Il nucleare, fin dagli anni 50 del secolo scorso, come applicazione pacifica nel campo delle attività economiche, era considerato un risultato positivo che la scienza offriva ai bisogni dell’uomo e, solo come tale, è stato propagandato. Molti dei sostenitori, man mano che, nel tempo, andavano emergendo valutazioni critiche (che intaccavano le loro certezze sulla sicurezza degli impianti) invece di verificare la correttezza delle valutazioni diverse dalle proprie, reagivano come se fossero stati offesi nel profondo del proprio essere o come se fosse in atto un attacco alla scienza da parte di un popolo barbaro e ignorante. Il nucleare aveva dato loro prestigio e, in quei momenti, alcuni di loro lo fecero valere come potere, alleandosi (quasi dando spazio ad una specie di risentimento scientista) con chi aveva interessi convergenti (con la loro missione di dare un futuro alle tecnologie del nucleare) in ambito partitico ed economico.
In questo gioco c’erano grandi opere per grandi imprese, che nel nucleare vedevano una buona occasione per fare grandi affari, ma c’era, soprattutto, un particolare interesse, da parte dei paesi con armamenti nucleari, a sviluppare il cosiddetto nucleare civile per mettere a profitto le filiere e chiudere il ciclo del nucleare militare. Giornali, televisione, manifestazioni per l’energia del domani, programmi partitici di sviluppo dei consumi, tutti tuonavano sull’energia da trovare e su quella del nucleare che era stata già trovata. Non mancarono le minacciose previsioni di un futuro a lume di candela e di un crollo dell’economia se fosse venuto a mancare un futuro fatto di energia nucleare.
[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Qualità della vita, non solo energia elettrica, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].
In realtà, a guardar bene, sembra essere avvenuto, poi, proprio il contrario con la produzione di un surplus di energia in corrispondenza del quale sembra quasi sia stato attuato un programma di sprechi: dalla diffusione facilitata del condizionamento degli ambienti pubblici e privati, dalla diffusione della catena del freddo (che favoriva anche nuovi consumi) fino all’amplificazione dell’illuminazione pubblica notturna estesa anche a una rilevante quantità di strade extraurbane di tutto il nostro paese.
È vero, poi, che c’è stato anche il crollo dell’economia, ma non certo per effetto del mancato sviluppo della produzione di energia e tantomeno di quella da fonte nucleare. Le crisi sono state invece procurate da quella finanza predatoria che avrebbe potuto fare ancora di peggio se avesse avuto modo di dare sostegno (come ancora oggi immagina di poter dare) al nucleare creando situazioni per un’ulteriore esposizione finanziaria del nostro paese già abbondantemente disastrato da una politica economica impostata sui consumi.
Se riflettiamo questa impostazione non solo ha prodotto danni economici e sottomissioni al potere globale della finanza ma, essendo del tutto lontana dalla nostra cultura, ha costretto ad un vero tradimento della nostra identità. Seguendo il senso comune condiviso, dai nostri governi, è stato attuato (ed è ancora oggi perseguito ciecamente) uno sviluppo dell’economia del mercato dei consumi, compresi quelli finanziari, attraverso trattati segreti fra stati e centri privati di potere mondiale che hanno «semplificato» le relazioni commerciali globali a danno dei consumatori e, ancor più, di chi non si identifica con essi.
Anche gli impatti di queste crisi sul sistema paese, con la chiusura di molte industrie con la conseguente disoccupazione, con i relativi disastri ambientali lasciati in eredità ai territori dall’economia del «fare e disfare le cose», con i costosi risanamenti (a volte anche opere esemplari, ma in sostanza del tutto insignificanti segni di speranza, rispetto al complesso dei problemi che doveva essere, invece, affrontato), non sono stati certo effetto della mancanza di energia elettrica e tanto meno di quella di origine nucleare.
Non è difficile immaginare a quale debito pubblico saremmo arrivati se, già con le vecchie centrali nucleari da smantellare ci fossimo trovati a sostenere anche i costi di quelle nuove, della loro gestione e del loro pesante e ancora non risolto problema delle successive dismissioni.
In altri paesi europei lo sviluppo del nucleare c’è stato (in realtà favorito da territori con minore densità di popolazione e dall’alibi di una struttura geofisica, dei territori nuclearizzati, che offriva minori occasioni di pericolo rispetto ad altri luoghi e in particolare rispetto a quelli disponibili in Italia). Ma i problemi, pure quelli messi sotto silenzio, sono poi emersi anche a livello europeo. La Germania ha, così, deciso la sua uscita dal nucleare. In Francia (sebbene siano stati dismessi 12 reattori) i problemi sembrano, invece, rimanere sospesi perché non è cosa semplice, per lei, uscire dal nucleare.
I dati relativi al 2013 fanno riferimento a 19 impianti nucleari funzionanti in Francia (con un totale di 58 reattori attivi), con una produzione di energia elettrica fortemente dipendente da essi e con interessi economici internazionali spinti dal nucleare (la Francia è fra i pochi paesi detentori delle filiere per l’arricchimento dell’Uranio, dei brevetti per il nucleare e delle disponibilità del minerale (presente nelle sue ex colonie) dal quale estrarre l’Uranio: una nazione, quindi, fortemente interessata a mantenere attivo questo business). La Francia ha, tuttora un’elevata produzione di energia elettrica da impianti nucleari (circa 75%) e per l’impossibilità negli impianti del nucleare, di modulare, la produzione del vapore, si è trovata spesso a dover svendere l’energia elettrica che non aveva modo di consumare (in questi casi dagli errori di valutazione, commessi in Francia, l’Italia ne ha tratto grandi vantaggi, con l’acquisto di energia a basso prezzo. Paradossalmente possiamo dire che il nucleare, in questo caso, ha fatto bene a chi, come noi, non lo aveva e non aveva neanche i suoi non sempre ben identificati problemi).
[vedi anche: Linguaggi nucleari, L’informazione tecnica e non solo, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].
Nonostante un forte impegno a promuovere consumi di energia elettrica per usi non obbligati, potremmo dire che (lasciando da parte la retorica costruita sulla pur necessaria diversificazione delle fonti di energia), il nucleare possibile in Italia avrebbe offerto un modesto contributo alle necessità energetiche del paese. La gran parte dell’energia è richiesta, infatti, per alimentare motori termici o per produzione di calore (circa 70%). Solo il rimanente (circa 30%) sono consumi elettrici. Spesso questi stessi consumi non sono obbligati perché ritrasformano l’energia elettrica in calore, con grandi perdite di energia termica disponibile nella materia prima usata. Infatti la produzione di energia elettrica comporta un rendimento massimo che, nel migliore dei casi, arriva al 40%: detto in altre parole, quando trasformiamo l’energia elettrica in energia termica abbiamo già buttato via il 60% dell’energia termica, disponibile nella risorsa iniziale (petrolio, gas, materiale fissile) per produrre energia elettrica.
A chiarire che la questione del nucleare non è un punto nodale della questione energetica italiana e che è, invece, solo un’opportunità di grande business nazionale e di articolati (spesso non noti) accordi economico-politici internazionali, è sufficiente prendere atto che la sua vantata convenienza economica non solo non esiste [vedi anche: Linguaggi nucleari, Il costo dell’energia e il costo dei rischi, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011], ma è fortemente dipendente da altre variabili: sia per finanziamento delle opere e per l’acquisto del know-how; sia di mercato (ricatti con blocco o dirottamento altrove, di scambi commerciali dal paese acquirente, se non dovesse andare in porto la fornitura degli impianti); sia quelli connessi alle convenienze politiche internazionale (per esempio, se la scelta degli impianti debba favorire la Francia o gli Usa); sia di sostegno finanziario a fondo perduto da parte della finanza pubblica italiana per forniture strategiche (Uranio arricchito) e per i costosi servizi efficienti di sicurezza; sia dai paesi amici e amici degli amici (ma fino a quando e con quali contropartite?) che dovrebbero fornire l’Uranio e arricchirlo di Uranio235 per renderlo pronto a far funzionare gli impianti nucleari; sia per la scelta delle imprese accreditate per la costruzione delle strutture e per il montaggio delle macchine e dei sistemi di controllo (un business che non ha capitolati di appalto da rispettare e con costi che fanno lievitare fino a 15 volte il costo normale delle stesse opere se non fossero destinate ad un impianto nucleare); sia per la necessaria militarizzazione dei siti; sia per l’articolato e continuo controllo delle immissioni, obbligate ed eventuali, di materiale radioattivo nell’ambiente; sia per i complicati e costosissimi, troppo spesso anche irrisolvibili, piani di evacuazione e di nuovo insediamento (di tutte le comunità coinvolte) in caso di incidenti; sia per i lunghi tempi dei costosissimi recuperi ambientali e sociali dei territori devastati da un incidente nucleare o «solo» continuamente inquinato da insidiosi e occultati rilasci di materiali radioattivi; sia per il problema delle scorie che in modo assoluto è irrisolvibile (coperto solo da chiacchiere su costose tecniche che lasciano le scorie così come sono) perché l’unico intervento possibile è solo quello del confinamento (una soluzione che mette a disposizione di terroristi attrezzati, della criminalità e di paesi non amici, un potenziale distruttivo immenso per operare a danno della popolazione civile del paese nemico, cioè, proprio contro di noi cittadini vittime e non destinatari di un presunto bene tecnologico che arma, però, il male ideologico); sia per non ben definiti costi della fase di decommissioning degli impianti.
Se ancora vi fossero dubbi, converrebbe riflettere sull’indisponibilità da parte delle assicurazioni di attivare contratti in questo settore e, ancora, che nessun privato è disponibile ad assumere «in toto» la responsabilità civile e economica di questo tipo di attività. È sintomatico rilevare, a questo proposito, che a fronte di una disponibilità degli operatori del settore alla realizzazione delle opere di un impianto nucleare (un ottimo business) e a valutare come adeguati, alle condizioni di sicurezza, i risultati delle relative analisi sulla fattibilità e sugli impatti ambientali e sociali, non vi sia poi una pari disponibilità ad assumere, magari loro stessi, una diretta responsabilità nella gestione in solido degli impianti (forse sanno, ma tacciono, che senza gli elevatissimi aiuti di stato, quelli pagati dai contribuenti, anche la sola gestione commerciale di un impianto nucleare non è remunerativa e anzi è solo un inaccettabile rischio).
[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Le ragioni del «no» a questo nucleare, La convenienza del nucleare, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].
Siamo cioè in presenza di una minacciosa prospettiva sia di rischio estremo, sia di un’attività di produzione di energia elettrica che nessuna impresa privata è disponibile a svolgere in proprio, ma eventualmente solo ad amministrare, se pagata con finanziamenti pubblici assicurati, a prescindere dai buon esiti produttivi e di sicurezza degli impianti nucleari.
La «riservatezza» che caratterizza l’informazione su molte tecnologie (in questo caso quelle del nucleare) dovrebbe ancor più allarmarci perché, al di là di ogni eventuale danno materiale e sociale, vi è un’inaccettabile sottrazione di responsabilità. È un pericolo inquietante per le democrazie che sono, così, private di informazioni e di conoscenze che possono, invece, essere addirittura arruolate contro di loro e, a loro insaputa, arrivare anche a sovvertire le Istituzioni e a preordinare l’evolversi delle condizioni di libertà e del senso che queste hanno per ciascun essere umano.
Cambiare i significati e le conseguenze di un’organizzazione sociale ed economica, che sa rispondere dinamicamente ai bisogni umani, per riordinarla, poi, in funzione dell’esercizio di un potere assoluto, non è l’obiettivo delle sole attività terroristiche armate, ma anche di attività di dominio di popoli che vengono sottomessi con sofisticati strumenti di coinvolgimento e disorientamento che agiscono sui punti deboli del carattere e della personalità umana (per esempio, forme legalizzate di corruzione, privilegi e conforto derivante dal consumo compulsivo). Una situazione che viene alla fine accettata come un dato di fatto immodificabile (pur se percepito come un alterato e alienato stato della realtà), ma anche una prospettiva che purtroppo fa presa su quegli sprovveduti entusiasmi che trovano, per esempio, il significato del vivere umano nel mantenersi in linea con sviluppo dei consumi tecnologici.
In mancanza di consapevolezze, il poter diventare portatori di un «nuovo», fatto coincidere fatalmente con il meglio del bene che si presume possa essere offerto all’uomo da uno sviluppo delle conoscenze, ci rende disponibili ad accettare acriticamente tutto ciò che la tecnologia usa, invece, per indurci ad una pacifica ma devitalizzante sottomissione.
Non è difficile riconoscere la carica ideologica di una conoscenza asservita al «fare le cose e al come farle» che finisce addirittura con l’essere rivendicata come attività scientifica. Ma la ricerca scientifica non punta ad un prodotto finito (come avviene nello sviluppo di una tecnologia), ma alla qualità delle conoscenze che trovano un loro inserimento nelle consapevolezze sul senso del divenire vitale degli equilibri naturali.
Volendo essere ancora più puntuali e non solo nell’ambito del nucleare per la produzione di energia elettrica, non si dovrebbe parlare di conoscenze (se non come presupposti alla base della pratica tecnologica applicata alla produzione di beni e servizi). Si dovrebbe, invece, dichiarare di operare sulla base di esperienze finalizzate ad applicazioni tecnologiche. In questa prospettiva le cose potrebbero apparire anche un po’ più chiare di come vengono presentate. L’esperienza dà un peso alle cose che avvengono e su di esse orienta le possibili interpretazioni, scelte e obiettivi, formulando previsioni sui fenomeni e sulle loro applicazioni. Ma la sola esperienza personale può facilmente portare a costruire proprie e incrollabili convinzioni anche concettuali (una specie di deriva, dagli scenari complessi della realtà, generata da posizioni riduzioniste di tipo scientiste).
Un’esperienza personale che è troppo limitata, per affrontare la complessità del divenire del mondo, se non dialoga con esperienze in altri campi (anche quelli con i quali è evidente una formale e completa diversità di contenuti e di metodi) e se non entra nel merito delle analogie e delle diversità che caratterizzano la dinamica, le finalità e il senso che alimentano i fenomeni naturali. Quando si fa acriticamente riferimento a esperienze sviluppate in ambito scientifico, c’è sempre il rischio di costruire convinzioni perché, ricercando condizioni certe di ripetibilità dei fenomeni, il loro contesto risulta ridotto rispetto alla loro complessità e non è raro che questa ricostruzione semplificata della realtà, con i riscontri affidabili che propone, affascini tanto da far superare ogni nostro dubbio e proporsi, così, non solo come corretta verità scientifica, ma addirittura come regola assoluta legittimata da applicazioni pratiche, pur se confinata a fare cose le cose banali di una visione riduzionista della complessità dei fenomeni naturali.
In ambito scientifico, anche se la comprensione di un fenomeno può apparire immediata (perché siamo capaci di intuire alcuni fattori fondamentali che possono averlo generato), in realtà si presentano problemi sempre complessi da affrontare. Sono, questi, i problemi che riguardano, per esempio, il senso vitale delle cose che può suggerire un nostro modo di riflettere e di operare in sintonia con esso, di fare scelte autonome e di non essere condotti, invece, sulle strade preimpostate da un senso comune strumentale.
È vero che molti fenomeni possono fare poi riferimento ad un proprio percorso deterministico (e quindi a conseguenti, accertate e controllabili misure di sicurezza) ma questo sarà legittimo per proprie particolari condizioni (per esempio quelle nelle quali sono costanti alcuni fattori, come avviene nelle sperimentazioni controllate di laboratorio, ma che poi possono non essere ripetibili nelle condizioni complesse della realtà).
Il determinismo, che è riconoscibile in alcuni processi naturali, vale solo se teorie, modelli e leggi che li accompagnano, superano (e solo fin quando continueranno a superare) ogni possibile confutazione teorica e sperimentale: nel caso del nucleare, però, manca proprio l’oggetto della confutazione, non è possibile accertare l’esistenza di una teoria e di una verifica sperimentale perché non sono noti i meccanismi, da sottoporre a confutazione, dei fenomeni in atto nella dinamica interna delle trasmutazioni atomiche.