In un articolo, pericoloso e privo di alcun riferimento a studi o ricerche, pubblicato qualche giorno fa, si tenta in tutti i modi di salvare la reputazione di uno dei peggiori disastri ambientali del secolo. Nel testo si parla di un «quadro disegnato dagli scienziati, almeno su alcuni aspetti, decisamente ridimensionato». Peccato che non sia riportato un solo nome di scienziato che «ha ridimensionato il quadro» dell’olio di palma e neppure un solo riferimento bibliografico alla letteratura scientifica (a parte uno studio del Mario Negri che sperimenta su topi e ratti problemi riguardanti la salute umana) – Sugli oli tropicali
Non c’è mai stato un olio più al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica come quello prodotto dalla palma. Ne discutono programmi televisivi (per ultimo «Report» di Rai 3), associazioni ambientaliste, gruppi di consumatori e persino riviste di curiosità, più che di scienza. Proprio come la celeberrima «Wired», difficilmente identificabile come mezzo di comunicazione scientifica, ma certamente un media divulgativo e popolare.
Eppure, in un articolo a firma di Alice Pace (giornalista scientifica…), pericoloso e privo di alcun riferimento a studi o ricerche, pubblicato qualche giorno fa nella rubrica di medicina, si tenta in tutti i modi di salvare la reputazione di uno dei peggiori disastri ambientali del secolo. La giornalista Pace si para subito le spalle e, scaricando le responsabilità su quanto affermerà nel seguito, parla di un «quadro disegnato dagli scienziati, almeno su alcuni aspetti, decisamente ridimensionato». Peccato che non sia riportato un solo nome di scienziato che «ha ridimensionato il quadro» dell’olio di palma (a parte Rossi, delegata Fao, organizzazione UN spesso sponsorizzata dagli stessi produttori di olio di palma) e neppure un solo riferimento bibliografico alla letteratura scientifica (a parte uno studio del Mario Negri che sperimenta su topi e ratti problemi riguardanti la salute umana).
Ebbene, credo sia importante analizzare le tesi infondate sostenute dalla rivista, per fornire all’opinione pubblica una visione oggettiva e scientificamente valida sul problema, come ho già fatto in un precedente articolo pubblicato su questa rivista.
Perché si usa
Alice Pace nel suo articolo, condiviso quasi 20.000 volte secondo quanto orgogliosamente riporta il sito della rivista (e questo la dice lunga sull’effetto dell’inaccuratezza scientifica sui frequentatori del Web e sulla pericolosità di simili scritti), inizia la sua disamina partendo dal «Perché si usa».
La giornalista afferma che la ragione per l’utilizzo di un tale olio saturo tropicale è principalmente economica. Certamente! L’olio di palma viene prodotto in uno dei paesi dove il costo del lavoro, il rispetto dei diritti umani e delle leggi ambientali è tra i più bassi al mondo. Per il mercato globale, fosse anche un surrogato escrementizio, sarebbe oro.
Ciò che sorprende è l’affermazione di qualche riga dopo: «Il suo ingresso massiccio tra i nostri cibi è avvenuto in seguito all’inasprimento delle normative dell’Organizzazione mondiale della sanità sui grassi idrogenati, come le margarine, una trasformazione degli oli vegetali inizialmente impiegata come ripiego al burro, ma reputata subito nociva su vari fronti della salute. Se ora ci ritroviamo a consumare olio di palma, quindi, è anche per evitare che nei nostri alimenti ci fosse di peggio».
Falso!
Se ora ci ritroviamo a consumare olio di palma è solo perché il suo costo talmente basso e la sua facilità di produzione a discapito dei diritti umani e dell’ambiente hanno fatto gola alle multinazionali del cibo. La sostituzione della margarina con un alimento «più sano» e l’Oms non c’entrano assolutamente nulla, proprio perché la margarina stessa era già prodotta con la stesa combinazione di oli saturi di cui è fatto l’olio di palma (palmitico, stearico e laurico) e spesso miscelata con lo stesso olio tropicale. Quindi si è sostituito un prodotto (la margarina) con un altro (l’olio di palma) solo ed esclusivamente per ragioni economiche e di mercato. La salute non ha avuto alcuna rilevanza.
Fa male?
Al punto successivo «Fa male?», infatti, «Wired» ci regala una perla di anti-scienza (eppure l’articolo è stato pubblicato nella sezione «Medicina»): «Quello che però è sbagliato è sostenere che altri grassi, come il burro, non facciano male mentre l’olio di palma sì. […] In sintesi: non possiamo continuare a pensare che la merendina industriale (fatta con l’olio di palma) sia per forza cattiva, mentre la crostata fatta in casa dalla mamma (col burro) sia per forza buona». Suggerire al lettore che una torta o una ciambella fatta in casa debba essere considerata non «per forza più buona» di una merendina industriale è allarmante! Innanzitutto, l’utilizzo del burro di qualità (e sul mercato ce n’è anche di biologico e a chilometro zero) è di gran lunga preferibile all’olio di palma che viene coltivato con una dose smisurata di pesticidi, trattato chimicamente e conservato in condizioni ignote a migliaia di chilometri di distanza dall’utilizzatore finale. Quindi, bambini sia chiaro, la crostata fatta in casa è sempre migliore di quella confezionata! Inoltre, proprio per contenere il consumo di grassi saturi molte aziende biologiche e molti bravi cuochi domestici hanno sostituto il burro con l’olio di semi, di girasole o d’oliva. Le ciambelle vengono sempre col buco, ma non bucano le foreste tropicali. Anche sull’aspetto medico «Wired» cola a picco…
Colesterolo, cancro, diabete
La giornalista esamina poi la questione «colesterolo», «cancro» e «diabete» e afferma che per quanto riguarda il primo «la ricerca sul fronte è ancora aperta», mentre per il secondo «si tratta di accuse infondate» e il legame col terzo, secondo la ricercatrice consulente Fao non è attendibile, nonostante alcuni studi dimostrino un’incidenza sperimentale del Diabete di Tipo 2 dopo l’assimilazione cellulare di palmitato, «perché quella situazione sperimentale, anche se fatta molto bene, non può essere assolutamente tradotta in un effetto diretto sull’organismo». Ma se la ricerca su ratti e topi, organismi ben diversi dall’uomo, non allontana i dubbi e quella sulle cellule non è chiarificatrice, a cosa bisogna credere? Di quali accuse stiamo parlando? Fino a prova contraria si è sempre accusato l’olio di palma per la nocività in termini di deforestazione, violazione dei diritti umani e dei lavoratori, distruzione dell’habitat di specie come l’orango, etc., e l’unico collegamento con la salute derivava dal timore d’incremento del rischio di obesità dovuto al suo consumo e, come ammette Pace nell’articolo, «l’obesità, che spesso è sì legata a un consumo eccessivo di grassi saturi, può essere correlata a un aumento nell’incidenza di alcuni tipi di cancro. «Ma qui l’effetto è legato all’obesità, non all’olio di palma in sé» precisa Rossi». Come dire «le sigarette aumentano la concentrazione di idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) e di nitrosammine tabacco specifiche (Nts) nel sangue e queste a loro volta possono aumentare l’incidenza del cancro ai polmoni». Ma la colpa non è delle sigarette, è di Ipa e Nts che possono provenire anche da altre fonti (inceneritori, industria, etc.), così come i grassi saturi provengono anche da altre fonti. Certo! Però se il consumo di sigarette, così come quello di merendine con l’olio di palma è elevato, l’aumento d’incidenza del tumore è innegabile. La giornalista (scientifica) confonde il fattore causale con l’elemento di rischio. La fonte esterna non è mai causa diretta della patologia interna. C’è sempre una variazione biochimica e fisiologica (livelli di adipe e di colesterolo o livelli di Ipa e Nts) che media l’effetto negativo sull’organismo.
Effetti collaterali
E su tutto, come la mettiamo con l’utilizzo del pesticida «paraquat» vietato in Europa perché ritenuto altamente nocivo sulla salute e sull’ambiente e invece adoperato incondizionatamente sulle palme da olio in Indonesia? Anche in questo caso s’insinuano dubbi riguardo gli effetti sulla salute? È importante ricordare che molte sostanze appartenenti al gruppo dei pesticidi sono altamente liposolubili, cioè si sciolgono facilmente nei lipidi (oli e grassi) e quindi se spruzzati su semi oleaginosi ne entrano a far parte. Indovinate un po’ chi è il principale produttore di paraquat al mondo? Proprio la Syngenta che commercia anche l’olio di palma!
Ma tutto questo chiacchiericcio sulla medicina appare un tentativo di relegare alla fine il principale problema riguardante l’olio di palma: «Gli effetti collaterali sull’ambiente». Il sol fatto che vengano definiti «collaterali» gli effetti sull’ambiente, questi sì diretti, evidenti e immediati la dice lunga sull’attendibilità dell’articolo. La giornalista ammette «gli innegabili effetti sull’ambiente», effetti che definirei catastrofici più che innegabili visto che Borneo e Sumatra in pochi decenni hanno visto ridotte le loro foreste tropicali di quasi il 50%, che specie endemiche come gli oranghi stanno perdendo il loro unico habitat e che dopo aver deforestato per il legname, bruciato ed emesso in atmosfera tonnellate di gas a effetto serra, esposto le torbiere al rilascio di metano e anidride carbonica, si pianta la palma che dopo 3-4 cicli di coltura ed espianto non può più crescere su un terreno povero di nutrienti, come quello tropicale, e viene tirata su forzatamente con concimi chimici e massicce dosi di pesticidi, forniti a contadini sottopagati dalle stesse aziende che commerciano l’olio.
I vantaggi del biologico
Ma l’arringa difensiva nei confronti del bistrattato olio raggiunge l’apice dell’assurdità quando Alice Pace ci pone la domanda: «C’è però da chiedersi: cosa succederebbe se al posto delle palme, ci trovassimo a dover a spremere lo stesso volume d’olio da altre piante (tutte, peraltro, meno dibattute)? La risposta è che occuperemmo ancora più spazio, poiché la produttività delle palme da olio è altissima rispetto alle alternative possibili. Basti pensare che da un ettaro di palme da olio si ottengono quasi cinque volte l’olio che produce un ettaro coltivato a piante di arachidi, e ben sette volte quello di un ettaro di girasoli […]. Senza contare tutte le conseguenze che l’estensione delle colture comporterebbe sui consumi d’acqua, di fertilizzanti, di pesticidi. O se volessimo, come chiedono alcuni, sostituirlo col burro: siamo consapevoli che l’impatto ambientale sarebbe ancora più drastico?».
Ebbene chiediamocelo: cosa succederebbe? Primo, dovremmo ridurre la domanda di olio, visto che l’efficienza è inferiore e questo significherebbe più qualità e meno quantità. Ovvero minor cibo spazzatura per i nostri bambini, meno grassi saturi, ovvero riduzione della deforestazione. Questa subdola provocazione è la stessa che viene sciorinata a spada tratta in opposizione agli alimenti biologici: se tutti consumassimo cibi coltivati biologicamente sul Pianeta dovremmo consumare più terre per l’agricoltura. Falso! In entrambi i casi, per l’olio di palma e per il biologico. Perché, ovviamente, un utilizzatore di prodotti biologici è molto più consapevole dell’impatto ambientale del suo stile di vita, mangia in maniera più adeguata, solitamente riducendo o annullando il consumo di carne e pesce e così la necessità di terre coltivate per alimentare i pascoli, di acqua, di antibiotici e pesticidi e di risorse ittiche ormai allo stremo. L’utilizzatore di cibo biologico sa bene che ciò che conta è la qualità e non la quantità. Non mangia un chilo di patatine fritte a settimana, ma uno di patate al mese, biologiche e al forno (magari), non spreca risorse alimentari perché riduce al minimo i consumi e ricicla. Se tutto ciò venisse tenuto in conto, quale sarebbe l’impatto ambientale di un utilizzatore del biologico rispetto a uno tradizionale? Inferiore, di certo e terra e acqua sarebbero sufficienti, senza alcuna necessità d’espansione. L’incremento di terre arabili deriva piuttosto dall’assurda crescita invocata dal mercato globale (lo stesso che promuove l’olio di palma) e dall’incremento sconsiderato delle popolazioni in via di sviluppo (alle quali si preferisce fornire alimenti di scarsa qualità in un continuo approvvigionamento umanitario piuttosto che il know-how per vivere in maniera sostenibile e i contraccettivi e l’educazione femminile per evitare di sfornare un figlio all’anno).
Lo stesso si può dire per il famigerato olio: è stato prescritto da qualcuno che si debba consumare un pacco di merendine farcite all’olio di palma a settimana? Il dottore, quello serio, di certo non sarebbe d’accordo. Abbiamo già dimenticato che sino a un ventennio fa il consumo di cibi confezionati era limitatissimo, si preparava in casa molto più di oggi e si utilizzava certamente molto meno olio e molto più sano (visto che quello d’oliva o di girasole erano i più adoperati). Nonostante l’incremento della popolazione, se la scelta fosse indirizzata verso la riduzione dei consumi e degli sprechi e il consumo di alimenti di qualità, dell’olio di palma si potrebbe fare certamente a meno e la sua produttività sarebbe di poco conto se promuovessimo la riduzione del consumo di cibi confezionati e dolci, tornando alle vecchie ricette della nonna. Provate a chiedere alle vecchie massaie se preferiscono i loro tarallucci tradizionali o quelli del belloccio col grembiule così fragranti e palmitici… Provate a chieder loro se preferirebbero mangiare una focaccella al giorno, di quelle che restano morbide per sempre (cosa ci mettono dentro l’abecedario del conservante miscelato all’olio di palma affinché non diventino stantie? Quelle «della nonna» dopo due giorni sono dure come pietre), ma che fanno schifo già quando apri la confezione e le mordi, o una sola a settimana, ma di quelle col pomodoro fresco e l’olio d’oliva che devi mangiare appena sfornate…
Nessuno ci ha ordinato di aumentare il consumo, nessuno ci ha detto di usare più olio di palma perché dobbiamo mangiare più merendine. Gli altri oli non sono altrettanto produttivi? Bene, riduciamo di un quinto o di un settimo i nostri consumi (ovvero mangiamo una ciambella a settimana fatta in casa con un olio che non devasta le foreste tropicali e ingredienti biologici, invece di una merendina al giorno che fa male a tutto e a tutti, ecco che la riduzione 1 a 7 è fatta!) e non si pone assolutamente il problema dell’efficienza.
Controllori e controllati
Non c’è nulla di semplicistico al contrario di quanto riporta la giornalista: «come faceva notare anche Strade in risposta all’approccio semplicistico tenuto da Report in un servizio di qualche sera fa». Basterebbe smetterla di pensare come il mercato globale ci impone. Basterebbe smettere di credere che se le cose vanno così è così che debbano andare, che non possono essere fermate. Dimentichiamo presto il passato, ma dovremmo chiederci: come facevamo fino a soli vent’anni fa? C’era bisogno di tutto questo?
Ma Pace sa di cadere male anche su questo punto e tenta un’estrema difesa. Ammette ancora che: «Mettere il problema in prospettiva è purtroppo tutt’altro che semplice e sicuramente per venirne a capo sarà necessario pretendere maggiore trasparenza da parte delle aziende e dal commercio locale. Per ora l’unico, piccolo passo avanti si è compiuto con l’istituzione di regole che, anche se in grosso ritardo, sono indirizzate a tutelare la produzione sostenibile. Come quelle stabilite dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil, un organo tenuto a certificare l’olio prodotto (appunto) in modalità più rispettosa dell’ambiente. Uno strumento ancora molto debole e arbitrario, probabilmente a rischio di strumentalizzazione, ma che per ora segna la via più percorribile».
Peccato che l’Rspb è un controllore controllato dai suoi controllati (cioè chi monitora la «sostenibilità» è pagato dalle stesse aziende che producono l’olio insostenibile), peccato che l’olio di palma sostenibile non esista (anche se alcune associazioni ambientaliste vorrebbero farcelo credere), perché la palma da olio (al contrario dell’ulivo o del girasole) cresce solo in aree di foresta tropicale e per impiantare la coltivazione, lapalissiano ma non per tutti leggendo l’articolo di «Wired», è necessario dapprima deforestare e poi coltivare. Quindi organi di certificazione o meno, non potrà mai esserci olio di palma «eco-friendly» come alcuni vorrebbero farci credere, ma solo coltivazioni realizzate dove un tempo vivevamo milioni di specie e ora ne cresce solo una. Se questo è sostenibile…
La Pace, verso la fine del pezzo, insinua un ultimo, ulteriore, dubbio al lettore: «gli enti internazionali deputati al controllo, come la Fao, non si sono (a oggi) ancora espressi negativamente sulla questione». Chi l’avrebbe mai detto? Sarà forse perché la Fao ha tra i suoi finanziatori (e ha sempre supportato) multinazionali come Syngenta e Monsanto che sono i primi commercianti al mondo di olio di palma e Ogm?
Così «Wired» completa l’opera in bellezza parlando di «Una storia di diritti violati»: «Già, perché presuppone che se anziché di palme si trattasse di girasoli, barbabietole, caffè, tabacco o di qualsiasi altro prodotto, il trattamento sarebbe diverso, forse migliore. Come se il rispetto delle leggi e le politiche di non-sfruttamento dipendessero dal prodotto, anziché dalle persone che vi si nascondono dietro». Ovvero, «è indipendente dalla coltura la violazione dei diritti umani». Vero, ma non per questo è possibile accettarli. Da quanto mi risulta, la giornalista autrice di questo articolo a dir poco surrealista, potrebbe in vita sua non aver mai visto una foresta tropicale con i suoi occhi, potrebbe non esser mai stata in Indonesia, aver osservato la devastazione prima della coltivazione della palma, l’immensa foresta scomparsa, le migliaia di specie cancellate e le poche rimaste appese a spauracchi d’alberi che ondeggiano al vento. Potrebbe non aver mai visto contadini senza altra scelta spaccarsi la schiena per quattro soldi spruzzandosi addosso pesticidi che lei nemmeno vorrebbe guardare nello schermo del suo PC.
Perché se l’avesse fatto, se invece di scrivere da una comoda scrivania occidentale avesse visto tutto questo con i suoi occhi, neppure la più scientifica delle evidenze (nonostante lei non ne riporti alcuna valida) avrebbe potuto farle smettere di lottare affinché il consumo di olio di palma nel mondo non resti che un brutto incubo che l’umanità ha fatto prima di svegliarsi dal suo sonno della ragione.