Alla radice del dissidio

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Molti casi della storia ci propongono variazioni in cui il contrasto tra il processo positivo e quello degenerativo è meno drastico tanto da sfuggire all’attenzione. Sono casi in cui la modifica del giudizio si è determinata in tempi lunghi; i modelli rifiutati, attraverso l’uso e i costumi trasformati, si sono imposti confermandosi come stati genuini.

Questo fenomeno si è verificato più volte nella storia della Chiesa cattolica, nei casi di passaggio dalla condanna alla riabilitazione di un pensiero o di un’esperienza. Nel lungo periodo il fenomeno è stato rivisitato e a suo favore ha giuocato un ruolo determinante la critica anche aspra sia interna sia esterna all’esperienza religiosa: vedi i casi di Giovanna d’Arco, Savonarola, Galileo, Giordano Bruno, Lutero, come dei preti-operai. Nonostante alcune condanne abbiano procurato scissioni con gravi conseguenze sociali, politiche e religiose, la rivalutazione ha capovolto il giudizio. In questo filone si è inserita la richiesta papale di perdono per le implicazioni della Chiesa nella triste «tratta dei neri».
Questi episodi ci dimostrano la stretta connessione tra politica e degenerazione. Alla luce dei cambiamenti gli atti di condanna sono da ascrivere più alle variabili della cultura e dell’interpretazione, alle convenienze, alla concezione del potere, al mantenimento della supremazia oppure all’ortodossia relativa al dogma? Si tratta di arte del governo, di per se stessa incline al relativo, al mutamento, alla degenerazione o alla modifica degli stessi principi religiosi?
Il cambiamento, che nella ricerca e nelle scienze è la variabile strutturale sia dell’evoluzione dei fenomeni sottoposti ad analisi sia del progresso della scienza, in politica è la legge di proporzione tra i bisogni emergenti e il futuro programmabile. Quando le religioni avocano a se stesse il giudizio di valore sul governo civile allora il problema diventa complesso, soprattutto perché è provocato dalla relatività della politica che può essere in contrasto con l’interpretazione assoluta dell’ortodossia.
Nella struttura istituzionalizzata di tipo politico-religioso la degenerazione si annida tra i gangli degli scambi e delle relazioni tra due situazioni forti: l’una del potere globale sulle relazioni e gli scambi, l’altra del criterio di giudizio sull’etica dei comportamenti. Quando queste due situazioni appartengono ad entità diverse queste mirano, generalmente, a dichiararsi indipendenti e sovrane rispetto alle due sfere di influenza ma nella prassi i cittadini risultano obbligati a portare in sintesi i due aspetti. Nel vivere civile hanno potere di indagine e di governo gli organismi di controllo e di bilanciamento: poteri politico e religioso intervengono nelle dinamiche con l’interpretazione ed è questa che giudica, suggerisce o impone atti, gesti, delibere che appartengono più al relativo che non all’ortodossia stabile. La Chiesa cattolica quando muta giudizio di solito non tocca il dogma ma gli elementi di interpretazione che hanno provocato il dissidio, soprattutto per i casi che non si riferiscono ad eresie esplicite o scissioni dogmatiche dichiarate.
Invece negli stati a struttura islamica integralista il fondamentalismo giunge ad imporre comportamenti rigorosamente dettati dall’interpretazione coranica che, a dire degli islamici moderati, non sempre è fedele al dettato autentico del testo sacro.
Machiavelli è stato l’interprete della conservazione del potere per il quale «la golpe e il lione» (forza ed astuzia) sono garanti fedeli irrinunciabili. Niente di più relativo della politica, come si può constatare storicamente attraverso le fasi illuministica, romantica, positivistica ed utilitaristica. Il potere è stato concepito come assunto assoluto dello Spirito o come frutto del contratto sociale o altro.
La soluzione contro la degenerazione in politica sembra risiedere nella democrazia. Eppure, le circostanze e le sue variabili ci convincono che questa, allo stato «puro», non esiste. Non solo. Se la democrazia ha valenza in campo sociologico, nelle chiese conta meno dell’interpretazione dell’ortodossia che non è mai lasciata alla valutazione dei singoli perché il governo della comunità è teocratico ed assoluto.
L’etimologia ci consegna il termine «democrazia» come ideale e massimo rispetto delle persone, delle loro opinioni e delle loro libertà. Ma nella prassi la democrazia non esiste allo stato puro ma come «aggettivo attribuito»: partito democratico, repubblica democratica, stato democratico, gestione democratica, costituzione democratica, magistratura democratica, istituto democratico, elezioni democratiche, scelta democratica, scuola democratica, coscienza democratica, partecipazione democratica, vita democratica, visione, piattaforma, educazione democratiche, ecc.
L’attribuzione aggettivale invece è più coerente quando si riferisce all’entità stessa della democrazia: democrazia cristiana, democrazia socialista, democrazia liberale, democrazia proletaria, ecc. Tuttavia nel momento stesso in cui la si qualifica aggettivandola le viene negata la valenza universale ed assoluta, senza la quale la democrazia si riduce ad un modello limitato dalle sue stesse sovrastrutture che mortificano la prassi. Presa come discriminante politica la democrazia non è democrazia! distinguendoti, già diventi alternativo e quindi emargini: è il problema delle minoranze e del voto a maggioranza, sancito a garanzia della democrazia! Un governo non è democratico solo perché si autodefinisce tale, ma quando governa nell’interesse del popolo tutto. E questo avviene solo se i governanti realizzano la giustizia generale e particolare, la libertà sociale ed individuale, la pace concreta ed universale, la valorizzazione «alla pari» delle minoranze; solo in questo caso l’assunto secondo cui in democrazia vale la maggioranza ci salva dalla dittatura e dal fascismo che emarginano le minoranze rendendole subalterne o cancellandole in modo violento.
Non abbiamo forse registrato, nel secolo scorso, che l’instaurazione del nazifascismo si è realizzata per via democratica?