A fronte di questa situazione che già espone la popolazione, l’ambiente e l’economia di un ampio territorio, agli inaccettabili rischi e conseguenze generati da sostanze radioattive, tossiche e nocive o letali per la salute degli esseri viventi e per la qualità della loro vita, c’è da prendere in considerazione anche un problema di altra natura e di dimensioni ben più ampie.
Siamo abituati ad associare la risoluzione di un problema a un intervento tecnico: di fronte a ogni problema, siamo portati a immaginare che siano necessarie competenze specifiche per individuarne la natura e provvedere automaticamente, poi e in modo efficace, alla sua soluzione. Ci sfugge, così, il valore politico delle scelte che sono a monte dei problemi. Siamo, cioè, indotti a dare per scontata una separazione fra tecnica e politica o, peggio, a ritenere che un intervento tecnico sia neutrale o addirittura automaticamente in sintonia con le scelte politiche che riteniamo di aver deciso democraticamente. Fino a qualche decennio fa, la tecnica e i suoi apparati tecnologici, erano presentati (e noi ne eravamo convinti) come ancelle di quello sviluppo economico necessario ed essenziale per dare sostanza al progresso umano. Purtroppo, dopo gli accordi, di fatto segreti, presi dalle consorterie economico-finanziarie a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad arrivare ad oggi e ancora oltre, le scelte non le propone la politica (cioè non le scegliamo noi, neanche indirettamente attraverso i nostri rappresentanti in parlamento), ma le impone un gruppo di interessi sovranazionale che ha fatto dell’ideologia liberista la chiave per riorganizzare il mondo.
Un modello semplice nel quale viene prodotta ricchezza a spese di un aumento di entropia senza limiti: vengono prodotti e messi sul mercato beni e servizi dissipando l’energia contenuta nelle risorse materiali utilizzate (un’energia non rinnovabile che va, quindi, verso l’esaurimento) e l’energia rinnovabile che con gli attuali livelli di consumo può offrire solo contributi parziali e che con la distruzione progressiva degli equilibri ambientali sarà sempre meno disponibile. Siamo in presenza di un’economia finanziarizzata che sul senso comune di un vivere a lei funzionale (nascere, avere successo con l’obiettivo di morire gloriosamente fra ricchezze e poteri) ha costruito il nostro ideale di società esclusiva e virtuale ridotta ad un gioco di produttori, di consumatori e di quei valutatori finanziari che promuovono o puniscono gli attori di questo sistema.
Siamo in presenza di un mondo finanziario che, in questo banale gioco, si sente investito del compito (che nessuno ha deciso) di giudicare l’efficienza del mondo (in realtà è un mondo che fa solo lauti e ingiustificabili profitti, emettendo dubbie sentenze e inappellabili condanne o approvazioni). Un sistema, quello finanziario, che non produce beni, ma impone all’economia reale, con minacce e ricatti inflessibili, servizi distruttivi e sempre efficaci, però, per i propri profitti. Infatti, piuttosto che finanziare le attività economiche (gestire il relativo rischio, come il suo compito istituzionale richiederebbe), saccheggia, con atti di pirateria speculativa, il valore dei beni e dei servizi frutto del lavoro umano. Un valore che teoricamente dovrebbe essere giudicato, pur con tanti limiti, dal mercato e non da questi predatori.
Il sistema finanziario globale, infatti, in nome del proprio profitto, bada solo a incentivare la massimizzazione di un devastante sistema di «libere» risorse da immolare a una crescita senza limiti dei consumi e dei relativi servizi e preordinare, così, quella devastante disgregazione, sociale ed economica, necessaria per creare più efficaci e deviate opportunità speculative. Una crescita che, invece, se fosse orientata da nostre consapevoli riflessioni, potrebbe promuovere fenomeni vitali e non consumi terminali delle risorse. Una crescita che potrebbe essere, cioè, in sintonia con la vitalità dell’ambiente e con gli equilibri naturali che ci accolgono e della cui fertile evoluzione facciamo parte.
Il nostro problema, allora, non è l’energia (che come sistema produttivo, da solo, non è in grado di fare scelte politiche che rispondano alle attese di progresso affidate a responsabilità umane) e tanto più non è quella nucleare, ma è, innanzitutto, la necessità di riacquistare quelle qualità politiche che permettono riflessioni, confronti e decisioni sul senso del nostro esistere. Tutto il resto, anche se oggi agita gli interessi e le preoccupazioni dei pochi favoriti e dei molti, plagiati dai sogni liberisti, è solo un insieme inerte di strumenti e strutture le cui potenzialità operative ed esecutive, pur se diffuse in tutte le società più avanzate, non hanno titoli, però, per decidere sul ruolo, la funzione e la sorte dell’umanità.
Non possiamo non prendere atto che, soprattutto in questi ultimi decenni, l’esercizio delle nostre qualità politiche è stato silenziosamente disattivato (mentre ci facevano distrarre con le giostre sempre più veloci dei consumi) e che le scelte venivano, invece, affidate a ciò che la tecnologia offriva in quel momento o che, addirittura, imponeva, a costi sociali e ambientali crescenti e con responsabilità improprie, tutte a nostro carico.
– La trasformazione dell’uranio negli impianti nucleari i rischi e gli impatti sui territori