Sono passati ormai 60 anni, ma all’opinione pubblica si continuano a fornire schemi degli impianti nucleari che, pur se a volte diversi nella grafica, appaiono composti sempre dagli stessi elementi: dal reattore, dagli scambiatori di calore, dal generatore di vapore, dalle turbine, dai generatori di elettricità e dal «combustibile» nucleare. Si parla di «combustibile» per far intendere qualcosa di già noto e rassicurante, ma è solo una sottile mistificazione della realtà: non si tratta, infatti, di un combustibile che reagisce con un comburente e di una reazione nella quale la sottrazione di uno dei due, interrompe la reazione, ma di atomi instabili, mantenuti in un equilibrio precario di fissione atomica, che procedono senza controlli nella loro trasformazione. Questo dovrebbe essere, dunque, il nucleare sicuro che alcuni vorrebbero convincerci ad accettare.
Tutto questo può essere definito un caso di evidente non informazione, se non anche di cattiva informazione, sulle questioni della sicurezza degli impianti. Infatti, mentre le dichiarazioni, che accompagnano questi immutati schemi, annunciano che siamo già al nucleare civile «provato» di terza generazione, queste affermazioni non sono sostanziate da esaurienti presentazioni dei problemi e della validità delle soluzioni adottate. Una situazione, questa, che denuncia anche uno stato di diffusa e preoccupante passività dei cittadini, in buona parte però indotta, su questioni, come quelle del nucleare civile, che possono essere ad elevatissimo impatto ambientale e che possono decidere la sorte di vasti territori e delle intere comunità che li abitano.
Per esempio, pur considerando le attenuanti per le particolari cause che hanno determinato l’incidente di Chernobyl, possiamo ben immaginare quali conseguenze vi sarebbero state se il territorio non fosse stato sostanzialmente privo di insediamenti civili e produttivi! Conosciamo, invece (pur se in modo incompleto) quanto l’incidente di Fukushima abbia pesato e continuerà a pesare per i danni alle cose e alle persone. Si tratta di un danno economico valutato fra i 75 e 260 Mld di $ che salgono a 500 Mld $ se si comprendono le opere di smantellamento della centrale e di bonifica del territorio, senza le quali le compensazioni economiche, offerte per il rientro degli 85.000 cittadini (ufficialmente sfollati, ma in realtà se ne contano 150.000), sarebbero il prezzo inaccettabile dell’esposizione della popolazione ad un elevato rischio per la loro vita.
[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il vero e il falso sul nucleare, 2) l’equivoco del termine «combustibile», in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].
Per ora, però, vi sono solo insufficienti investimenti disponibili per un tale intervento e appaiono del tutto insufficienti anche le misure attuali di contenimento degli impatti già prodotti.
L’accesso a dati diretti sulla conduzione e sullo stato di un impianto nucleare non è consentito (vi sono solo informazioni preordinate sulle reali condizioni degli impianti, mancano anche quelle in occasione di incidenti che pur hanno avuto una significativa rilevanza ambientale) non solo per l’inesistenza, alla fonte, di dati tecnico-scientifici sui processi di trasmutazione, ma anche perché molti dati sono occultati dalla segretezza, imposta per misure di sicurezza in difesa degli impianti (e per evitare allarmi ritenuti inutili). Questo dovrebbe preoccuparci e dovremmo quindi cercare rimedi a queste scelte che il mondo finanziario (implicitamente, ma con la determinazione del suo potere) impone a una politica, anche dei paesi democratici, che definire sprovveduta, per i palesi ed enormi interessi in gioco, sarebbe solo un’insopportabile menzogna.
Cosa caratterizzi l’evoluzione degli impianti nucleari, è lasciato solo intendere. In realtà si tratta di miglioramenti (a volte anche non condivisi, nella valutazione della loro efficacia, da molti esperti dello stesso settore e che, comunque, non sono la soluzioni dei problemi) relativi al software (per il controllo delle temperature, della movimentazione delle barre di Uranio e della gestione dei sistemi di rallentamento dei neutroni) e alle qualità e caratteristiche specifiche dei materiali usati per la costruzione dei reattori (per i quali sorge il dubbio che vi siano significativi riscontri sugli effettivi vantaggi procurati, forse anche non rilevabili per la complessità dei fenomeni da controllare).
Per il miglioramento di qualsiasi cosa non basta, però, controllare il controllabile e aggiungere nuova tecnologia che, applicata per fare ciò che può fare, diventa anche possibile causa di pericolose deviazioni dai problemi reali (la cui complessità, non essendo compiutamente affrontabile, porta a trascurare parametri considerati non rilevanti rispetto ai pochi che siamo in grado di controllare per riceverne indicazioni comprensibili). Nel migliore dei casi, ogni intervento, a favore della sicurezza, finisce con l’essere solo un’implementazione di software e hardware, con il sospetto che sia solo inutile e costoso (forse, però, è anche un modo per approfittare e fare ottimi business). La tecnologia non è la panacea per problemi irrisolvibili, quello che serve, in questo caso, sono invece impianti sicuri e non scommesse sulla sicurezza degli impianti.
Gli approcci teorici e l’innovazione tecnologica può, forse, entusiasmare qualcuno, ma tutti gli altri, di fronte a situazioni di questo tipo, sicuramente vorrebbero accedere, oltreché a reali vantaggi economici senza inutili rischi, anche alle verifiche sugli impatti effettivi (e non solo sentirseli raccontare): non può essere considerato non essenziale il poter disporre di un quadro definito di dati diretti e disponibili in tempo reale del rischio in presenza di un impianto nucleare. È una necessità di sicurezza, che coinvolge la vita fisica e psicologica degli individui, il poter essere esaustivamente informati da comunicazioni complete, corrette e affidabili sullo stato degli impianti oltreché sulle ragioni delle scelte e su quali precauzioni, per la sicurezza della popolazione civile, sono adottate, a regime e nei casi di emergenza, e di quali obiettivi, risorse e fattibilità dispongono i piani di sicurezza, fermo restando che la «opzione zero» sulla costruzione e gestione degli impianti non è «opzionale», ma una precisa e dovuta risposta a impatti che possono alterare del tutto l’uso sociale ed economico di un territorio.
[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il costo dell’energia e il costo dei rischi, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].
Occasioni di trasparenza e accesso in tempo reale ai dati, trovano riscontri solo in situazione di conduzione degli impianti preordinate a tal fine. Al di fuori di queste situazioni e adempiute ogni formalità, la pratica della conduzione (se non anche la progettazione) sembra godere di ampie occasioni per il fai da te. A volte siamo stati informati su alcuni incidenti, ma solo perché non è stato possibile occultarli (per esempio, su valvole aperte per errore, ma che di fatto, hanno permesso «provvidenziali» sversamenti di liquidi, contenenti materiali radioattivi, in corsi d’acqua e in mare, poi, subito dichiarati inquinati e messi sotto controllo, pur se non si sa con quale efficacia). Ancora, siamo stati informati sull’immissione di elementi radioattivi attraverso camini che, invece, si assicura garantiscano una loro miracolosa dispersione (fra questi c’è anche il Cesio137, perfettamente assimilabile dai tessuti animali in sostituzione del Potassio e che in quantità dell’ordine dei µg/kg peso corporeo è letale per gli esseri viventi, uomo compreso). Vi sono anche incidenti, non rilevabili all’esterno dell’impianto, e riparazioni, per particolari condizioni di pericolo dei vari sistemi, non denunciati (naturalmente per non creare allarmismi), vi sono progettazioni sempre più avanzate, ma che non fanno miracoli, e scorie che sostano un po’ qui, un po’ là e che sono a disposizione di preoccupanti utilizzatori.
È emblematico, per avere la misura della qualità dell’informazione fornita sui rischi del nucleare, quanto detto in una trasmissione radiofonica da un esperto del settore: «La presenza di Cesio137 radioattivo a Fukushima è un terzo dello stesso Cesio presente a Roma». Possiamo anche crederci, ma forse questa informazione è incompleta ed è falsa nella sostanza. Infatti il Cesio137 a Roma è presente nella roccia tufacea, a Fukushima è, invece, nell’aria ed entra in particolare, non solo direttamente nei tessuti degli animali, uomo compreso, ma anche nelle catene alimentari (qualsiasi isotopo del Cesio sostituisce il Potassio presente nei vegetali e quindi accede, anche, ai tessuti degli animali, attraverso il loro cibo).
Le scorie non si possono mettere sotto il tappeto, ma c’è qualcuno, con notevoli competenze in materia, che (si spera per scherzo, ma in un una qualificata tavola rotonda) ha anche minimizzato il problema scorie assicurando che «se tutte quelle del nostro paese fossero distribuite a tutti i cittadini, ciascuno di essi ne avrebbe, solo, una quantità molto più piccola di una aspirina».
Cose come queste possiamo interpretarle come miserie umane, nelle quali la scienza non c’entra in alcun modo, ma nelle quali l’ignoranza, a tutti i livelli esercitata, fa da padrona.
Le scorie, come in una nemesi, con i loro irrisolvibili e drammatici problemi, sembrano essere, invece, la fatale punizione per chi, senza una riflessione umana e, invece, con una sedicente neutrale interpretazione scientifica, ha sfidato la logica, la corretta comunicazione, le pratiche democratiche, tutto per prendere decisioni di parte come fossero state oggetto di corrette e, addirittura, condivise informazioni. Le tecnologie applicate al nucleare, per la potenza dei possibili impatti, non possono essere solo l’oggetto di una convenienza tecnica, economica o di partito.
Oggi, pur se a noi invisibile, non possiamo non denunciare un abuso operato da alcuni nostri concittadini esperti del settore, ma «innocenti o timidi e inetti competenti», che probabilmente fra la loro scienza e la società di tutti hanno saputo immaginare soluzioni dettate solo da una loro disattenzione sociale. In realtà attraverso equivoci linguaggi criptici o improprie analogie, si è lasciato sempre immaginare l’inconsistenza degli ostacoli che venivano frapposti da chi avrebbe voluto contenere l’applicazione e la diffusione della tecnologia nucleare. Il cosiddetto nucleare civile, così, veniva proposto come un’innocente e incompresa innovazione e, forse, sono state troppo poche le denunce per bloccare, con il nucleare una rivendicazione scientificamente incompleta e sostenuta solo dal profitto che altri ne potevano trarre.
Tecnici ed economisti negli anni 80 giravano per le scuole per imbonire giovani sprovveduti e zittire domande impertinenti. Si raccontava con diapositive e filmati la vita di scienziati famosi, per far intendere cose che avevano ben poco a che fare con la scelta nucleare che, intanto, in quei tempi avanzava vittoriosa come simbolo di una benefica scelta ispirata da ideologie scientiste e da prospettive meccaniche di progressismo tecnologico. Il consenso era un sentimento da indurre, non il risultato consapevole di una partecipazione informata ad una scelta responsabile che riguardava quella qualità della vita che non può fare a meno di informazioni corrette e del senso delle cose (senso che può venire solo dalle nostre riflessioni personali e condivise).
[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il ruolo dei media, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].
Il nucleare è, dunque, un processo indefinito che ha troppo pochi parametri di controllo disponibili per poter essere compiutamente governato (pur in presenza dei software e degli hardware più avanzati). Le energie messe in gioco sono notevoli, ma anche troppo elevate sono la non disponibilità di conoscenze per il controllo del processo di trasmutazione e i rischi della fusione del reattore e di un fallout radioattivo. Anche se tali eventi fossero avvenuti una sola volta (in particolare nella sola storia di un paese densamente popolato, come è l’Italia) la catastrofe generata sarebbe stata irrimediabile per alcuni secoli.
Alcuni sono impegnati nella progettazione di impianti intrinsecamente sicuri, ma pur se concettualmente possono essere presi in considerazione, nella pratica le occasioni di attivazione dei sistemi di spegnimento del reattore, potrebbero essere così frequenti da renderlo del tutto inefficiente, già oggi vi è un plausibile sospetto che, in molti impianti, vengano rimossi, anche se temporaneamente, alcuni sistemi di sicurezza per porre rimedio a situazioni anomale. Magari, solo con l’intenzione di far passare come un non incidente lo sversamento di liquidi radioattivi o l’immissione in aria ambiente di elementi radioattivi, se questi dovessero essere, poi, «sfortunatamente» rilevati all’esterno degli impianti.
Non è completamente definibile la qualità e la quantità degli elementi e il tipo di parametri fisici che possono intervenire nelle trasmutazioni in atto in un reattore nucleare, ma è possibile solo, controllando la temperatura dei liquidi del reattore e degli scambiatori di calore, alimentare o inibire la trasmutazione attraverso la quantità di materiale fissile (fonte della produzione di calore) immesso nel reattore o la quantità di inibitori capaci di far diminuire il numero delle collisioni efficaci.
Il reattore deve cercare di dare continuità alla produzione di calore, mantenuto a circa 400°C e trasferito all’esterno, con un sistema di scambiatori termici, fino alla produzione di vapore per le turbine del generatore elettrico. Il controllo della temperatura è, in sostanza, l’unico ma indiretto parametro che permette, con continui aggiustamenti, sia di non inibire la trasmutazione (che comporterebbe lo spegnimento del reattore e la necessità di dover procedere poi, anche nel corso di mesi, alle operazioni per la sua ripartenza), sia di evitare il peggiore degli esiti, con la perdita irreversibile del controllo della produzione del calore e arrivare, così, fino alla fusione del nocciolo del reattore per superati limiti fisici della sua tenuta).
Portare e mantenere, in questo stato instabile, il sistema è una operazione altamente complicata anche per i notevoli danni prodotti, nel tempo, al reattore con la conseguenza, in particolare, di dover eseguire costose e complesse manutenzioni, riparazioni e sostituzioni di elementi lesionati dal distruttivo bombardamento neutronico e di dover, quindi, mantenere inattive, per alcuni mesi, le singole unità produttiva di un impianto nucleare.
L’instabilità del processo oggi viene controllata attraverso software aggiornati, man mano che emergono possibili situazioni di rischio, ma che spesso sono anche in conflitto fra loro e che, comunque nel dubbio, dovrebbero portare ad una precauzionale sospensione dell’attività del reattore. Un software che, in presenza della precaria sicurezza degli impianti nucleari, può diventare anche un costoso ricatto, pur non esplicitato come tale, da parte dei loro produttori nei confronti di chi non dovesse aderire agli aggiornamenti. In caso di incidente, infatti il gestore dell’impianto si vedrebbe privato dell’alibi, pur inconsistente, di non aver fatto tutto il possibile (nel rispetto dei vantati protocolli di sicurezza più aggiornati, pur se non infallibili negli effetti).
Per i più malevoli, c’è anche il sospetto, poi, che tali software, sempre più avanzati, non vengano tutti connessi e non siano sempre attivi nei sistemi di controllo del processo, e che vengano, così, abbassati gli eventuali migliori livelli di sicurezza (come avviene per altre attività produttive che non hanno, però, i livelli di pericolo e gli impatti del nucleare) per bypassare nuove ed estreme verifiche precauzionali e poter, così, continuare a produrre energia.
Anche per gli hardware la situazione è simile, gli aggiornamenti, anche se di scarso rilievo, diventano obbligatori per non correre il rischio di dover giustificare, poi, come colpevoli, omissioni anche se, proprio loro, non sono stati causa di alcun danno in occasione di eventi drammatici.
Queste situazioni di incertezza e la loro gestione potrebbe ben spiegare come mai il monitoraggio completo, trasparente e in tempo reale di una centrale nucleare non sia disponibile per controlli liberi da vincoli: si offrono solo alcuni e ben riorganizzati dati periodici finalizzati a creare consenso, ma non vengono accettate verifiche autonome e non programmate per dare la prova che tutto avviene nella totale sicurezza dell’impianto come, invece, solo a parole i responsabili degli impianti sono costretti o si affannano a raccontare per rassicurare la popolazione messa a rischio .
Da quanto fin qui già detto (e come già anticipato in precedenza) è evidente che nel nucleare di oggi non c’è sostanzialmente niente di nuovo: siamo di fronte ad un sistema tradizionale che usa il vapore per muovere le turbine di un normale generatore elettrico. La fonte di calore è la trasmutazione dell’Uranio arricchito già usata nei precedenti reattori, anche le misure di sicurezza reali sono ancora quelle indirette e puntate sul controllo della temperatura del reattore. Soprattutto per la sicurezza della popolazione civile, è inutile, poi, farsi illusione su piani di emergenza che, in Italia per la densità di popolazione e per la conformazione geografica (in particolare per regioni circondate dal mare, come Puglia, Calabria, Sardegna, Sicilia) comporterebbero un esodo di dimensione bibliche di milioni di persone anche attraverso il mare e anche verso le nazioni confinanti.
Oggi il mitico racconto di una tecnologia, sempre in procinto di realizzare un condiviso, documentato e verificabile progresso umano non viene neanche più proposto. Sembra, invece, che il progresso umano sia diventato una meta che, come tante altre a favore dell’uomo, è addirittura scomparsa dagli orizzonti di un nostro possibile futuro. Moltissimi, conquistati dallo sviluppo tecnologico, negano che questi scenari siano la prova di un declino, in atto, del senso del vivere umano e che si tratti, invece, di una profonda e virtuosa mutazione antropologica che mira a semplificare il vivere dell’uomo (oggi siamo addirittura arrivati a definire semplificazione, senza averne coscienza, tutto ciò, uomo compreso, che viene affidato alle tecnologie).
Del gruppo degli entusiasti dello sviluppo tecnologico fanno parte anche alcuni scienziati e tecnici che operano nel settore del nucleare. È comprensibile che questi siano naturalmente portati a difenderlo (soprattutto se ne va di mezzo il loro impegno nella ricerca o un posto di lavoro qualificato in una impresa del settore). Ma ciò non esime, anche loro, da un civile impegno nella gestione autonoma delle proprie consapevolezze e responsabilità. Sono molti (e pesano significativamente nelle scelte di questo settore) quelli che sono convinti che le proprie competenze (anche quelle genericamente tecnico-scientifiche) siano tanto fondamentali da ritenere già definita a priori ogni scelta, che dovesse coinvolgerli, e che sia inutile ogni verifica e ricerca di alternative.
Vi sono, però, in ambito scientifico, anche posizioni critiche qualificate che denunciano gli inequivocabili segni di un uomo, oggi, sempre più asservito alle macchine (tanto da apparire lui una loro appendice), sempre più sottomesso ad una loro pretesa perfezione assoluta (effetto solo di una semplificazione riduzionista della complessità), sempre più sottomesso all’assoluto di un pensiero unico che induce a comportamenti acritici ispirati da un bene definito da interpretazioni ideologiche tecno-scientiste (complementari a quelle liberiste in quanto essenziali per generare nuovi consumi e attivare nuovi mercati). Un uomo sempre più espropriato delle qualità creative e sinergiche (necessarie per entrare a far parte degli equilibri vitali e non per assistere, criticamente inerme, al ciclo distruttivo, senza senso e finalità vitali, del consumo di risorse, della produzione di beni, servizi e rifiuti). Un uomo espropriato proprio di quelle qualità creative e sinergiche essenziali per non deviare verso meccanismi spersonalizzanti che trasformano le unicità umane in replicanti sull’unica scena del possedere soldi e potere, dei quali loro stessi sono vittime, mentre si esercitano come carnefici sull’ambiente vitale naturale e sulla salute psicofisica di tutti gli altri loro simili.
Anche nell’attuale situazione di crisi, figlia del mercato e delle mistificanti immagini di beni e servizi avanzati, che fingono prospettive anche solo di sviluppo (senza progresso umano), si rafforza sempre più la convinzione che la tecnologia è un valore assoluto, che sa «far bene le cose», per definizione, che offre gratuitamente una «soddisfacente» libertà, di consenso-dissenso individuale, e «vantaggiosamente» orientata da un mercato globale al quale «tutto» appartiene.
Il successo di questa degradata mutazione diventa, invece, addirittura la prova della sua efficacia (anche gli strumenti usati sono in linea con questa avvilente mutazione: le mode del consumo a perdere, i devastanti azzardi economici, l’esercizio incondizionato di qualsiasi forma di potere, la distruzione delle risorse, l’accumulo di profitti nelle mani di pochi e improduttivi speculatori, sono sempre più meccanismi incontrollabili di un fare le cose senza senso).
Una realtà distorta del senso del vivere che si vorrebbe animasse ogni individuo umano, una realtà però anche diffusamente percepita, nella sua drammaticità (non sappiamo per quanto tempo ancora), ma impotentemente vissuta, da sempre più esili minoranze di individui del nostro tempo. Il progresso umano viene a mancare, ma il suo fallimento appare vittima, solo, di incolpevoli crisi di ogni genere (politiche, sociali, economiche, finanziarie). In realtà a diventare vittime siamo proprio e solo noi e lo siamo non certo per un pur inaccettabile fuoco amico (il prezzo che ci toccherebbe pagare a un’economia finanziarizzata che viene imposta come presunto elemento indispensabile, ma assoluto e senza alternative, per il nostro benessere o anche solo per una nostra sopravvivenza). A ben guardare, infatti, non dovrebbero esserci dubbi che siamo di fronte a preordinate e provocatorie attività, in un mondo globalizzato, finalizzate alla colonizzazione dell’economia reale. Non dovrebbero esserci dubbi che siamo di fronte a fenomeni spinti dall’avidità di denaro e dall’esercizio autoreferente di un potere che, con attività predatorie, ne viene in possesso sottraendolo, con subdola legittimità, alla condivisione con altri. Ci sono gruppi di sostenitori dei propri interessi e vantaggi che, pur se formati da pochi elementi traggono vantaggi incalcolabili, a totale nostro danno, dall’assolutismo, ideologico individualista, patrocinato e perseguito dalla tirannia liberista.
[vedi anche: Energia per consumi senza progresso in Il controllo dell’energia, «Villaggio Globale» anno XVIII, n. 69, marzo 2015].
La Terra non è più un luogo di vita, ma sta diventando sempre più l’oggetto di un possesso assoluto e senza senso, da parte di individui (autoreferenziali e isolati dal contesto vitale reale, che operano come se fossero mentalmente turbati da visioni di conflitti terminali fra altri inesistenti mondi).
Sono individui ossessionati dalle paure, di un «non avere» e di un «rischiare di perdere» le cose di questo mondo, che li trasforma in insaziabili automi impegnati, con stupide reiterazioni, a mettere abusive bandierine di possesso su ogni cosa, su ogni idea, su ogni modello, anche ipotetico della realtà (con l’attesa che questo modo, di occupare il mondo, un domani possa permettere chissà quali vantaggi a proprio favore). Al limite di uno stato paranoico, c’è perfino chi vorrebbe disporre della volontà e della fede di persone morte e che, per entrare in possesso della loro adesione ai propri convincimenti, le riconverte, con procedure di tipo amministrativo (con atti di registrazione su propri specifici schedari), ad altra fede (quella loro che è, naturalmente, quella vera in assoluto), facendo incetta di registrazioni storiche di battesimo e simili, di dati riportati nelle iscrizioni tombali.