Il rallentamento della crescita di una popolazione vivente è direttamente proporzionale alla diminuzione della massa di beni materiali disponibili, dovuta alla sottrazione delle risorse naturali dall’ambiente, e alla conseguente crescita della massa di rifiuti tossici immessi nell’ambiente. La constatazione che anche la nostra specie umana ubbidisce alle stesse leggi di crescita e declino di tutti gli esseri viventi è motivo non di disperazione, ma di stimolo a cercare il «benessere» non nel continuo sfruttamento e degrado del pianeta per il possesso di più merci, ma nella solidarietà, nel rispetto degli altri, nel vivere «bene»
Poche cose hanno attirato l’interesse degli esseri umani come l’interrogarsi sul futuro: quanti abitanti può «sostenere» il nostro pianeta? ci sarà cibo e acqua ed energia per tutti?
Come è ben noto, una popolazione di esseri viventi animali, e quella umana è una di queste, vive ricavando dall’ambiente dei beni materiali, alcuni rinnovabili come l’acqua o i vegetali, altri non rinnovabili, come il carbone, altri trasformati dalla «tecnica». Per il principio di conservazione della massa e dell’energia tutto quanto «entra» in un processo, come quello vitale, esce nella stessa quantità ma «degradato», non più utilizzabile come tale, sia energia, o gas, o acciaio e carta, eccetera, e addirittura sotto forma di scorie dannose per l’ambiente.
Dal momento che, nel caso del pianeta Terra, l’ambiente è fisicamente limitato, a mano a mano che aumenta la popolazione, diminuisce la quantità di beni disponibili e peggiora la «qualità» dell’ambiente stesso. Tutti i discorsi sull’ecologia, la decrescita, eccetera, hanno la loro base nelle leggi della vita che si studiano nei corsi di biologia nel capitolo sulla dinamica delle popolazioni, elaborata negli anni Trenta del Novecento dagli studiosi Lotka, Volterra, Kostitzin, Gause.
Tali leggi spiegano che, in un ambiente di dimensioni limitate, il numero degli individui di una popolazione dapprima cresce rapidamente, quando sono abbondanti cibo e spazio; a poco a poco tale numero cresce più lentamente (cioè diminuisce il tasso di crescita percentuale annuo). Il rallentamento della crescita di una popolazione vivente è direttamente proporzionale alla diminuzione della massa di beni materiali disponibili, dovuta alla sottrazione delle risorse naturali dall’ambiente, e alla conseguente crescita della massa di rifiuti tossici immessi nell’ambiente.
Il tasso di crescita r di una popolazione P diminuisce, quindi, a mano a mano che diminuisce la massa dei beni disponibili K, e che cresce l’intossicazione dell’ambiente, espressa da un termine a∫Pdt che dipende dal numero di individui che hanno occupato in passato tale ambiente, moltiplicato per un coefficiente a corrispondente all’inquinamento lasciato da ciascuno di loro:
dP/dt = rP [1 – P/K – a∫Pdt]
Questa equazione integrodifferenziale è stata proposta nel 1934 dal grande matematico Vito Volterra. L’intera storia è raccontata nel libro di Umberto D’Ancona, «La lotta per l’esistenza», Torino, Einaudi, 1940, che riassume il lavoro di Volterra e quello di Vladimir Kostitzin, il quale ha approfondito lo stesso problema negli stessi anni.
Naturalmente anche la disponibilità di risorse K è funzione della popolazione P proprio come lo è il degrado ambientale qui schematizzato come «inquinamento». E anche l’intossicazione ambientale dipende dalla capacità della natura di assorbire le sostanze generate dalle attività umane e diminuisce quando diminuisce la popolazione P (gli oceani assorbono parte dei gas generati in precedenza, la radioattività di origine antropica lentamente decade, eccetera).
A questo sistema di equazioni integrodiffenziali si è ispirato, trent’anni dopo, Jay Forrester nella sua analisi dei sistemi utilizzata per le «previsioni» di possibili futuri esposte nel libro del Club di Roma sui «Limiti alla crescita».
Con un poco di calcoli è facile vedere che, nell’ambiente ipotizzato, per qualsiasi valore positivo di r, K e a, una popolazione P, dopo avere raggiunto un massimo diminuisce e poi scompare. Volterra nel 1938 ha intitolato un suo saggio proprio: «Crescita della popolazione, equilibrio e estinzione». A questo punto la disponibilità delle restanti risorse naturali resterebbe (abbastanza) stabile e l’intossicazione e il degrado dell’ambiente rallenterebbero e anzi diminuirebbero.
Per gli umani la rapida crescita della popolazione è stata resa possibile dagli eventi che, dal Seicento in avanti, hanno assicurato, anche con le scoperte geografiche, a un crescente numero di persone una crescente disponibilità di spazio in cui abitare, di «risorse naturali» da «sfruttare» per ricavarne cibo e di beni materiali.
Da un certo periodo in avanti, diciamo dalla seconda metà del Novecento, si sta osservando un rallentamento del tasso di crescita della popolazione umana (non del numero totale degli individui), una «transizione demografica» dovuta al fatto che in molti paesi industriali le donne lavorano, che la prolificità non è più un valore e che mancano le abitazioni. Al rallentamento del tasso di crescita r della popolazione umana P contribuiscono anche (a) la crescente difficoltà di procurarsi cibo, energia, materie prime e merci, a causa dell’impoverimento delle riserve di risorse naturali (petrolio, terre fertili, foreste, minerali), e (b) il peggioramento della «qualità» dell’aria, delle acque, del suolo e degli spazi abitabili in molti paesi a causa del continuo aumento di agenti inquinanti e di danni ambientali che ogni anno si aggiungono a quelli dovuti alle generazioni precedenti.
Il rallentamento della crescita della popolazione umana comporta anche continue modificazioni non solo del numero totale di individui, ma soprattutto della loro distribuzione per età, con un aumento degli «anziani» e una diminuzione dei «giovani», il che significa una diminuzione della frazione in età lavorativa e una modificazione del lavoro, dalla produzione di oggetti ai servizi. Fenomeni vistosi nei paesi industrializzati ma che si manifestano ben presto anche in quelli oggi poveri.
Del resto anche una ipotetica società stazionaria, in cui il numero di nati fosse uguale al numero dei morti, non sarebbe sostenibile a causa della diminuzione delle risorse naturali da cui trarre beni materiali e dell’intossicazione dell’ambiente.
Mi rendo conto che la prospettiva del declino di una popolazione, dei consumi, della disponibilità di risorse è sgradevole per una società basata sul principio che soltanto più persone-consumatori e più beni materiali assicurano più ricchezza monetaria, considerata l’unico indicatore del benessere, cioè dello stare bene; la massa di scorie che inevitabilmente accompagna questo cammino è solo un secondario «irrilevante» disturbo nel cammino della crescita. Tale società si affanna a diffondere la certezza che la scienza, la tecnologia e la stessa crescita della ricchezza qualche soluzione troveranno, il che è poco credibile alla luce sia delle leggi della vita sia della storia dei viventi.
La constatazione che anche la nostra specie umana ubbidisce alle stesse leggi di crescita e declino di tutti gli esseri viventi è motivo non di disperazione, ma di stimolo a cercare il «benessere» non nel continuo sfruttamento e degrado del pianeta per il possesso di più merci, ma nella solidarietà, nel rispetto degli altri, nel vivere «bene». Del resto perfino il Papa Francesco, in una «lettera» al giornalista Scalfari nell’estate del 2013, ha scritto che un giorno la nostra specie finirà. Quando e come questo avverrà per la popolazione umana (centinaia, migliaia di anni?) non è possibile sapere: innumerevoli specie viventi sono comparse, cresciute e scomparse nella Terra; non scomparirà comunque la vita, almeno fino a quando il Sole diffonderà un po’ delle sue radiazioni di luce e energia.