La trasformazione dell’uranio negli impianti nucleari i rischi e gli impatti sui territori

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Nella fissione nucleare dell’Uranio235, è di fatto ignota la dinamica dei processi e, quindi, sono anche ignote le valutazioni in merito a loro possibili, incontrollabili e ignoti, comportamenti, pur se definiti poco probabili o trascurabili. Sappiamo solo che si parte da una massa critica di Uranio, contenente l’isotopo235 (3-4% del totale), una quantità essenziale che, per l’instabilità di questo isotopo e per l’azione dei neutroni inizialmente liberati, attiva la scissione di altri isotopi dello stesso tipo, in atomi più semplici e libera quantità crescenti di nuovi neutroni che possono così attivare un numero, sempre maggiore, di nuove fissioni degli altri atomi di Uranio. Il numero sempre crescente di neutroni fa, dunque, proseguire questa fissione con sempre maggiore velocità e maggiore produzione di quantità di calore a temperature sempre più elevate, limitate solo dalla quantità di Uranio ancora disponibile nel corso del processo.

Sappiamo che la fissione nucleare non è una reazione chimica, ma è una trasformazione fisica degli atomi, nota come trasmutazione, che non è conoscibile, come invece lo sono le reazioni chimiche (che possono essere controllate in ogni attimo del loro evolversi per il determinismo, a noi del tutto noto, che caratterizza i loro processi).
Nel caso delle trasmutazioni nucleari sfugge alla nostra comprensione il meccanismo della trasformazione del materiale fissile. Sappiamo che avviene (conosciamo le sostanze iniziali e i prodotti finali), ma non sappiamo «come» questa trasmutazione avviene. Riusciamo, in modo precario, solo a controllare (se interveniamo entro certi limiti di tempo disponibili) la produzione del calore (assorbendolo, se è necessario, per evitare condizioni oltre le quali la trasmutazione non è più controllabile), ma non possiamo modularla per produrre le quantità variabili di energia elettrica richieste dagli utilizzatori.
Il reattore, raggiunto il punto critico di equilibrio instabile della trasmutazione e fin quando il controllo delle temperature si mostra efficiente, permette di trasferire al suo esterno, il calore generato, cedendolo ad uno scambiatore. In caso di necessità il reattore potrà essere solo fermato. In caso di allarme (per condizioni che potrebbero interferire con la tenuta dell’equilibrio instabile della trasmutazione) il reattore potrebbe non rimanere più nel suo stato critico, se il calore prodotto, si accumula al suo interno (per impossibilità di scambiare calore con l’esterno), e generare una produzione di neutroni sempre maggiore e non più controllabile con sistemi disponibili per rallentarli. In queste condizioni, il processo arriverà fino alla fusione del nocciolo (nel quale stava avvenendo la trasmutazione): da questo momento nessun intervento specifico sul processo sarà più possibile e si potranno attivare solo misure di emergenza generali (raffreddamento con acqua, del materiale che alimenta la trasmutazione in atto all’interno dell’impianto, e tentativi di contenimento del suo sversamento sul suolo e nelle acque utilizzate dall’impianto nucleare; misure per mitigare gli effetti del fallout radioattivo; misure di controllo sull’inquinamento di prodotti alimentari; misure per la difesa dei prodotti agricoli e della pesca; misure di sicurezza per la popolazione fino all’eventuale evacuazione di zone comprese fino ad un raggio di 80 Km dall’impianto nucleare; divieti di trasferimento in altri luoghi di materiali e prodotti inquinati; sospensione delle attività economiche all’interno delle zone con radioattività oltre i limiti consentiti; ma, poi, tutte le indicazione specifiche, su come realizzare queste misure di emergenza generali, in particolare gli interventi per la protezione delle persone e delle cose, sono lasciate a valutazione e responsabilità da decidere alle convenienze del momento).
In una trasmissione televisiva, sull’incidente di Fukushima, nella quale erano intervenuti esperti del nucleare e della sicurezza, erano questi stessi a meravigliarsi di quanto stava accadendo e veniva presentato in diretta: vapori e fumi che uscivano dalle strutture dell’impianto e dubbi sulle misure che venivano prese, erano causa di disorientamento nella valutazione delle migliori scelte possibili di intervento. In questi casi, per la natura e le conseguenze di un incidente nucleare che porta alla fusione del reattore, è evidente che si può solo cercare in tutti i modi possibili di raffreddare il materiale radioattivo (per evitare, alla fonte, il suo rilascio sul territorio e la sua dispersione in aria ambiente) e di evacuare la popolazione più a rischio e sperare bene per gli altri.
Per i fumi e vapori, contenenti materiale radioattivo immessi in aria ambiente, si può tentare di contenere il fallout con abbondanti innaffiamenti di acqua (che consente almeno di diminuire la massa di materiali radioattivi immessa in aria ambiente, catturandola e poi assorbendola su filtri che diventano, comunque, scorie radioattive solide e quindi più semplici da controllare). A volte, però, si ricorre anche a metodi che dire fantasiosi sarebbe poco. A Fukushima per esempio, per tentare di evitare lo sversamento di materiale radioattivo in mare si è pensato di creare e mantenere attiva una barriera di ghiaccio che arrivi in profondità, sotto il livello del mare, e da sviluppare per tutto il lungo tratto di costa interessato). A Chernobyl fu costruito un sarcofago di dimensioni incredibili, ma che già da alcuni anni sta mostrando i suoi limiti con la formazione di crepe dalle quali vengono immessi fumi e vapori, contenenti sostanze radioattive, in aria ambiente, con la conseguenza di continuare ad inquinare vasti territori e procurare conseguenti danni alla salute dei pochi o dei molti (soprattutto anziani) che hanno comunque deciso di non abbandonare i territori, del loro vissuto, compresi nell’area inquinata della centrale nucleare.

In merito alla gestione di un impianto nucleare, si sa la quantità di calore prodotta, il rendimento in termini di vapore prodotto e di energia elettrica immessa in rete, ma non si sa nulla sulle dinamiche che governano la trasformazione e che permetterebbero, fra l’altro, anche di modulare la quantità di calore e, quindi, l’energia elettrica prodotta. Non sono definibili, cioè, quei protocolli specifici, dell’eventuale processo deterministico associato a questo tipo di trasformazioni, che permetterebbero di adottare misure che escludano eventi oggi non prevedibili e quelli incontrollabili che avvengono in caso di incidenti, oggi, a noi ben noti (ma anche in incidenti forse non noti perché occultabili o ben occultati).
Gli interventi, in caso di incidente negli impianti nucleari, non possono offrire certezze e in questi casi si decide anche all’istante sulla base delle migliori misure che possono essere prese (man mano che il fenomeno della fusione del nocciolo procede nel suo incontrollabile percorso) per tentare di limitare i danni continui prodotti all’ambiente e alla salute umana.
Queste, dunque, sono misure dettate solo da esperienze vissute in precedenti incidenti, da intuizioni, da analogie, ma che non permettono di esercitare essenziali controlli e verifiche in tempo reale sui complessi fenomeni in atto. In pratica in queste situazioni si fa, soprattutto, ciò che si riesce a fare. È evidente che in queste condizioni un vero responsabile della sicurezza degli impianti nucleari non potrà mai essere individuato perché il concetto di responsabilità è strettamente connesso a procedure deterministiche da rispettare (che sono oggetto della responsabilità). In questi casi la presenza di un responsabile si prefigura come un falso ideologico: c’è un responsabile formale, ma non c’è la materia sulla quale può esercitare le proprie responsabilità. Non c’è responsabilità, infatti, se non sono disponibili informazioni del tutto esaustive per organizzare protocolli garantiti.
Tutto questo avviene perché mancano le conoscenze e i relativi strumenti che possono permettere di accertare step by step e senza ambiguità cosa avviene nel passaggio da Uranio235 arricchito, ai prodotti finali della sua trasmutazione. A parte, vi sono poi, come in tutte le altre attività umane, i fattori di rischio connessi a errori umani di gestione degli impianti, ma anche a cattive e incomplete progettazioni (infatti progetti perfetti, pur se fattibili, spesso non sono realizzati perché i loro elevati costi non rientrano nei limiti di spesa imposti). Errori umani o progettazioni approssimate possono essere anche causa di incidenti nucleari (è il caso del generatore elettrico, dell’impianto di Fukushima, che doveva alimentare i sistemi di sicurezza e che invece è stato reso inservibile a causa dell’inondazione).
Ma mentre ci affanniamo a comprendere come possano essere evitati incidenti in sistemi che pur hanno alle spalle condizioni precarie di equilibrio e conseguenze tragiche, sembra che il vero problema sia passato in second’ordine o cancellato del tutto. Sembra, infatti, che vi sia una rimozione condivisa soprattutto delle domande su «chi» decide scelte a danno degli equilibri vitali per la Terra e per i suoi abitanti e su «come» sia possibile portare a compimento, in assenza di sufficienti conoscenze e in nome di una precaria tecnologia, un elevato livello di rischio (come quello connesso ad un impianto nucleare) da far correre a intere comunità e territori e per più generazioni.
Chi dà il consenso per queste allucinanti avventure che impongono degrado fisico e psichico ad esseri umani sottomessi dalla decisione di insediare un impianto nucleare? Come si può sostenere la folle idea di una crescita infinita dei consumi e di una tecnologia che, come un fatale vaso di pandora, invadendoci con i suoi prodotti, precostituisce le condizioni per la disumanizzazione consumistica del mondo. Una disumanizzazione che, nella prospettiva ideologica del liberismo, sembra intenzionata a plasmare l’uomo per attribuirgli sofisticate capacità di consumo, di adesione all’ordine necessario per il libero mercato. Uno scenario già predefinito e funzionale non a favorire processi vitali e creativi, ma solo quella crescita di entropia che è frutto di un cattivo uso, fino alla distruzione, delle risorse naturali. Questa è la stessa crescita di entropia che caratterizza gli incendi, le distruzioni, gli stermini, gli egoismi del possesso delle risorse, tutte cose sottratte agli equilibri naturali e necessarie per dare risposte ai bisogni, anche futuri, dell’umanità.
Siamo, oggi, di fronte a un’allucinante avventura che prevede piani di sicurezza (per la popolazione coinvolta in caso di emergenze) che hanno dimensioni bibliche, praticamente inattuabili e quindi esistenti solo nelle carte dei «buoni» propositi. Per i casi più complessi, quelli che coinvolgono un elevato numero di cittadini (come è nel caso del nucleare), mancano piani di evacuazione, una reale valutazione degli impatti ambientali e sociali e un’analisi costo/benefici che verifichi il senso di una politica economica puntata solo alla crescita della produzione di energia per la crescita dei consumi. Una crescita che vede l’uomo ridotto al passivo ruolo di consumatore e che sembra invece finalizzata a favorire solo sciagurati profitti.
L’aumento della produzione di energia elettrica andrà ad alimentare, infatti, solo i mercati dei beni e servizi non necessari, ma resi artificiosamente obbligati in un sistema di sopravvivenza incatenato ad un ciclo produzione-consumo che si propone (e comunque può solo proporsi) di resistere fin quando non avrà consumato l’ultima risorsa disponibile. Il rischio, non è solo per l’economia reale (quella che oggi dà uniche prospettive di sopravvivenza ad un territorio), ma anche per la salute e la vita dei cittadini, per gli effetti dei lunghi tempi richiesti per un minimo recupero dei territori (bonifica e sostegno alla ricostituzione di equilibri naturali e degli ambienti fisici di vita, e dei tessuti socioeconomici), per i costi insostenibili a spese dei contribuenti (che sono però ottimi affari per le imprese finanziarie), mentre i profitti godranno dell’immunità per i disastri dei quali sono artefici.

La trasmutazione atomica