Ma per effetto delle correnti in pericolo è l’intero Mediterraneo. Il prof. Boero: «Se le perdite fisiologiche sono già intollerabili per le comunità e gli ambienti direttamente interessati a queste attività, la eventualità di un incidente in fase estrattiva, tipo quello avvenuto recentemente in Florida, o in fase di trasporto, come avvenuto in molti altri casi, avrebbe conseguenze che vanno ben oltre gli impatti su realtà ecologiche locali»
– «Un rischio inutile, per il mare e la pesca»
Si avviano verso la conclusione dell’iter le richieste della Shell di ispezionare due aree dello Jonio alla ricerca di petrolio. Il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, infatti, ha firmato i due decreti di valutazione di impatto ambientale (Via) per i progetti nel mare Jonio fra Calabria, Basilicata e Puglia. Ora manca solamente la formalità della firma dello Sviluppo economico.
Per i progetti off-shore c’è una vivace polemica, in particolare per questi ultimi, avevamo segnalato già interventi di Greenpeace e della Ola.
La prima prima area di ricerca è di circa 730 chilometri quadri e dista 27 miglia nautiche da Taranto e una quindicina dalla Calabria. La seconda è di 617 chilometri quadri, più vicina alla costa calabrese (a 8 miglia dalla spiaggia di Trebisacce). Nel via libera che è stato dato si danno norme precise da seguire circa la tecnica dell’air gun. Ma conoscere esattamente i rischi e la situazione dal punto di vista ambientale che esiste in queste zone, riportiamo parte di un intervento di Ferdinando Boero, Professore di Zoologia e Biologia Marina all’Università del Salento, Associato all’Istituto di Scienze Marine del Consiglio nazionale delle Ricerche.
Il parere del prof. Boero
Il prof. Boero puntualizza subito che «la Direttiva Marina dell’Unione europea pone l’obiettivo di ottenere un Buono Stato Ambientale (Bsa) nei mari europei entro il 2020. Esistono undici descrittori di Bsa, come riportato in documentazione. Il descrittore numero 11 prescrive: L’introduzione di energia (incluso il rumore subacqueo) non deve influenzare in modo avverso l’ecosistema».
Infatti, aggiunge Boero, «il rumore delle prospezioni petrolifere è tale da poter influenzare in modo negativo gli apparati acustici dei mammiferi marini, protetti da leggi nazionali e internazionali. In questo tratto di costa i cetacei sono molto frequenti. Il loro ruolo ecologico è importante per il buon funzionamento degli ecosistemi, e quindi causarne la morte, il disorientamento e l’allontanamento rappresenta un’influenza avversa per gli ecosistemi marini».
In questo tipo di interventi, è evidente che ci sono possibili pericoli per l’ambiente, per questo sono previste alcune precauzioni, come la presenza di biologi ed un uso graduale dell’air gun. Ma data la vastità dell’area non è possibile escludere matematicamente eventuali danni. Si impongono quindi serie valutazioni costi/benefici.
I costi ambientali
Alle valutazioni economiche vanno aggiunti i costi ambientali che, come sostiene Boero, rientrano in diverse categorie:
«1 – Produzione di rumore durante l’installazione e la gestione degli impianti (vedi considerazioni per le prospezioni, riguardo al descrittore nr 11 di Bsa)
«2 – Perdite “fisiologiche” di petrolio durante l’estrazione e il trasporto. Queste perdite sono quasi sempre croniche e influenzano i sedimenti attorno alle installazioni. Occorre valutare con estrema attenzione lo stato dei fondali in cui si dovesse decidere di perforare. In questo tratto di mare, infatti, esistono formazioni biologiche profonde che rientrano nella Categoria Reefs della Direttiva Habitat dell’Unione europea. Si tratta delle formazioni a coralli bianchi trovate recentemente al largo di Santa Maria di Leuca. Man mano che il mare profondo del Basso Adriatico e dell’Alto Jonio viene esplorato, queste formazioni si rivelano sempre più frequenti. Le formazioni coralline profonde sono del tutto assimilabili alle formazioni coralline tropicali, in quanto a ruolo ecologico. La presenza di coralli bianchi permette la proposta di elevare queste aree al rango di Siti di Importanza Comunitaria.
«La costa Otranto-Santa Maria di Leuca – prosegue il prof. Boero – è caratterizzata dalla presenza di biocostruzioni di alghe coralline (marciapiede di Lithophyllum) che crescono nella zona immediatamente sottostante al livello del mare. L’area interessata dalle trivellazioni ospita grandi estensioni di formazioni di alghe (coralligeno) che rientrano nella categoria Reefs della Direttiva Habitat dell’Unione europea. Inoltre, in molte parti di questo tratto di costa, le formazioni coralligene sono presenti anche sul fondo marino, e non solo lungo la linea di riva. Sono presenti anche in altre parti del Mediterraneo, ma sono state scoperte lungo il litorale Otranto-Leuca e sono chiamate “coralligeno di Tricase”».
Le grotte e le correnti del Mediterraneo
«Inoltre – precisa ancora Boero – lungo la costa Otranto-Leuca sono presenti moltissime grotte marine, anch’esse habitat di importanza comunitaria per la Direttiva Habitat dell’Unione europea. L’insieme di queste caratteristiche bio-ecologiche conferisce a questo tratto costiero, peraltro poco antropizzato e dalle scogliere scoscese, una valenza naturalistica raramente riscontrabile in altri siti mediterranei. Nella prima legge istitutiva di Aree marine protette (Amp) in Italia (la 979) era compreso anche questo tratto di costa (Grotte Zinzulusa Romanelli) ma, per problemi contingenti, l’Amp non venne istituita».
Non va dimenticato il discorso turismo e quindi le ricadute economiche decisamente negative in caso di incidente che vadano oltre le perdite fisiologiche. Infatti, al punto 3, Boero osserva: «Se le perdite fisiologiche sono già intollerabili per le comunità e gli ambienti direttamente interessati a queste attività, la eventualità di un incidente in fase estrattiva, tipo quello avvenuto recentemente in Florida, o in fase di trasporto, come avvenuto in molti altri casi, avrebbe conseguenze che vanno ben oltre gli impatti su realtà ecologiche locali. Per comprendere l’importanza di questo rischio è opportuno illustrare il ruolo chiave di questo tratto di mare nel quadro generale della circolazione nell’intero bacino Mediterraneo.
Foto di Alberto Gennari
«La corrente di Gibilterra porta acqua atlantica nel bacino (freccia arancione) con un flusso superficiale. Una volta raggiunta la parte più orientale del bacino, avendo attraversato il canale di Sicilia, la corrente torna indietro a circa 500 m di profondità (corrente intermedia levantina: freccia azzurra in uscita). In questo modo l’acqua del Mediterraneo viene rinnovata nei primi 500 m. In assenza di altre correnti importanti, l’acqua al di sotto dei 500 m, non essendo ricambiata, andrebbe incontro a fenomeni di anossia (carenza di ossigeno) dovuti alla presenza di animali (che consumano ossigeno) e all’assenza di vegetali (che producono ossigeno). Tale eventualità sarebbe fatale per la vita al di sotto dei 500 m di profondità. Il rinnovamento delle acque profonde del Mediterraneo avviene grazie ai “motori freddi”. Nel Golfo del Leone (per il Mediterraneo occidentale) e nel Nord Adriatico (per il Mediterraneo orientale) i venti freddi causano aumenti di salinità e diminuzioni di temperatura. Questo porta alla formazione di acque dense superficiali, ricche di ossigeno, che tendono a fluire verso le parti più profonde del bacino, portandovi ossigeno e spingendo verso l’alto le acque profonde povere di ossigeno, in modo che possano ri-ossigenarsi. L’acqua del Nord Adriatico fluisce lungo le coste italiane, esce dall’Adriatico attraverso il Canale d’Otranto e si approfonda nello Jonio, raggiungendo le massime profondità del bacino (oltre i 5000 m nella fossa del Peloponneso). Il Nord Egeo è un altro sito di formazione di acque profonde nel bacino orientale, ma di importanza minore.
«I coralli bianchi ionici, e quelli recentemente trovati anche nel basso Adriatico, possono prosperare grazie a questo flusso di acqua, ricco di ossigeno e di nutrienti.
«Le trivellazioni – conclude il prof. Boero -sono previste proprio nella zona interessata dal fenomeno di sprofondamento delle acque dense Nord Adriatiche nelle profondità dello Ionio. Un incidente petrolifero porterebbe il petrolio nelle massime profondità del bacino, causando un disastro ambientale non più a scala regionale ma a scala dell’intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali incalcolabili».