In un nostro precedente articolo sull’olio di palma, prendendo spunto da un altro articolo, abbiamo voluto fare alcune puntualizzazioni dando un contributo ricco di riferimenti scientifici. Ci si poteva aspettare altrettanto, sull’onda di un serio confronto, ma così non è stato. Non solo vengono rimarcate alcune inesattezze che sono puntualizzate in questa replica, ma vengono introdotti elementi che un giornale potrebbe prendere come scoop quando si scrive che «biologico non vuol dire sostenibile». E non è stata data alcuna risposta sugli innegabili danni ambientali…
Non c’è niente di più antipatico, fra organi di informazione, fare accuse di disinformazione. Se poi gli organi in questione divulgano notizie ambientali, la cosa è veramente stucchevole. Il nostro articolo sull’olio di palma, prendendo spunto da un altro articolo, ha voluto fare alcune puntualizzazioni dando un contributo ricco di riferimenti scientifici. Ci si poteva aspettare altrettanto, sull’onda di un serio confronto, ma così non è stato. Non solo vengono rimarcate alcune inesattezze che sono puntualizzate nella replica del nostro collaboratore (che non è un giornalista scientifico ma un ricercatore), ma vengono introdotti elementi che un giornale potrebbe prendere come scoop quando si scrive che «biologico non vuol dire sostenibile», certo con questo assunto l’Expo andrebbe chiuso immediatamente e Petrini, Fukuoka e tanti altri andrebbero combattuti come nemici dell’ambiente. E stendiamo un velo pietoso sulla chiusa finale. (I.L.)
Qualche giorno fa la rivista italiana «Wired» pubblicava un articolo il cui dichiarato obiettivo era quello di dire «tutta la verità sull’olio di palma» da un punto di vista medico, sociale, etico e ambientale. L’articolo, però, era fallace in numerosi punti e privo di un qualunque riferimento scientifico che validasse l’assurda arringa difensiva a uno dei prodotti alimentari più pericolosi che la globalizzazione abbia mai immesso sul mercato.
Ho, pertanto, sentito la necessità di smentire le tesi infondate di «Wired» avanzate in difesa dell’olio tropicale, con un articolo di risposta argomentato, documentato e con riferimenti scientifici validi. Ho evidenziato, nel portale «Villaggio Globale», le idiosincrasie presenti all’interno dell’argomentazione proposta dalla rivista e chiesto all’autrice se ha mai avuto la possibilità di vedere con i suoi occhi ciò di cui parla e difende con tanta sicurezza, nonostante la catastrofe ambientale che tale produzione sta generando.
Per tutta (contro)risposta la giornalista scientifica di «Wired», Alice Pace, in un estremo tentativo di difesa ha tentato un’arrampicata «libera» sugli specchi pubblicando un breve pezzo di precisazioni in 5 punti definendo il mio articolo un «esempio di disinformazione».
Poiché ritengo sia un dovere morale degli scienziati far chiarezza su quella che è la vera disinformazione di alcuni «giornalisti scientifici» che, per aumentare l’audience, farebbero santo anche un serial killer (come l’olio di palma appunto!), controbatterò punto per punto alle nuove assurdità riportate:
1. La guerra al singolo ingrediente è insensata
La Pace scrive che «all’interno di un regime nutrizionale bilanciato, e quindi di generale contenimento di grassi saturi, c’è spazio anche per l’olio di palma». Precisa, però, a patto di esser «consapevoli che non possiamo mangiare questi cibi ogni giorno o, peggio, più volte al giorno, ma che dobbiamo stare molto attenti a mantenerne basso l’apporto».
La Pace, per non incorrere nello stesso errore del precedente articolo, privo di riferimenti alla letteratura di settore, cita una revisione di ricerche scientifiche effettuata da studiosi dell’università nigeriana di Port Harcourt e pubblicata sulla rivista «World Journal of Cardiology». È un peccato che la giornalista ci provi (e ce la metta tutta, stavolta anche rispettando la prassi dei riferimenti bibliografici), ma caschi ancora peggio. Cita, infatti, una review pubblicata su una rivista del gruppo di un «megaeditore» cinese di scientific journals, a dir poco «sospetta» e tra l’altro non attinente alle problematiche per la salute in questione (obesità e tumore).
L’editore «scientifico» cinese di tale rivista (Baishideng Publishing Group), di cui la Pace riporta la ricerca, è inserito nell’elenco dei Publisher di riviste scientifiche definite «fasulle, spazzatura, schifose e finte» realizzato da Jeffrey Beall in un famosissimo articolo-inchiesta pubblicato su «Nature» dal titolo «Gli editori predatori stanno corrompendo [la scienza] open-access».
Ma oltre all’inattendibilità della rivista sulla quale questo lavoro è stato pubblicato e all’incredibile coincidenza dell’affiliazione degli autori presso un’università che ha sede in una delle più importanti città della Nigeria come presenza di strutture per l’esportazione proprio dell’olio di palma e dei suoi derivati, pur non volendo dubitare delle strane casualità e credere nella bona fides dei ricercatori, ciò che appare evidente è il tentativo di «Wired» di spostare la discussione su argomenti (supportati da studi inaffidabili) che non hanno molta rilevanza in sé col problema dell’olio di palma. Se si analizzano gli studi in merito agli effetti sulla salute degli oli tropicali si troveranno lavori che dimostrano reazioni negative di organi o tessuti e altri che certificano l’esatto contrario.
Il problema del consumo di acidi grassi saturi (e l’olio di palma, nonostante sia più fluido che solido è l’olio che ne contiene in assoluto di più rispetto agli altri) sta nella diffusione di questo ingrediente nel cibo quotidiano e in particolare in quello dei bambini.
La Pace, però (ancora inconsapevole del double-fake della sua citazione scientifica precedente), con spavalda sicurezza ci conferma che non dobbiamo preoccuparcene, perché in Italia «la maggior fonte di grassi saturi sono i formaggi, i salumi e la carne in generale. Che contengono, diversamente dall’olio di palma, anche colesterolo, così come ne contiene il burro».
Pertanto, sembra suggerirci, non preoccupiamoci troppo dell’olio di palma, è solo una delle tante fonti di grassi nocivi. È vero, ma questo non dovrebbe rasserenare, anzi… se a formaggi, salumi e carne aggiungiamo alla dieta anche biscotti, merendine e, persino, fette biscottate che potrebbero esser prodotte con i più salutari e meno impattanti olii d’oliva o di girasole ma che, poiché al mercato mondiale conviene, apportano ulteriori grassi saturi con gli oli tropicali, rendiamo la problematica salute davvero seria. Certo, andrebbero ridotti tutti gli alimenti che contengono grassi saturi, ma per quelli in cui i grassi saturi possono essere sostituiti del tutto (con prodotti locali, coltivati in clima temperato e molto più sostenibili) perché si continua a volerli nascondere dietro il solito trucchetto del «tanto c’è anche altro che fa male»? E poi il burro… cara Pace, certo che contiene grassi saturi come l’olio di palma e anche colesterolo (che non è affatto da ritenere in toto una componente dannosa, poiché nelle giuste quantità è un elemento fondamentale per il metabolismo animale), ma non certo è il sostituto ideale di un olio (persino di quello di palma). Nessuno l’ha mai affermato! È che in una scala di qualità, sostenibilità e benessere viene prima, soprattutto se biologico, persino del suo tanto adorato distruttore di foreste. Se si stilasse una classifica dal migliore al peggiore (in base a una combinazione di salute e sostenibilità) avremmo: I posto) olio extravergine d’oliva; II posto) olio di semi (soprattutto girasole); III posto) burro biologico; IV posto) burro non biologico e strutto; V posto) olio di palma (margarina inclusa); V posto ex-equo) oli idrogenati.
Quindi su quale specchio si sta arrampicando ancora?
2. Non è cancerogeno (come invece le sigarette)
Nel secondo punto dell’arringa difensiva «Wired» dice: «Il fumo di sigaretta è ricco di sostanze cancerogene, come gli idrocarburi aromatici e le nitrosoamine. Nell’olio di palma, sostanze cancerogene non ce ne sono, perciò chi paragona il consumo di olio di palma al vizio di fumare, si sbaglia di grosso». Ma anche qui si toppa alla grande. Il problema della cancerogenicità di una sostanza deriva dalla quantità e non dal tipo. Sostanze xenobiotiche pericolose come il benzene, il radon o gli idrocarburi, ad esempio, sono presenti nella vita quotidiana di tutti noi, emessi a volte persino da sorgenti naturali. Ciò che non li rende cancerogeni è l’assimilazione naturale di bassa quantità. Con il «vizio del fumo», che non ha nulla di diverso dal «vizio di un’alimentazione ricca di grassi saturi come l’olio di palma» si assimila un quantitativo di tali sostanze tale da non permettere più all’organismo un normale metabolismo e quindi s’incrementa il rischio di mutagenesi cellulare e cancerogenesi. Tutto sta nel «quanto», non solo nel «quale». Il consumo eccessivo di qualunque sostanza o alimento, ad esempio, provoca disturbi metabolici che possono indurre lo sviluppo di tumori e altre patologie.
Il problema è proprio qui: stiamo rendendo la presenza di oli saturi (come quello di palma) un vizio negli alimenti dei nostri figli. E non possiamo permettercelo, perché il nostro organismo si è evoluto diversamente e i pochi dolciumi consumati in passato contenevano un quantitativo molto minore di grassi saturi e nettamente superiore di polinsaturi (come l’olio d’oliva). Riducendo o eliminando gli acidi grassi saturi dalla diete il problema dell’olio di palma non si pone affatto, poiché anch’esso viene scartato al pari degli altri…
3. Lo usiamo anche per evitare ingredienti più nocivi
«L’olio di palma ha un costo molto più basso rispetto al burro e ad altri tipi di olio ed è quindi conveniente per le aziende e i consumatori dal punto di vista economico». E questo è tutto! Le fesserie che seguono questa frase della Pace non stanno né in cielo e né in terra: «L’industria alimentare infatti ha trovato nell’olio di palma l’opportunità di smettere di usare le margarine». In realtà le margarine contengono ugualmente olio di palma e l’Organizzazione mondiale della sanità non ha mai consigliato di sostituirne il consumo, in quanto fonti di acidi grassi trans, con l’olio di palma. Semmai, il consiglio è di non utilizzare né margarine, né acidi grassi saturi come l’olio di palma («limit energy intake from total fats and shift fat consumption away from saturated fats to unsaturated fats and towards the elimination of trans-fatty acids» come si legge sul sito dell’OMS).
Non c’è mai stata nessuna organizzazione sanitaria mondiale, nessun ente e nessun comitato che abbiano mai consigliato o imposto per legge alle aziende la sostituzione della margarina con l’olio di palma per tutelare la salute dei consumatori. Chi lo afferma ignora le politiche sanitarie internazionali, il funzionamento del mercato libero e la macroeconomia.
Se l’olio di palma è attualmente tra gli ingredienti delle merendine nel supermercato e non vediamo più la margarina è solo perché all’economia globalizzata questa sostituzione conviene.
Per rendere il messaggio più chiaro a chi ancora finge di non capire: è solo una ragione di soldi!
4. Le accuse di «fare il filo» alle multinazionali non tengono
Al punto 4, poi, il sospetto di avere tra le mani un articolo di fantascienza è forte: «il boicottaggio in toto di questo prodotto – scrive Wired – è al tempo stesso un asservirsi alle multinazionali degli oli concorrenti, come quello di soia e di colza». Un’assurda follia! Cosa c’entra il boicottaggio di un prodotto dannosissimo per l’ambiente e potenzialmente dannoso per la salute con l’essere al servizio delle multinazionali perché così si favoriscono altre colture? Cosa c’entrano colza e soia quando i paesi d’importazione dell’olio di palma potrebbero tranquillamente utilizzare produzioni locali come l’olio di oliva o di girasole che non sono causa di deforestazione (almeno nel presente) e non riducono la biodiversità dell’ecosistema in cui vengono prodotti? Tra l’altro, se proprio si voglion mettere i puntini sulle «i», la soia e la colza possono essere coltivate in zone come l’Italia, in maniera biodinamica persino, senza necessità d’importazione dalle aree tropicali (riducendo inoltre le emissioni per il trasporto oltreoceano).
Il boicottaggio, invece, è l’unica arma che tutti noi abbiamo a disposizione per arrestare al più presto il disastro ecologico in corso in Indonesia (e presto in altre zone tropicali dove si sta tentando di esportare la coltivazione di palma da olio, come l’Africa). Boicottare e denunciare ciò che ruota intorno al mercato degli oli tropicali (anche i fake scientifici come quelli a cui si affida «Wired») è quanto di più efficace si possa fare!
5. Biologico non vuol dire sostenibile
Al punto 5, e ultimo, del suo elenco difensivo la Pace ci dà un esempio di tutto ciò che un giornalista scientifico non dovrebbe scrivere: «[…] sostituendo l’olio di palma con altri grassi (burro o altri oli vegetali) e consumando esclusivamente prodotti da agricoltura biologica risolveremmo il problema dal punto di vista ambientale. Si tratta di un assunto del tutto privo di riscontro, che parte dal presupposto che biologico significhi automaticamente sostenibile».
«E allora qui m’incazzo», cantava Giorgio Gaber. Ma come può scrivere una simile baggianata? Il biologico significa sostenibile è «un assunto del tutto privo di riscontro»? Ma, cara Alice Pace, lei rilegge ciò che scrive? In questo modo discredita gli sforzi di milioni di agricoltori, non solo in Italia ma nel mondo, che ogni giorno cercano di rendere ciò che mangiamo più sano, meno nocivo per l’aria, l’acqua, la terra e le altre specie e persino più buono.
Forse la Pace sarà tra quelli che dicono il biologico non è migliore del tradizionale perché non contiene più nutrienti, vitamine e minerali, ma non ammettono colpevolmente che gli alimenti bio, al contrario di quelli coltivati in monocoltura con pesticidi e fertilizzanti chimici, non contengono nessuna sostanza di sintesi in grado di bioaccumularsi nell’organismo e provocare malattie, come avviene invece se si consumano per lungo tempo i cibi non biologici (e non serve nemmeno riportare studi scientifici perché banalmente: se non usi pesticidi sulle tue pesche non ritrovi pesticidi nelle tue pesche, anche se le vitamine non aumentano).
O forse la giornalista sarà tra quelli che pensano che… ah no, lo è sicuramente: «Non possiamo neanche dare per scontato che il consumatore di prodotti bio sia per definizione un cittadino più consapevole, più attento all’impatto ambientale del proprio stile di vita, meno consumista». Ah no? E perché sceglie questa categoria di prodotti, perché le confezioni sono più colorate? Perché sceglie di spendere un po’ di più per comprare meno, ma mangiare meglio? Non lo sa, per questo alla fine dice: «Quel che è certo è che non tutti possono permettersi di comprare del buon cibo biologico e che questo approccio (oltre che discutibile dal punto di vista scientifico) rischia di essere anche classista». Classista? Cioè, la Pace vorrebbe insinuare nel lettore l’idea che un cittadino più consapevole o è ricco abbastanza da permettersi il biologico e denigrare il resto della popolazione che non può permetterselo oppure, se è meno abbiente, sceglie di investire meglio i suoi pochi soldi, comprare comunque del cibo che non lo faccia ammalare, ma non né è del tutto consapevole? Ovvero al mondo esistono due categorie di persone: i ricchi classisti o i poveri inconsapevoli? Sa Pace, ormai molti prodotti biologici costano quanto quelli tradizionali, magari coltivati da aziende a pochi chilometri da casa e l’associazione tra cibo biologico e costi maggiori non è più la regola.
Così come affermare che se si producesse più biologico si avrebbe necessità di maggiori superfici, ignorando che chi mangia meglio mangia e spreca anche meno, così si vorrebbe far credere che se il nostro cibo, i nostri cosmetici e persino i nostri shampoo non fossero intrisi di olio di palma l’alternativa sarebbe peggiore di ciò che stiamo combattendo.
Dispiace dover leggere una miriade di infondate e dannose (per il lettore, la causa e l’ambiente) informazioni, per capire che in fondo questi cinque punti sono un ennesimo tentativo di celare il lato più oscuro del problema: migliaia di specie, di ettari di foresta, di piante e animali, di fiumi e colline che scompaiono ogni giorno lasciando immense monocolture di palme.
Ma in merito a questo «Wired» e la Pace si guardano bene dall’argomentare. Come mai tra questi 5 punti non c’è risposta alle questioni da me sollevate riguardanti l’inutilità del RSPO, le multinazionali che si controllano da sé, la catastrofica distruzione delle foreste tropicali indonesiane e la riduzione della biodiversità?
Perché qui né un articolo scientifico pubblicato da un fake editor, né un opinione mai espressa di un’agenzia intergovernativa potrebbero assolvere l’orribile crimine che stiamo commettendo per assecondare la nostra bulimica devastazione della Natura. Un crimine che continuiamo a perpetrare raggirati anche da quella pseudo-divulgazione scientifica e pseudo-informazione che in nome della «verità» e delle «cose che dobbiamo sapere» accusa di disinformazione ciò che non è in grado di difendere.
Così come le multinazionali accusano di falsità i principi di coloro che invitano a boicottarle…