La violenza che ci tocca e che possiamo rimuovere

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Siamo passati lentamente, quasi senza rendercene conto o come se fosse un fatto scontato, dalla condivisione dei beni della Terra al possesso esclusivo esercitato su ogni cosa, anche su quelli immateriali. Sono state inventate e imposte inverosimili proprietà intellettuali, per vantare propri diritti economici da chi di quelle cose comuni ne aveva fatto oggetto del proprio interesse, del proprio lavoro, del proprio contributo concreto al Bene comune

I precedenti articoli:
L’uomo ancora non sceglie di vivere sulla Terra 
La violenza è nelle merci 

Possiamo avere solo una vaga idea di cosa sia una transizione e di come violenze e distruzioni riescano ad agire in questo tipo di scenari che ora sono presenti anche in questi nostri tempi. Sono scenari troppo sottovalutati o ignorati, forse ricostruiti con qualche occulta finalità o che sfuggono, senza intenzioni preordinate, alla nostra comprensione, a ogni possibile verifica? Certo è che appaiono tanto assurdi da sembrare il segno di un immutabile destino che genera sottomissioni e profonde demotivazioni. Sono scenari che inizialmente erano stati attesi addirittura come segno di un progresso umano e che, invece (come nel caso delle cosiddette primavere arabe), sono finiti altrove. Noi, intanto, non riusciamo a trovare risposte chiare al perché di questi cambiamenti di rotta che si trasformano in eventi drammatici e arrivano fino a procurare inspiegabili quantità di morti e di distruzioni.
Nella nostra storia, quella raccontata nei libri, vi sono semplificazioni necessarie per rendere comprensibili questi scenari negli aspetti proposti come più interessanti: per vantare la gloria o la polvere di imperatori e condottieri, per mitizzare una società (mostrandone la grandezza nel commercio, nella finanza, nell’arte).

Lo scontro con la realtà

La realtà, diversamente dalle nostre attese, non può, però, essere ridotta alle cose che pur possiamo ritenere essenziali: sarà, allora, la complessità, che articola gli eventi, a definire i percorsi e noi, disorientati, non riusciremo a seguirne le tracce. Se, però, la realtà non si adatta alle nostre semplici speranze, può essere, invece, deviata dalla potenza dei mezzi che permettono ad alcuni di deformarne il divenire.
Oggi questa potenza è enorme: è quella, immaginata neutrale, delle applicazioni delle nuove scoperte scientifiche, della tecnologia, dell’economia, della comunicazione, è quella che immaginavamo di poter impiegare a favore del progresso umano e che invece ha armato, sempre più, gli interessi di pochi, generando, così, il danno dei molti. In questo modo siamo passati lentamente, quasi senza rendercene conto o come se fosse un fatto scontato, dalla condivisione dei beni della Terra al possesso esclusivo esercitato su ogni cosa, anche su quelli immateriali. Sono state inventate e imposte, per esempio, inverosimili proprietà intellettuali, per vantare propri diritti economici da chi di quelle cose comuni ne aveva fatto oggetto del proprio interesse, del proprio lavoro, del proprio contributo concreto al Bene comune, è il caso, per esempio dei diritti vantati, da una società di biotecnologie, sul riso «basmati» tradizionalmente coltivato in una particolare zona dell’India.

Anche se non si manifestano nei modi tradizionali, oggi sono in atto guerre non dichiarate che alcuni forti centri di potere mirano a vincere per sottomettere le volontà dei vinti (spesso anche inconsapevoli) e saccheggiarne le risorse. Una situazione che se fosse diffusamente nota, non dovrebbe far meravigliare nessuno dei conseguenti conflitti dichiarati che sorgono come risposta (agli insopportabili disagi delle sottomissioni e dei saccheggi) e che per la violenza con la quale si manifestano, possono essere, facilmente ma non correttamente, anche interpretati e condannati, come il male originario, pur essendo solo una conseguenza di ben altri precedenti e sicuramente originari mali.
Un futuro, dunque, affidato alle sole speranze si mostrerebbe, oggi, solo come un insieme inestricabile e controverso, nel quale non è possibile definire, in modo chiaro e assoluto, lo stato delle cose e le tendenze dei fenomeni: la realtà non sembra concretizzabile in forme definite non solo di speranze per un futuro da progettare, ma anche di minime previsioni per il domani. Certo è che non sappiamo se le previsioni umane falliscono miseramente per una loro irrimediabile incompiutezza o se vengono fatte fallire da chi ne vuole trarre un utile e che può, poi, voler anche continuare perché interessato alla conservazione dei risultati raggiunti e a lui favorevoli.

Intreccio cultura e merci

Dagli atti, che raccolgono in forma scritta le cose del passato, abbiamo tutta una realtà formale fatta di registrazioni di contratti, di accordi, di dichiarazioni di amicizia o di ostilità, di denaro, di dati che a vario titolo parlano anche della popolazione, delle sue condizioni di vita e non solo dei potenti e delle loro vittorie e sconfitte. Abbiamo testimonianze raffigurate in opere d’arte scolpite, dipinte o disegnate.
Abbiamo pensieri meditati, racconti epici, ma abbiamo anche luoghi imposti dalla produzione-consumo delle risorse e dal triste esercizio del potere sull’uomo. Tutte cose che hanno colpito le nostre visioni del mondo e che convincono, oggi, sulla convenienza di modi pragmatici di vivere e di pensare. All’ombra della nostra civiltà che, in tempi passati, proponeva di investire sulla scienza e sulla tecnica per un mondo migliore, siamo invece, oggi, di fronte a uno scenario reso minaccioso proprio dalla potenza distruttiva a favore della quale la scienza e la tecnica sono state asservite.
I progressi a favore della salute sembrano, oggi, più finalizzati a curare la sopravvivenza di chi dispone delle risorse economiche per curarsi e per continuare, poi, ad alimentare un sempre più vasto mercato dei consumi.
La cura rivolta alle comunità umane, nei paesi colpiti da epidemie e carestie di ogni tipo (a parte l’amore e il sacrificio dei volontari che operano senza interessi) sembra, infatti, più ispirata da una preoccupazione di difesa dai contagi, che da una volontà di progresso a favore di tutta l’umanità. Accogliamo, è vero, i profughi, ma questo impegno è vissuto con disagio da moltissimi ed è diventato motivo di scontro per agguerriti, pur se pochi, oppositori (che vorrebbero misure contro l’«invasione» di immigrati, ma che sembrano avere, poi, difficoltà nel ricordare quanto, le terre di questi perseguitati, siano fonte di materie prime insostituibili per la nostra non-civiltà dei consumi, alla quale proprio loro non hanno certo intenzione di rinunciare).

La complessità

La situazione è complessa e per le sue dimensioni, a noi, non può che apparire, confusa e complicata da affrontare. Non siamo però di fronte a un male da attribuire solo alla nostra modernità, pur se non possiamo negare l’attuale enorme capacità distruttiva dei modi e dei mezzi con i quali l’uomo moderno si presenta in uno scenario che è follemente puntato a colpire quei fenomeni vitali ai quali, lui stesso, appartiene. Una conferma del male, che nella storia ha sempre accompagnato l’uomo, la troviamo, per esempio, ben codificata nelle visioni del nostro mondo offerte dalla mitologia greca che sulla natura umana ha molto osservato e riflettuto.
Possiamo richiamare, per esempio, il vaso di Pandora nel quale, invano, l’uomo tenta, ancora oggi, di imprigionare, idealmente, l’incontenibile male che lo accompagna. Possiamo richiamare l’avidità del re Mida, con il suo compulsivo desiderio di trasformare in oro, strumento di potere, ogni cosa che toccava.
Si dice che «la speranza è l’ultima a morire», cioè non ci abbandonerà mai. Ma c’è anche chi dice che «chi di speranza vive, disperato muore». Fra le posizioni di fiducia incondizionata e quelle di cinismo terminale, troviamo variamente distribuita tutta la nostra umanità con motivazioni profondamente diverse non solo fra le singole persone, ma anche fra i momenti diversi della vita di una stessa persona. Non può essere che così, se ci rendiamo conto delle nostre incompiutezze.
Dobbiamo, però, renderci conto che il vivere anche queste stesse incompiutezze, può diventare una risorsa che permette di evidenziare dati di realtà essenziali per non esporci a squalificanti valutazioni. Per esempio, quelle sulla dabbenaggine o sulla perfidia dei nostri simili, individuati come responsabili dei mali del mondo se non proprio dei danni a nostri egoistici ma autolegittimati interessi. Non possiamo negare l’esistenza di queste decadenti altrui «virtù», ma non possiamo neanche rischiare, con le nostre incontrollate valutazioni, di mostrare più i limiti del nostro essere autoreferenziali, che non gli eventuali limiti di chi ci impegniamo a criticare, usando solo nostre estemporanee convinzioni.
L’uomo che può scegliere di sperare o non sperare è un implicito segno che il «saper sperare» è una specifica qualità del pensare umano.
Dunque, di fronte alla mitologica diffusione del male che ha pervaso il mondo (dopo l’apertura del vaso di Pandora), dovremmo innanzitutto dare alla speranza il significato di una fondamentale risorsa umana capace di animare i nostri impegni a far emergere e promuovere le nostre qualità vitali e a valutare la fattibilità dei nostri progetti di progresso umano. Con un’analisi di realtà, potremmo, poi, riconoscerne la presenza vitale in tutta la nostra storia, ma nello stesso tempo dovremmo, anche, riconoscerne i fallimenti. Avremmo, così, buone indicazioni per interrogarci sui motivi dei successi e dei fallimenti aprendo un dialogo, con la ricchezza di questo tipo di esperienze di vita di ogni essere umano, e incontrando i nostri simili, per condividere le ragioni delle diverse valutazioni personali. Potremmo, altresì, indagare sugli argomenti che sembrano più convincenti, per valutare e confrontare i risultati ottenuti, per prendere decisioni meditate, per cercare modelli di vita che diano alle speranze l’opportunità di realizzare esperienze alternative a quelli imposte da incontrollate voglie di potere e da tante altre compulsioni, frutto di non curate turbe mentali.
Dunque, la speranza e le relative esperienze individuali e collettive, sono risorse da mettere in gioco. Non è certo la strada che porta alla scoperta della verità, ma è certamente un modo per non rimanere passivi, in condizioni solo di osservatori estranei agli eventi, come se fossimo in attesa rassegnata della nostra sorte, decisa da un inesorabile destino.

Le miserie del nostro passato non sono state molto diverse dalle miserie del nostro presente. Vi sono differenze, ma lo stato della condizione umana, pur in presenza di contesti e di vicende diverse, è rimasto sostanzialmente identica. Dunque più che angosciarci per l’impotenza di una nostra condizione di eterna attesa, più che invocare condanne di ogni genere sul male che, pur oggettivamente, imperversa nel mondo, conviene trovare o ritrovare il piacere di incontrarsi per costruire consapevolezze e dare senso alle cose e ai loro equilibri e per sperimentare e aggiornare le migliori soluzioni condivise che possano limitare il dilagare dell’avidità, del potere, dell’odio, della violenza.
Se riflettiamo, possiamo venir fuori dagli automatismi, che paralizzano la nostra attenzione sui prodotti che il male impone, andando ad analizzare criticamente i suoi meccanismi primordiali di distruzione di ogni fenomeno vitale. Dovremmo dirigere la nostra attenzione dall’osservazione impotente dei prodotti finali (in questo caso le violenze attribuite all’azione di un male), alla analisi e valutazione dei processi, fin dalla loro origine, che portano alla produzione delle violenze, all’esecuzione di programmi di sterminio. Dovremmo, ancora, saper riconoscere quanto male può essere stato generato dalla mancanza di relazioni con il Bene o dalla sottrazione di un Bene esistente.
Possiamo, così, arrivare a ipotizzare una sua origine e le misure che possono essere attuate per attivare le consapevolezze e le responsabilità di chi si trova a operare per il male, ma anche per chi ne può essere stato un eventuale promotore. Quindi, non solo per gli sprovveduti manovali del male, ma soprattutto le menti allucinate che possono aver operato come coordinatrici in contesti e a livelli di comando anche diversi da quelli apparenti. Per esempio, quelle menti visionarie, che si sentono incaricati del compito di mettere ordine al mondo e che per farlo non trovano di meglio che ricorrere alla feroce miseria di una distruzione totale, affidata a terzi, immaginando che la banalità di poter, poi, costruire un nuovo mondo, ripartendo da zero, possa essere l’opportunità concreta per un cambiamento ideale e definitivo.

Traguardi segnati ma non raggiunti

Continuando con qualche altra riflessione, sulla quantità di piccoli e grandi cambiamenti che sono avvenuti nelle pieghe dei corsi e dei ricorsi storici che hanno interessato la nostra umanità, possiamo analizzare anche il miglioramento della qualità di vita della popolazione di molti paesi. Sono i risultati di un progresso per l’uomo che, pur nella loro lenta produzione, devono essere resi utilmente più visibili: non esistono più i servi della gleba (anche se nuove forme di schiavitù tendono a prendere piede coperte da deviate ragioni economiche che, in realtà, sono preoccupanti indicatori del fallimento dell’attuale modello neoliberista del libero mercato dei consumi); senza il consenso, anche solo formale del voto elettorale, in moltissime nazioni, è impossibile assumere responsabilità di governo (anche se l’ignoranza e la mistificazione dei fatti, può vuotare di senso le scelte democratiche); i diritti pur se negati resistono ed è anche operativa la denuncia di chi li nega e del male che ne consegue; sono molte le popolazioni che si sono affrancate dalla fame e dalla sete (pur se popolose aree del mondo soffrono ancora per la mancanza di cibo e di acqua).
Questi, significativi cambiamenti, pur se non hanno cambiato il mondo, confermano l’efficacia del saper sperare e indicano una tendenza costante verso il miglioramento della qualità di vita che l’uomo sa perseguire nel tempo. Sono segni che ci invitano a curare queste capacità specifiche dell’uomo, soprattutto per poter superare quei momenti, di sfiancamento psicofisico, che potrebbero riuscire a toglierci ogni ragione per sperare.

Dobbiamo, infine, renderci conto che il male fa male anche a chi lo produce. Infatti, la mancanza di presenza a se stesso, che consente di negare il valore delle proprie qualità umane e delle capacità di riflettere e dare senso ai propri progetti di vita, fa male anche a chi opera in questa direzione. L’uomo consuma senza senso il proprio esistere se le finalità del proprio pensare e operare non trovano riscontro nel desiderio di poter vedere realizzate le proprie aspirazioni più profonde e non le distruzioni che le negano. La banalità del male e l’assoluto inattaccabile, in esso ricercato, la sua origine e la sua azione patologica, sono oggi potenziate, nelle loro capacità distruttive, dalla disponibilità di sofisticati strumenti, per il controllo dei singoli individui e per la gestione delle strategie in atto e dei centri di decisione.
La tecnologia ha messo a disposizione del male, nelle sue diverse forme di oppressione dell’autonomia e delle responsabilità umane, i mezzi più avanzati che sono pagati con il nostro lavoro e con il contributo dei profitti procurati dalle mode, sempre nuove, dei nostri consumi. Per la condivisione dei beni, invece, non servono le tecnologie sempre più avanzate, necessarie solo per competere e vincere sui mercati del potere, per aumentare la potenza dei contrasti e degli strumenti di sottomissione e di morte. Per la condivisione del Bene servono solo buone tecnologie per potenziare relazioni e sinergie vitali, per favorire il progresso e dare senso alla sua dimensione umana.

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