Ma la tecnologia viene usata per fare molto di più che predisporre un mondo unico di mercati e sottomettere le nostre volontà all’assoluto dell’economia dei consumi e dei profitti. I processi deterministici, che caratterizzano le sue applicazioni, inducono, infatti, anche una passività percettiva, un’istintiva riduzione delle attività mentali di analisi delle situazioni e una fatale adesione agli enunciati di senso comune, suggeriti da logiche preordinate (per esempio, quelle a noi trasmesse dall’uso cosiddetto «friendly» offerto dai prodotti tecnologici).
Oggi, la pratica dei consumi, ha semplificato l’impegno richiesto per comprendere le loro prestazioni: non si leggono più le istruzioni allegate ai cellulari, ai televisori, ai registratori, ai robot da cucina. Tutti funzionano secondo un senso comune connesso solo al loro utilizzo: attivazione, scelta fra i contenuti disponibili, verifica delle proprie attese (rispetto alle prestazioni offerte), eventuale cambio di applicazione o di canale, scelta, fruizione del servizio… sono tutti termini di un linguaggio di senso comune universale che finisce con l’essere usato anche nella routine della nostra vita quotidiana.
Così anche i nostri comportamenti, i nostri ragionamenti sulle cose e sui contenuti dei nostri pensieri, finiscono con l’essere espressi con il linguaggio praticato con l’uso dei prodotti tecnologici. Una relazione, un problema da affrontare, una scelta di vita anche fondamentale trovano soluzioni in implicite istruzioni offerte dalle applicazioni di tecnologie nell’ambito della comunicazione interpersonale (per esempio, quelle formali presenti nei blog o nei messaggi di tweeter o su facebook o nei forum o su google plus, tutti sostenuti da linguaggi convenzionali e da contenuti che appaiono ovvi, appunto di senso comune.
Chi non fosse ancora ben addestrato a seguire il senso comune delle cose, viene spesso invitato non ad una lettura delle istruzioni, ma a consultare siti web che riportano le domande più frequenti (Faq). Se non c’è risposta o se questa è incomprensibile, chi le consulta è indotto a ridimensionare la rilevanza delle proprie domande che, pur se essenziali, possono apparire inopportune o inutili (in quel contesto, cioè nell’economia del sapere secondo il senso comune delle cose).
Anche quando si fanno acquisti, una buona padronanza del senso comune, non induce a verificare la necessità di un prodotto o di un servizio, ma ad approfittare della loro disponibilità, di un’eventuale «convenienza» offerta, pur se rimane indefinita la loro destinazione. Gran parte degli acquisti, infatti, riguardano prodotti che «potrebbero servire», ma che, spesso, rimangono inutilizzati (fino a superare la data di scadenza e a terminare la loro vita nei rifiuti) e che, quindi, sono causa di un ingiustificabile spreco di risorse.
Siamo indotti a immaginare che la tecnologia, riducendo ogni fenomeno nell’ambito di ben specifici processi deterministici, possa risolvere la complessità, che a noi appare ingovernabile, degli equilibri vitali fino a permettere, come obiettivo ultimo, un potere totale dell’uomo sulla Natura. In realtà la tecnologia, non avendo capacità autonome, per accedere automaticamente alle dimensioni del virtuoso sistema naturale (tantomeno di sintonizzarsi con la complessità dei suoi equilibri ed esserne coinvolta), rimane estranea e non gode delle relazioni fra le diversità e le alternative essenziali che danno tenuta alla vitalità dinamica del nostro pianeta. Senza relazioni, in un sistema complesso, non si possono gestire, infatti, le risorse necessarie per la collaborazione con l’ambiente naturale e per la sua manutenzione.
Senza relazioni non si possono neanche creare occasioni di sinergie, fondamentali per attivare quella ricerca del senso umano delle cose che permette di scegliere e prendere decisioni per perseguire mete di progresso umano. Per esempio, avremmo notevoli difficoltà a dare un senso alla vita, se non avessimo l’opportunità di integrare e potenziare le nostre conoscenze, le abilità operative (anche solo per la nostra stessa sopravvivenza), con le indicazioni che possiamo trarre osservando e interpretando gli equilibri naturali: agricoltura, costruzione di manufatti, capacità di previsione e orientamento, sono risultati di sinergie.
La Natura è tutta una realtà in divenire, che non crea «mode», ma favorisce collaborazioni per generare scenari vitali (che non sono quelli meccanici della competizione per vincere sui mercati e fare profitti). La Natura non spreca risorse e non genera rifiuti perché ogni cosa, alla fine, rientra in un proprio ciclo vitale iterativo e, anzi, è elemento fondamentale di una fertile continuità creativa.
L’uomo dei nostri giorni sembra essere stato messo, invece, solo in un’attesa continua e senza fine di tutte le novità, che la tecnologia è obbligata a produrre per il mercato dei consumi, quasi a voler preordinare, come progresso umano, una dipendenza dell’uomo dall’idea di innovazione e da ciò che, di materiale, ne deriva.
Pronti a valutarne la miniaturizzazione, le meraviglie estetiche, la facilità d’uso, la potenza di elaborazione, la velocità di trasmissione dati, l’immediatezza nel riconoscimento ed esercizio dei comandi, la quantità e il tipo di contorsioni delle «app» disponibili, siamo impegnati nell’oneroso acquisto di cose tecnologiche da consumare e nella beneficenza delle nostre caritatevoli e gratuite invenzioni e pratiche d’uso. Fra la meraviglia, dei meno introdotti o meno appassionati alle tecnologie di moda, offerte dal mercato, simuliamo situazioni divertenti o drammatiche con le quali, le cose tecnologiche messe in mostra, provvedono a nostri inventati e improbabili bisogni vitali umani.