Con il termine di Trasmutazione Lenr si definiscono infatti le trasmutazioni di alcune specie atomiche in altre quale risultato di reazioni nucleari a bassa energia (Low Energy Nuclear Reactions, Lenr).
La più nota delle Lenr è la cosiddetta «Fusione Nucleare Fredda».
Il termine «fusione fredda» divenne infatti molto popolare proprio nel 1989 grazie agli annunci fatti alla stampa ed all’opinione pubblica mondiale da Martin Fleischmann e Stanley Pons dell’Università di Salt Lake City nello Utah. I loro esperimenti parvero dimostrare come l’atomo offrisse anche dinamiche energetiche a «bassa intensità» in grado di continuare a minor rischio e minor costo la via nucleare alla produzione di energia a basso costo.
La «Fusione Fredda», che nel 1989 pareva una soluzione di imminente praticabilità entrò invece in una fase contraddittoria: diversi laboratori ripeterono gli stessi esperimenti svolti dall’università dello Utah, ma senza ottenere conferme univoche del fenomeno.
La Fusione Fredda venne sperimentalmente realizzata in una cella la cui configurazione iniziale studiata da Fleischmann e Pons utilizzava un vaso di Dewar1 riempito di acqua pesante per svolgere l’elettrolisi, in modo che fosse minima la dispersione termica2. La cella era poi immersa in un bagno termostatato a temperatura costante in modo da eliminare gli effetti di sorgenti di calore esterne. Venne scelta una cella aperta, in modo da eliminare la possibilità di formazione di sacche di deuterio e ossigeno risultanti dalle reazioni di elettrolisi riducendo la pericolosità potenzialmente esplosiva del processo. Questa configurazione, a causa dell’evaporazione del liquido, rese necessario il rabbocco con nuova acqua pesante dando quindi atto ad una pratica invasiva e di fatto modificativa del processo nel suo corso. Infatti, Fleishmann e Pons optarono per una cella di forma allungata e ristretta al fine di favorire la miscela delle bolle di gas prodotte dalla elettrolisi con l’acqua pesante, portando i componenti fluidi ad una temperatura uniforme.
Fu applicata alla cella una corrente elettrica costante per un periodo di diverse settimane e per la maggior parte del tempo la potenza elettrica immessa nella cella rimase praticamente uguale a quella dispersa dalla cella stessa, evidenziando un funzionamento della cella secondo le consuete leggi dell’elettrochimica. In queste condizioni la temperatura della cella era di circa 30 °C. In certi momenti, però, e solo per alcuni esperimenti, la temperatura aumentava improvvisamente, sino a circa 50 °C, senza che fosse variata la potenza elettrica in ingresso; questo fenomeno poteva durare due o più giorni.
In questi particolari momenti la potenza generata poteva essere superiore a 20 volte la potenza elettrica applicata in ingresso alla cella. In altri casi questi repentini innalzamenti di temperatura non venivano riscontrati per molto tempo e quindi la cella veniva spenta. La temperatura della cella era misurata con un termistore, mentre un altro termistore era posto direttamente sul catodo, in modo da poterne misurare la temperatura durante gli eventi di surriscaldamento.
L’efficacia di quel metodo di rilevamento è stata spesso elemento di contestazione. L’esperimento, nel suo insieme, è stato oggetto di molti rilievi critici mossi in particolare da Wilson, e posto in apparente crisi da Shkedi, Jones ed altri sulla base di esperimenti condotti sempre con celle di tipo aperto.
1 Un vaso di vetro a doppia parete al cui interno era stato fatto il vuoto
2 < 5% durante la durata di un tipico esperimento