Correlazione fra costo dell’energia e delocalizzazione all’estero delle imprese italiane

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Agli italiani servirebbe capire meglio cosa davvero ha risucchiato altrove il nostro lavoro. Chi dice il differenziale dei salari, chi dice la durata dei nostri processi, chi ancora altro. Pochi accusano il costo dell’energia, ingannati dalle statistiche di Eurostat, la cui compilazione mirata è stata requisita (con una grossa ristrutturazione delle rispettive Dg, dopo aver demolito la Dg Tren che era allora appannaggio di Tajani) dai Paesi dotati di nucleare.

In realtà, la graduatoria dei Paesi in cui le industrie italiane sono costrette a delocalizzare segue pedissequamente quella dei costi dell’energia, così come calcolati non dall’Ue, dove queste statistiche sono incredibilmente deformate da quei Paesi del club nuclearista, bensì dal Governo statunitense.
I Paesi verso cui il nostro lavoro fugge non sono affatto quelli con le caratteristiche comunemente supposte qui in Italia. Secondo un recente censimento (non una ricerca a campione: un censimento onnicomprensivo) che la Cgia (Confederazione generale dell’industria e dell’artigianato), ha operato di tutte le delocalizzazioni dall’Italia nel nuovo millennio, dal 2000 in poi il Paese più attrattivo è la Francia (con i suoi 6 centesimi al Kwh ha attirato 2.562 aziende italiane, record mondiale) seguito, nell’ordine di attrazione, da Usa (7 centesimi e 2.408 aziende), Germania (11 centesimi e 2.099 aziende), Spagna (12,5 centesimi e 1.925 aziende), Regno Unito (15,5 centesimi e 1856 aziende). La covarianza è rigorosa persino nella corrispondenza fra le distanze rispettive, delle delocalizzazioni da un lato, e delle differenze dei costi energetici dall’altro. Solo un cent tra Francia ed Usa, e solo 154 aziende di differenza. Più alta la differenza fra Usa e Germania nei costi elettrici (4 cent) e ben 309 aziende di scarto. Di nuovo più basso il divario energetico fra Germania e Spagna (1,5 cent) e di nuovo più bassa la differenza nella spinta delocalizzatoria: 174 aziende. Persino il mezzo cent ha una sua rilevanza, come si vede nella differenza nel divario tra Francia ed Usa (un cent e 154 aziende, da un lato, e dall’altro tra Germania e Spagna (un cent e mezzo, e 174 aziende).
Neppure i dati più macroscopici, come le rispettive grandezze dei territori e delle popolazioni, nessun altro fattore risulta capace di scompigliare la ferrea corrispondenza fra graduatoria delle delocalizzazioni e graduatoria dei costi dell’energia elettrica per le imprese.
Paesi con stipendi più bassi ce ne sono un’infinità nel mondo, ma quel loro basso costo del lavoro non basta affatto, senza un basso costo dell’energia, a salire nei primi posti. Al quarto ed al settimo posto dell’attrattività si collocano Romania e Cina, tanto spesso sbandierati nei media italiani fra i più attrattivi per i bassi stipendi e le altre basse garanzie ai loro lavoratori: ebbene, i loro costi energetici purtroppo non sono aggiornati dall’Eia, ma già dalla evoluzione degli anni precedenti risulta troppo probabile che si collochino esattamente in proporzione. L’ultimo dato della Romania risale al 2005, con un costo simile a quelli di Spagna e Germania di allora. La Cina non viene classificata dall’Eia. Soprattutto mancano fra quelli più attrattivi tanti altri Paesi che gli italiani credono primeggiare.
Se ne ricava uno specchietto che ogni italiano disoccupato o minacciato di disoccupazione e sottoccupazione dovrebbe duramente memorizzare.

 

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Eppure mai nessuno in Italia cita questa co-varianza, di solito sostituendole quella del costo della manodopera, la velocità dei processi giudiziari, la troppa burocrazia, o qualcuno degli altri fattori della graduatoria annuale della Banca mondiale sulla facilità di fare impresa, Ease-doing business index. Che c’entra ben poco col nostro problema italiano, se la Francia vi compare regolarmente al di sotto del trentesimo posto invece che al primo. Anche la promessa riduzione del costo dell’elettricità del 10%, che porterebbe il Kwh italiano da 29 a 26 cent, ne lascerebbe il costo fra quattro e cinque volte quello francese.
I francesi ne sono certo consapevoli, dotati come sono di ben 7 sui 25 migliori economisti del mondo, secondo la statistica ora compilata dall’Fmi: si direbbe che abbiano affidato ai loro economisti questa loro revenche contro la poignardée au dos loro inflitta dall’Italia nel 1940, invece che ai loro generali; De Gaulle fu impedito dagli americani di acquisire fette maggiori di territorio italiano, però dovemmo cedere alla Francia le dighe idroelettriche di Briga e Tenda, avviando il processo che oggi prosegue a valanga.
La Francia dichiara, con voti solenni e sonori, di voler ridurre la sua quota di nucleare, dall’attuale 75%, prima al 50, ed ora addirittura al 25%, però si guarda bene dal mantenere la promessa di chiudere almeno la più vecchia delle loro centrali a Fessenheim entro il 2016, procedura che richiederebbe un quinquennio e non è ancora affatto iniziata; anzi, l’autorevole Le Monde dubita che verrà mantenuta, soprattutto dopo che Ségolène Royale, ministro dell’Ecologia, ha espressamente dichiarato la necessità di un ripensamento su quella avventata promessa del suo ex-marito. Il quale del resto non può sperare di essere rieletto: la corsa si giocherà fra Sarkozy e Marine Le Pen, ambedue dichiaratamente filo-nucleari.
Più che di una vendetta per la pugnalata alla schiena, o per la strage di san Bartolomeo che aveva violentemente e superficialmente strappato la Francia dall’alleanza con i Paesi protestanti, l’Italia sembra vittima oggi di un surreale gioco delle tre carte: la Francia e gli altri Paesi protestanti ci indicano come noi dobbiamo fare, affinché noi continuiamo a lasciarci rubare le nostre industrie.
Ha funzionato così anche con gli altri Paesi cattolici (ed ortodossi) europei; ma nessun altro Paese del G20, nessun altro Paese manifatturiero ci è cascato così tanto come noi, in questa illusione pseudo-ecologica. Secondo l’Espresso del 18/12/’14 a pag. 127 proprio l’Italia ha chiesto questo tipo di accordo, confidando che il calo della propria economia fossil-dipendente avrebbe da solo causato una contrazione dei nostri consumi di idrocarburi. Quel nostro calcolo, avanzato da mesi, è stato preso in contropiede dall’improvviso crollo del prezzo del petrolio. Ci siamo così preclusi noi stessi di fruire dell’elemosina che occasionalmente ci viene elargita dagli spacciatori della droga da cui abbiamo voluto dipendere.