Per l’uomo il senso dell’esistere non può esaurirsi solo nel procreare e operare per dare vitalità ad un contesto fisico della Terra finalizzato, poi, a diventare palestra di poteri e di profitti. È paradossale che, ancora oggi e in nome della libertà (sostanzialmente quella di alcuni che l’hanno tolta a tutti gli altri), il mondo sia governato da un’élite di prepotenti che fanno leva su deviate pratiche economico-finanziarie e sul minaccioso potenziamento tecnologico del loro potere, per imporre un regime feudale (quello di fatto promosso dalle ideologie liberiste).
Vi sono potentati economico-finanziari (sostenuti da rinnovate ideologie positiviste) e centri di ricerca (asserviti allo sviluppo delle tecnologie e sostenuti da finanziamenti statali, per applicazioni ai «sistemi di difesa»), ma soprattutto imposti dalle «lobby dei profitti» che vantano un inverosimile, asimmetrico e assoluto diritto di sottomettere le popolazioni del mondo ai propri interessi, direttamente (con obblighi di legge ad hoc) o indirettamente (condizionando dall’esterno, per esempio con le leve finanziarie, la sopravvivenza economica di una nazione).
Ogni uomo, avendo una stessa natura e una stessa capacità riflessiva sul sé, personale e dei propri simili, ha energie sufficienti per far emergere le qualità, del proprio modo di essere, superando comportamenti istintivi e impegnandosi in un’intelligente condivisione sociale, degli ambienti e delle regole di vita, per la creazione di percorsi di progresso umano. L’uomo, cioè, ha tutte le risorse necessarie sia per non tradire la propria e specifica missione (come partecipante in sintonia con gli equilibri naturali e come attore consapevole e intenzionale di fronte alle opportunità di realizzare le proprie vocazioni sociali), sia per non accettare di sottomettersi a chi, incapace di interpretare il senso delle cose (per paure o solo per mancanza di controllo sui propri istinti), si lascia condizionare e affliggere dalle proprie e conseguenti turbe mentali, nella vana ricerca di certezze assolute.
L’uomo non può pretendere di operare in un contesto sociale aperto alle proprie attese e, contemporaneamente, venir meno alle regole comuni che sono a garanzia delle libertà di tutti, lui compreso, in quello stesso contesto. Solo in un contesto connotato dall’esercizio di un potere assoluto, può avvenire che, chi lo detiene, decida unilateralmente di depredare risorse di tutti e di sottrarre libertà ad altri, imponendo regole di parte e prospettive di vita non condivise.
Le mete di successo economico, individuale o di gruppo, perseguite sottraendo risorse a tutti gli altri, diventa un gioco a perdere per l’intera società umana. Questa finirà, così, con l’essere privata di opportunità, sinergiche e creative, di condivisione di quelle migliori qualità delle relazioni, che sono segno di progresso umano, mentre il successo, individuale o di gruppo, essendo fine a se stesso e costringendo le società ad avere sempre meno risorse a disposizione, è destinato a rimanere sterile anche se dovesse diffondersi e continuare ad essere replicato altrove, con ulteriori, ma ancora sterili, opportunità economiche o di potere.
Nel cinismo e nell’ipocrisia di voler far passare come progresso umano, il risultato dello sviluppo di prodotti di consumo e non un equilibrio dinamico vitale, c’è tutto il mistificante alibi di chi, per inettitudine o sprovvedutezza, coltiva o si abbandona ad una profonda ignoranza sul senso del vivere. Questo tipo di situazioni porta alla perdita di dignità umana in cambio di concreti ma solo formali successi, di un’avidità e di un’arroganza che altera, consuma e umilia i fenomeni vitali della Terra.
In un’altra dimensione di qualità del proprio essere, l’uomo può, invece, scegliere, attribuire, confrontare e condividere i significati, del proprio modo di operare e delle proprie opere, cercando relazioni con la diversità espressa dai propri simili. L’uomo può creare connessioni fra modi diversi di pensare e di comportarsi, fra le finalità (che guidano le azioni proprie e dei propri simili) e i risultati e le verifiche che possono rispondere, intenzionalmente, alle più profonde vocazioni e aspirazioni umane.
Tutto questo, l’uomo può realizzarlo con le proprie capacità di riflettere, di comunicare, di confrontarsi, di condividere, per creare nuove relazioni e per sinergizzare le diversità delle quali è uno degli artefici. L’uomo è, infatti, naturalmente portato a socializzare, creare relazioni che ricostruiscono, nella propria mente, una visione del mondo e un’interazione originale e specifica della quale è direttamente responsabile e ricompensato fruitore.
Una tecnologia che, invece, annulla o trasforma in finzioni, le prospettive dinamiche del vivere umano, è di fatto uno strumento letale. Un uomo che perde le proprie qualità vitali, pur se respira e risponde ai diversi stimoli meccanici del mondo esterno, vive un’esperienza di tipo vegetativo che non è nulla di troppo diverso da una propria condizione terminale di vita.
Vi sono equilibri complessi, che l’uomo sa riconoscere e con i quali può entrare in sintonia se non si lascia suggestionare da possibili semplificazioni, dalle riduzioni dei fenomeni dinamici in immagini statiche terminali che alcuni pochi nostri simili, ciecamente (in assenza di capacità relazionali, ma organizzati anche in dispotici e liberticidi gruppi di potere), riescono ad imporre a tutti gli altri.
La nostra realtà, così, rischia solo di offrire scenari avvilenti di sopravvivenza dell’uomo che, ancor più, diventano ingiustificabili per la spudoratezza con la quale la libertà (semanticamente vantata da alcuni e diventata attributo di un’ideologia, quella «liberista») viene usata per toglierla a tutti gli altri: in questi tristi scenari la tecnologia, al di là delle mistificazioni che propone, di fatto diventa un’arma impropria per l’esercizio di quella libertà asimmetrica che ha come nome proprio, quello di «prepotenza», un crimine contro la dignità umana.
Secondo il senso comune delle cose, invece, molti sono convinti che questo sia un modo per mettere ordine nel mondo e fare giustizia in nome di una civiltà superiore, già in possesso di verità assolute, che ritiene siano già legittimamente riconosciute e premiate proprio con la disponibilità di una giusta, necessaria, efficiente potenza tecnologica (pur se agisce come una minacciosa e crudele, persecutrice di chi ha solo modi di pensare diversi). Nel pieno delle ipocrisie si assume, cioè, che la prepotenza umana sia un dato di fatto e che ci sia stato un tempo nel quale tutti erano ugualmente liberi di imporla ad altri: quella libertà, dunque, da quel tempo e fino a oggi, esiste in tutta la sua legittimità formale. La libertà è diventata un bene indivisibile perché così è stata strutturata, in un lontano passato, ed è, ancora oggi, l’oggetto di un legittimo e esclusivo possesso feudale.
La vita, in queste condizioni, sembra avvenire, ed essere perciò premiata, come se fosse una successione lineare e inequivocabile di fatti, quasi come se fosse un destino. La vita diventa, così, simile a un sasso inanimato, che per un casuale e impetuoso evento naturale, si trova a rotolare lungo un pendio e che poi viene premiato o condannato, pur senza merito né colpa, per essersi meglio qualificato o per aver meno resistito nella propria posizione, rispetto ad altri sassi rimasti immobili. Ma se per i sassi questo destino è giustificabile (essendo incapaci di riflettere e anche solo di immaginare una qualsiasi scelta), è invece inaccettabile per gli esseri umani (che godono di consapevolezze e intenzionalità per riflettere e assumere responsabilità e decisioni che non siano semplicemente dettate dalle condizioni meccaniche imposte da un contesto).