenti opportunità di profitto. Non ci sentiamo ancora impegnati (come parte attiva e non solo come passivi utilizzatori) nella creazione di relazioni sinergiche a favore proprio di quegli equilibri che mettono, anche a nostra disposizione, le loro risorse.
Se analizziamo i nostri comportamenti, dovremmo noi stessi meravigliarci delle sottomissioni ingiustificabili che imponiamo ai processi naturali: con questi ci impegniamo non a migliorare il nostro rapporto, ma a piegarli alle nostre pretese. Immaginiamo di possedere una visione compiuta di tutti i processi dei quali, invece, sappiamo solo rilevare il cambiamento che appare ai nostri occhi attraverso alcuni parametri da noi costruiti (certamente utili, ma che non sono neanche un’immagine riflessa di una realtà che non abbiamo strumenti e dimensioni mentali per affrontare nella sua complessità).
Oggi, le minacciose intenzioni economico-finanziarie (alle quali non sono estranei anche alcuni uomini di scienze) di modificare la natura di alcuni fenomeni vitali sono reali. È irreale, invece, la nostra presunzione di poter cambiare (con i nostri strumenti concettuali e tecnologici che, invece, non potranno mai adeguarsi alla complessità dei fenomeni naturali) tutto il sistema di equilibri vitali, solo cercando e avendo trovato modi meccanici (non naturali, come nel caso degli Ogm) per operare in questa direzione.
Sappiamo inventare giustificazioni, solo formalmente corrette, per legittimare i nostri interventi in una dimensione che sfugge, però a un nostro vero e responsabile controllo. Anche se questo nostro modo di essere è forse da interpretare come segno di un’identità originale soppressa dagli stili di vita, socialmente e ideologicamente imposti dalla massificazione della «civiltà» dei consumi (che non permette alternative e momenti di riflessioni), non possiamo accettare che le nostre attese siano ridotte alle miserevoli e paralizzanti esigenze di sopravvivenza fisica, come se fossimo vittime di una virtuale ma efficace lobotomica asportazione delle originalità culturali e sociali specifiche dell’uomo.
Riteniamo, presuntuosamente, di essere in grado di governare la complessità, confidiamo, in modo assoluto, nei pochi strumenti a nostra disposizione, tanto da assumere la responsabilità di rischiosi cambiamenti: ma come è possibile, allora, che non ci riconosciamo, poi, anche in grado di saper trovare alternative, alle immediate scelte istintive e mentalmente turbate, spinte da un’incontrollabile avidità dell’avere e da un ossessionato esercizio di potere? Non possiamo proporre e accettare, come meccanismi umani naturali, quei comportamenti che negano, proprio, peculiarità umane specifiche come le consapevolezze (che non sono certezze tecnologiche), la solidarietà (che non è beneficenza), la responsabilità (che non è solo preoccupazione e invincibile lotta contro un destino), l’autonomia (che è risorsa sociale e non libertà individuale senza condizioni), la chiarezza (che non coincide con una valutazione positiva e autoreferente di quello che ciascuno sa, fa e dice, ma che è, poi, incomprensibile ad altri), il personale giudizio critico (che non è una condanna, ma un contributo personale e originale ad un patrimonio culturale condiviso di esperienze umane).
È vero che il nostro stato d’impotenza (nel quale l’ideologia liberista, il regime del mercato libero dei consumi e l’economia finanziarizzata ci hanno confinato) sta assumendo dimensioni abissali e riesce a renderci sempre più incapaci ad affrontare le questioni essenziali del progresso umano, ma è anche vero che l’uomo dispone, ancora, almeno di due strumenti critici e operativi connaturati e inalienabili. Abbiamo sia un immenso patrimonio umano di riflessioni, di esperienze e di conoscenze (che possono offrire quadri ben approssimati sui nostri migliori modi di «essere se stessi»), sia capacità relazionali e sinergiche, non condizionabili (che offrono nuove e più compiute dimensioni e senso alle visioni personali e collettive dell’esistere e del divenire umano).
Pur se questi non sono strumenti sufficienti per offrire soluzioni immediate, al nostro stato d’impotenza operativa e di privazione di consapevolezze e responsabilità, sono sicuramente condizioni per esercitare quelle specifiche qualità umane che permettono di progettare e seminare scelte alternative nel disastrato terreno dell’attuale nostra condizione di stallo socio-politico e culturale. Oggi, però, è anche essenziale che la ricerca delle alternative (che la nostra storia ci invita a mantenere vitali come garanzia anche per la nostra sopravvivenza fisica e non solo per le nostre libertà condivise e fondamentali negli ambiti della cultura, del sociale, della politica e dell’economia) non ci confini, nell’irriducibile e dispersiva ricerca delle sole conoscenze ultime delle cose, isolandoci, così, dalle nostre responsabilità concrete verso la realtà sociale e ambientale che ci accoglie.
Un problema concreto, vissuto solo individualmente, o anche il trovarsi isolato ad affrontare le difficoltà di una particolare condizione psicofisica, sono una deviante riduzione delle dimensioni nelle quali possiamo affrontare le prove che la vita propone a ogni uomo. Sono, questi, momenti di astrazione dal contesto, ben più complesso del divenire della realtà, che impoveriscono il senso del nostro esistere come componente di un fenomeno (il vivere sociale) che nell’ampiezza delle sue relazioni può realizzare un alto valore aggiunto umano. Situazioni di questo tipo, se rimangono confinate nell’ambito delle sole esperienze personali, rischiano di diventare elementi devastanti, di chiusura infertile e autodistruttiva, nella ricerca dei significati del nostro vivere. Qualsiasi problema personale, se è, invece, oggetto di riflessioni socialmente condivise, può essere ridimensionato alla luce di esperienze diverse e può essere valorizzato come risorsa nuova, unica e di rilevante significato, anche per tutte le comunità dei nostri simili. Un problema, se diventa un riferimento sociale che integra esperienze di varie origini, avrà a sua disposizione le risorse di un’ampia diversità umana. Potrà quindi essere affrontato più compiutamente nella sua complessità e offrirà risposte più flessibili e pronte anche a mitigare eventuali suoi effetti indesiderati.
Dobbiamo prendere atto di una nostra attuale passività sia nel cercare sintonie con la natura (che, con le diversità dei suoi fenomeni, è sempre disponibile a offrire, alle nostre scelte, buone letture alternative della realtà), sia quando rimaniamo isolati di fronte a problemi (anche insidiosamente preordinati da micidiali visioni ideologiche) che coinvolgono tutta la comunità umana. Dobbiamo anche convincerci che il tempo è una risorsa limitata e che dobbiamo gestirla, con la migliore efficienza e consapevolezza, per fare scelte fra soluzioni alternative e diverse da quelle solo istintive, non finalizzate e non contestualizzate.
Possiamo cominciare a riflettere partendo da alcune prime considerazioni: le esperienze sociali e le conoscenze responsabilmente condivise non migliorano le nostre condizioni di vita nel breve tempo (solo il tempo per distruggerle può essere breve); una soluzione già pronta all’uso può portare solo ad un cambiamento formale, ma non ad un consapevole progresso umano; ripartire ogni volta da zero è un modo di procedere che rischia di riportarci a fare scelte infertili, già sperimentate, la cui memoria, invece, può aiutarci ad andare oltre gli errori già commessi; nei cambiamenti imposti con la forza dagli uni o dagli altri vincono sempre ambigui prepotenti che sanno come partecipare vittoriosamente senza schierarsi; riflettere in modo autonomo, confrontarsi, condividere, assumere le responsabilità del proprio modo di pensare e di operare, non sono optional se si intende vivere, consapevolmente, una propria e leale parte, nel divenire delle cose del nostro mondo.