Dal potere iniziale di piccoli e grandi gruppi con forti interessi, oggi siamo passati agli interessi globali di un mondo economico-finanziario unificato, assoluto e sempre più incapace di creare relazioni, con le comunità umane, che vadano oltre le analisi di mercato. Una realtà invasiva che ha indotto una mutazione culturale e che ha deformato il concetto di bisogno. Oggi i bisogni sono inventati e imposti da vetrine, pubblicità, o sono l’effetto di un plagio da parte di personaggi, testimoni o simboli di qualche moda, o sono l’effetto di un adeguamento passivo a comportamenti e modi di pensare suggeriti dagli opinion maker. Tutta una realtà che ha costruito sottomissioni, tiranniche e senza alternative, ai consumi.
Quasi senza accorgercene e senza valutare l’impatto delle trasformazioni, ancora in atto, siamo ormai tutti passati, nel giro di mezzo secolo, da un impegno a risparmiare e non sprecare beni e servizi (per garantire condizioni di sopravvivenza anche per il futuro), a un comportamento da consumatore incontenibile e insieme incolpevole. Sono stati imposti riferimenti che fanno leva sulla nostra debolezza (qui interpretata come ostacolo da superare per procurarsi il massimo successo individuale) per adattarci alle offerte di consumo e per inibire quella qualità umana che portano a riflettere prima di decidere.
Oggi siamo tutti consegnati ad un potere che da esigere risorse e tributi per sostenere il suo dominio, nel tempo è passato a imporre anche totali dipendenze culturali, politiche, sociali, tanto che non c’è più nulla, ormai, che si muova in modo autonomo. Il nostro contesto umano dispone, ormai, solo di «non spazi», luoghi di emarginazione del pensare, di scomparsa finale della consapevolezza dell’esistere, del nulla che ci siamo abituati a proporre criticamente alla nostra attenzione fisica e mentale. Un nulla che non ha un senso delle cose da proporre al nostro vissuto e ai nostri bisogni reali e che induce, invece, ad adeguarsi agli effetti di quelle luci selettive e di quelle mode che mettono in mostra i mondi parziali del virtuale (che impongono spersonalizzanti meccanismi di coinvolgimento, per godere di una gratificante permanenza in un mondo di effetti speciali e di magiche simulazioni di una non realtà).
In questa prospettiva il nucleare viene proposto come icona di un modello di civiltà nella quale la vita non è un sistema di equilibri vitali, di creazione di sinergie, di rigenerazione e gestione razionale di risorse rinnovabili, ma è espressione di presunte virtuose capacità dell’uomo di piegare, alla propria volontà, tutte le risorse, quasi a dimostrazione di una sua potenza, senza confini di tempo e di luoghi. Ma la nostra Terra è ben confinata e autonoma e, dunque, non potrà collaborare (tantomeno essere sottomessa) ai folli progetti di consumo terminale di ogni cosa, compresi noi stessi e non solo le future generazioni.
Sono moltissimi quelli che hanno letto e ascoltato tutto ciò che era possibile sul nucleare, alcuni lo hanno provato anche sulla propria pelle. Abbiamo messo a confronto tutto l’immaginabile e disponiamo, anche, nei limiti dei dati accessibili, di significativi segni di contraddizione sui costi e benefici della trasformazione dell’Uranio (da minerale naturale a fonte di calore finale) per la produzione di vapore a pressione utilizzato per la produzione di elettricità. Non sembra però che questa massa di informazioni e di valutazioni, pur se ben comprensibile e non strettamente tecnica, abbia prodotto, nella società, diffuse consapevolezze operative e proposte alternative.
[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Informazione e disinformazione, in L’energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].
Non si può non prendere atto, allora, che le nostre attese più diffuse sono subdolamente condizionate da un contesto sociale e politico-culturale sottomesso a una acritica visione della realtà e orientato da forti riferimenti a un’etica individuale che porta a puntare l’attenzione solo sui problemi dei propri immediati interessi e intorni di vita. Le attese personali o di gruppi con interessi comuni, si sostanzierebbero, così, in un diffuso impegno a badare alle proprie cose e lasciare che gli altri facciano altrettanto evitando così interferenze e conflitti.
Un’impostazione del vivere funzionale e incentivata dall’interesse di pochi e del potere da loro esercitato, a far girare l’attuale economia dei consumi e a realizzare, con il maggior profitto, tutto ciò che trova mercato e che attraverso esso trova legittimità addirittura come espressione di un bene assoluto (come vorrebbe far intendere quella mistificante vulgata secondo la quale la «ricchezza di pochi» offrirebbe addirittura «benessere» per tutti).
È proprio su questo aspetto, allora, che conviene soffermarci per analizzare e riflettere sul perché dopo tanta informazione convincente, non ci sia una diffusa consapevolezza che possa portare a fare scelte responsabili. Sarebbe necessario, cioè, riflettere sul perché si preferisca vivere quasi aspettando fatalisticamente che le cose seguano un loro corso, orientate dagli interessi di uno o di un altro potere dell’uomo sull’uomo. Sarebbe necessario riflettere su come possiamo arrivare ad accettare tutti quei dati di fatto, che vengono imposti senza partecipazione personale, solo perché ci lasciamo convincere che un’eventuale contrapposizione finirebbe in una nostra causa persa e che, anzi, conviene non muoversi in nessuna direzione per poter approfittare delle opportunità, anche dell’ultimo momento, di salire sul glorioso carro del potere del vincitore. Una posizione conveniente che permette vantaggi senza dover assumere responsabilità e il peso di una sconfitta.
È, questo, un meccanismo conveniente anche per il potere perché permette di operare su presunzioni di consenso e di superare il momento delle scelte democratiche fingendo di averle rispettate.
Il problema delle scelte energetiche, in queste condizioni, non gode di momenti di riflessione, di scelte confrontate e poi condivise su quale modello di sviluppo, su quale, su quanta e su come produrre energia, ma risponde al solo proposito, di alcuni, di cavalcare il senso comune espresso dalla convinzione che quella scelta decisa unilateralmente è nelle condizioni (in un modo o in un altro e senza troppi scrupoli) di trasformarsi in un successo. Queste, sono condizioni che, per esempio, al di là di ogni riflessione ricevono sostegno assoluto da quel senso comune che prende acriticamente atto che senza energia non si va da nessuna parte (ma è anche vero che mettere la scelta su come produrre energia in prima posizione, denuncia un modo di operare che si muove solo in termini di infrastrutture per l’energia e senza commisurarla alle richieste di utilizzatori che diano garanzie, sul luogo di consumo, sulla quantità e sull’uso che se ne farà: in buona sostanza, in queste condizioni, è come mettere il carro davanti ai buoi).
Sono condizioni che possono anche portare a minimizzare l’essenzialità primaria della valutazione delle alternative che potremmo desiderare scegliere in piena libertà (condizioni che permettono all’uomo di esprimersi in modo anche culturalmente vitale, sulla base delle proprie esperienze e riflessioni, e non di subire, invece, minacce e danni che possono minare riflessioni libere, confronti e scelte democratiche, se non anche la propria sopravvivenza fisica). In alcune nazioni (e questo dovrebbe far scuola soprattutto in un paese, come il nostro, che sembra vivere alla giornata), prima di costruire qualsiasi infrastruttura, sono invitati i possibili utilizzatori a dare la loro adesione, con un contratto registrato, anche in termini quantitativi per dimensionare l’infrastruttura. Un modo ragionato ed esemplare per non sprecare risorse e non distruggere l’ambiente con cattedrali nel deserto.
In questa prospettiva, allora, i riferimenti più puntuali sul nucleare (riportati in articoli dei precedenti numeri di questa rivista e qui già più volte richiamati) non sono solo un’informazione tecnica specifica sulla sicurezza e sugli impatti degli impianti nucleare (pur incompleta per i pochi dati significativi disponibili), ma sono anche una denuncia di quanto sia economicamente dubbia e rischiosa la scelta nucleare e di quanto sia necessario trasformare la politica delle comunicazioni e delle occultazioni ufficiali, in una partecipazione informata e critica che punti ad atti deliberativi democratici: non possiamo rischiare di rimanere ingabbiati nel centralismo assoluto di un sistema economico finanziario e anche sottomessi da un’ideologia liberista che pretende un proprio inesistente primato medievale sul mondo.
Di centralismi, anche democratici, ne abbiamo visti molti nel secolo passato e, alla luce della violenza della quale sono stati protagonisti, il vederli risorgere e sottomettere oggi l’autonomia e le responsabilità individuali e di intere comunità umane propone uno scenario di vita minaccioso e inaccettabile.
Una situazione, questa che non può non richiedere un nostro impegno in una riflessione libera e diffusa, sullo stato delle cose dei nostri giorni, per immaginare alternative per un pacifico progresso umano fatto di fertili relazioni fra le diversità del nostro mondo e non di infantili competizioni liberiste sulla capacità, senza senso e irresponsabile, di distruzione delle risorse naturali.
Le valutazioni sulle nostre prospettive di vita non possono essere solo quelle tecniche e tecnologiche, dei loro impatti sui contesti vitali del nostro mondo e dei loro protocolli empirici di sicurezza (spesso addomesticati dalla sola improbabilità degli eventi e non dal peso delle loro conseguenze).
Siamo di fronte a valutazioni assolute imposte dalla tecno-economia, mentre vengono del tutto rimosse, nella loro sostanza, le valutazioni che riguardano il vissuto umano, che sono considerate, oggi, nei centri decisionali addirittura come valutazioni eterodosse. C’è chi arriva, infatti, perfino a scandalizzarsi quando tali valutazioni, ritenute eretiche, provengono da esperti che operano nel campo delle scienze e della tecnologia. Non sono pochi, infatti, quelli per i quali non è comprensibile una «interferenza» che metta in discussione le proprie competenze professionali con richiami a valutazioni sociali e politiche (sulle libertà di scelta, sulle risorse da destinare ai bisogni), alle relazioni umane, alle sinergie con gli equilibri naturali.
Non è raro che nelle manifestazioni pubbliche a sostegno diretto o indiretto del nucleare molti interventi vengano addirittura interrotti con perentori inviti a rendersi conto che sulle problematiche energetiche possono essere invocate solo argomentazioni «scientifiche» e che «l’uomo non c’entra» (come, in modo analogo, ebbe modo di dire, esplicitamente in una conferenza pubblica, anche un noto economista a proposito delle poco chiare attività speculative del mondo finanziario: «sono questioni che riguardano i soldi e non gli uomini!»).
Se, poi, queste questioni di fatto finiscono con il danneggiare l’uomo, il suo lavoro, la qualità della sua vita, questo viene considerato come se fosse un altro tipo di problema. Forse anche nel piccolo delle nostre esperienze, molti potrebbero ricordare episodi nei quali esperti di materie scientifiche possono aver tentato di far valere, impropriamente, il determinismo nel merito di questioni che non hanno nessuna caratteristica in comune con i fenomeni deterministici. Sono invocate, così, verità scientifiche per porre fine a valutazioni che sono invece di pertinenza delle nostre complesse esperienze di vita. In realtà anche le verità scientifiche non abbattono gli ostacoli alle loro verifiche con la forza indiscutibile di potenti mezzi tecnologici, ma si interrogano sul valore della diversità che sa trovare risorse adeguate per affrontare quegli equilibri vitali che usano l’energia per creativi atti virtuosi, per respiri vitali e non per incendi distruttivi. Energia non per reggere immagini di verità immobili, ma per costruire buone relazioni fra persone e creare sinergie, per dare senso alle cose con i fertili valori aggiunti del nostro divenire consapevole e responsabile.
[vedi anche: L’energia vitale che costruisce, in L’Energia perduta, «Villaggio Globale» anno VIII – N. 31 settembre 2005].
– Le tecniche, le tecnologie e le riflessioni che non possono mancare