Greenpeace e il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative italiane chiedono una moratoria per tutte le attività estrattive nei nostri mari e una profonda revisione delle politiche energetiche nazionali, nel rispetto degli impegni presi dall’Italia per contrastare i cambiamenti climatici
Un manifesto congiunto per esprimere assoluta contrarietà alla strategia «fossile» portata avanti dal governo Renzi, che mette in forte pericolo l’integrità degli ecosistemi marini e l’intero comparto della pesca. È quanto hanno presentato oggi Greenpeace e il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative italiane, insieme in difesa dei nostri mari.
I dati parlano chiaro. A fronte dei quantitativi risibili di petrolio e gas presenti sotto i nostri fondali (che equivalgono solo a pochi mesi di consumi nazionali) e delle royalty più basse d’Europa, il settore della pesca potrebbe subire una pesante contrazione, con una riduzione potenziale delle catture di numerose specie ittiche commerciali fino al 70 per cento. Tecniche come gli air gun, inoltre, possono causare danni diretti o indiretti a specie marine come cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei.
«Le politiche di gestione della pesca professionale sono sempre più indirizzate verso la sostenibilità dello sforzo di pesca. È inutile dar vita al fermo di pesca, ai piani di gestione per consentire un corretto prelievo delle risorse ittiche, se poi si autorizzano interventi in mare che rischiano di danneggiare pesantemente la fauna marina e con questa l’attività delle imprese della filiera», afferma il Coordinamento Pesca dell’Alleanza, nel sottolineare che i pescatori sono sempre più chiamati a farsi carico in prima persona dei costi legati ad una riduzione dello sforzo di pesca. «Questo può essere, però, vanificato se non vengono tutti chiamati ad un maggiore senso di responsabilità».
Nel mirino dei petrolieri ci sono alcune delle aree marine di maggior pregio del nostro Mediterraneo. Recenti decreti autorizzativi hanno spalancato agli air gun e alle trivelle le porte dell’Adriatico, dello Ionio e del Canale di Sicilia. Intanto richieste di ricerca di idrocarburi interessano anche i mari della Sardegna.
«Un gioco che non vale assolutamente la candela, se pensiamo che nel solo bacino Adriatico la produzione ittica si attesta intorno ai 300 milioni di euro l’anno, offrendo lavoro a circa 10mila persone, alle quali si aggiungono gli addetti del settore dell’acquacoltura e della mitilicoltura – spiega Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia -. La sola pesca in Adriatico ha un valore, escluso l’indotto, pari all’intero gettito delle royalty che le compagnie petrolifere hanno pagato nel 2015 in Italia, sia per le estrazioni onshore sia offshore, di gas e petrolio».
Dunque, secondo le organizzazioni, i danni che la strategia «fossile» del governo potrebbe arrecare al settore ittico rappresentano una minaccia insostenibile per un settore già in crisi. Impatti negativi che nessun risarcimento economico potrebbe compensare.
Greenpeace e il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative italiane chiedono una moratoria per tutte le attività estrattive nei nostri mari e una profonda revisione delle politiche energetiche nazionali, nel rispetto degli impegni presi dall’Italia per contrastare i cambiamenti climatici. Un altolà alle trivelle si giustifica anche nell’interesse reale del Paese, che può e deve puntare su altre fonti energetiche (rinnovabili ed efficienza) e preservare e valorizzare il mare come asset strategico per la sua economia.
Il manifesto contro le trivelle offshore nei mari italiani
Il report di Greenpeace «Bombardamento a tappeto»