Nella prima metà del secolo scorso, non c’era ancora una sottomissione diffusa ad un potere assoluto della tecnologia, anche se era stato già imposto, a chi lavorava nelle catene di montaggio, un asservimento alle macchine che non era certo una scelta per vocazione. La tecnologia si è poi trovata, però, a diventare strumento invincibile di un’ideologia (quella del libero mercato dei consumi) che ha potuto, così, imporre sottomissioni diffuse alle proprie volontà assolute con ricatti socio-economici, sempre più efficaci. Un’ideologia che sta trasformando il mondo intero in un mercato del «tutto», disordinato e senza regole, e dove, ancora adesso, proprio lei stessa, può addirittura invocare un ordine per sottomettere il mondo del lavoro alle sue più estreme intenzioni di successo.
Lo sviluppo della tecnologia, nella seconda metà del secolo scorso, ha consentito il passaggio dalle catene di montaggio all’automazione, ma non ha migliorato le condizioni dei lavoratori, anzi, li ha destinati a lavori ripetitivi con ritmi sempre più veloci per una produzione più efficiente e con sempre minore impiego di manodopera. Oggi, il disordine viene intenzionalmente creato da un ambiguo equilibrio, affidato al libero mercato che in cambio di profitti è disposto a vendere tutto (che sia bene o male non fa differenza) e finanche a mercanteggiare le sue osannate regole. Siamo in un libero mercato che, di fatto, è solo un’assurda e distruttiva riduzione ideologica della complessità vitale del nostro mondo. Un libero mercato, che viene protetto dal vergognoso e intoccabile velo di un infida idea di competizione (un regime che sopravvive dissipando ogni tipo di risorsa per poter arrivare, poi, a vantare il successo finale dei suoi monopoli e porre, così, fine alla farsa del libero mercato). Un libero mercato che è, dunque, occupato e che si oppone (in difesa dei suoi presidii monopolistici), con la dissuasione ed oltre, alle pretese di chi volesse immaginare le alternative necessarie per affrontare la complessità del nostro mondo.
Ma questo mercato, ha mostrato di saper fare anche di più. Dopo aver sostenuto e reso possibile la delocalizzazione della produzione (che permette di inseguire il minor costo del lavoro e delle risorse, senza dover rispondere di nulla a nessuno), sta proseguendo con l’atto terminale della globalizzazione dei mercati finanziari. In questo mondo di affari e di regole flessibili (per fare sempre più profitti, cioè per decidere tutto su produzione, mercati e finanza) ha fatto risorgere, strumentalmente e fuori tempo massimo, logore visioni positiviste a sostegno dello sviluppo della scienza e della tecnica.
La tecnologia, usata come strumento armato di quelle antiche idee, è stata così piegata a diventare sostegno concreto in favore dell’ideologia liberista. In realtà, questa è interessata solo a creare un sistema di potere assoluto per agire, attraverso il monopolio dei mercati, come padrone unico (con un diritto feudale di vita e di morte) sull’economia mondiale. Un potere che, oggi, muove i capitali, dei quali dispone, solo per ottenere il massimo profitto, in qualsiasi modo riesca a procurarselo, e per sottomettere il mondo alla propria insaziabile avidità di denaro.
A capo di questo potere non c’è un uomo in particolare, ma quasi uno spirito che anima tutti quelli che finiscono in questo sistema attratti da un desiderio, senza limiti e sostanzialmente infantile, di ricchezza. Un potere, ma anche un sistema di consensi, che lo sostiene e che trova successo in una consapevole inettitudine (assolta e diventata normalità all’ombra del senso comune delle cose) e nella sprovvedutezza indotta e formalmente legittimata dall’invenzione di un’«etica individuale» (una nobilitazione dell’egoismo, che ne è la sconveniente sostanza). Un potere che riesce, così, a far venir meno le peculiarità specifiche dell’uomo: la capacità di condivisione della diversità (essenziale per le letture critiche e la ricerca di alternative per il progresso umano) e l’ingegnosità nel costruire sinergie (senza le quali al nostro esistere vengono sottratti i momenti creativi e il senso del suo divenire, fino a degradare l’unicità vitale, di ogni essere umano, al livello uniforme delle vegetazioni espresse da un orto botanico).
In questo succedere delle cose c’è un degrado che produce uno sviluppo infruttuoso di entropia; un processo che si esaurisce nel provare l’ebbrezza del consumare risorse senza limiti; un entusiasmo verso il «fare» che avvita ogni cosa nei vortici, del meccanismo produzione-lavoro-consumo-profitto, tutti puntati ad un collasso finale.
Sicuramente nelle guerre del passato, e parzialmente fino alla seconda guerra mondiale, non c’era l’assuefazione ai modi distruttivi delle moderne armi tecnologiche che hanno sostituito gli obiettivi militari con obiettivi civili: le forze militari o militarizzate, oggi, fanno le guerre, ma le vittime delle loro guerre sono le popolazioni civili. È difficile, per la loro diffusione, credere che gli omicidi di massa, che così ne seguono, siano frutto di errori ed è ancora più difficile, fra le tante terribili e inconfessabili ipotesi, trovare spiegazioni umanamente comprensibili: fin dalla guerra in Iraq manca un’interpretazione strategica (che non sia quella di un disordine mondiale da creare) a sostegno delle scelte di intervento militare fatte in nome della democrazia (da esportare) e della pace (armata). Dunque, se non è per incapacità e irresponsabilità, politiche, di giudizio e di misura delle conseguenze, verrebbe da pensare che la sperimentazione delle nuove armi tecnologiche e l’attuale disordine, creato in Medio Oriente e nel Nord Africa, sia stato il vero obiettivo degli interventi in Iraq e nei successivi fino a quelli a sostegno delle cosiddette primavere arabe.
Forse, già nel momento dell’azione militare (antecedente quella dell’occidente contro Saddam Hussein) che lo stesso Iraq aveva organizzato per l’occupazione del Kuwait, avremmo dovuto cominciare a separare l’idea di scienza da quella di tecnologia. Non avremmo così attribuito un significato di «progresso», ai successivi interventi aerei (con i sedicenti attacchi chirurgici) e all’uso di armi tecnologicamente avanzate (frutto improbabile di una buona scienza, a sostegno di una libertà e di una giustizia usate per legittimare la necessità di procedere con interventi armati).
Non avremmo dovuto lasciarci abbagliare dalla velocità con la quale avanzava una modernità che, in realtà, era solo un equivoco sviluppo di innovazioni tecnologiche da mettere alla prova, un processo dietro il quale si celava solo un esercizio di misura, sul campo, della potenza distruttiva di nuove applicazioni tecnologiche alle armi da guerre. Avremmo dovuto interrogarci su questa improvvisa voglia di giustizia armata e verificare la congruità fra intenzioni raccontate e obiettivi perseguiti e realizzati con gli strumenti mortali della tecnologia.
La tecnologia opera sia nel campo della produzioni di beni che possono generare nuove mode e creare deviati bisogni (per esempio, consumi civili a perdere, …armi da guerra), sia su servizi che rendono esclusive e preordinate quelle attività (economiche, finanziarie, dell’informazione, della ricerca scientifica più avanzata) che possono diventare di supporto a rendite di vantaggio (anche illegali o in grado di eludere le leggi).
Si sono formati domini economico-finanziari che esercitano il loro potere con le tecnologie per lo spionaggio industriale e politico e con la violazione della privacy anche dei semplici cittadini. Tutto un mondo nel quale il lavoro è stato prima snaturato (da alienanti ritmi e meccanismi solo esecutivi) e, poi, è stato anche negato come espressione di qualità umane (quantomeno, è stato sottratto alla sua funzione essenziale di ricerca e risposta finalizzate a soddisfare i bisogni e le aspirazioni più profonde dell’uomo e a condividere il bene comune delle risorse naturali e dei valori umani).
Oggi, l’articolazione dello sviluppo tecnologico, ha tanto pervaso la nostra realtà di vita che la sua presenza appare addirittura radicata nelle cose e nei fenomeni naturali (la disponibilità di sostituzione, con nuovi prodotti, di oggetti del vestire, dell’abitare, del saziarsi, trovano strumentali analogie, per esempio, nei cambiamenti stagionali dell’ambiente naturale, ma mentre i primi finiscono nelle discariche, i secondi generano e sono effetto di fenomeni vitali iterativi).
Queste mistificanti analogie possono convincere, però, solo se non entriamo nel merito della valutazione dell’essenzialità e indispensabilità di quelle applicazioni tecnologiche che vengono subdolamente vendute come strumenti per il miglioramento della qualità del vivere umano.
Oggi, siamo vittime di una particolare idea di benessere costruita su artificiosi malesseri umani come incertezze, paure, ossessioni, sensi di privazione, desideri di rivalse… dalle quali derivano non patologie fisiche, ma disturbi mentali che poi sono alimentati anche da mancate relazioni umane e da esperienze sottratte alla realtà dei contesti vitali.
In queste condizioni, attraverso la tecnologia, vengono imposti, alle nostre legittime attese di identità (come se fossimo stati lobotomizzati e resi incapaci di riflettere sulle cose), surrogati dell’esistere, meccanici e formali, che privano tutti della ricerca del senso del vivere e di una relazione vitale con il mondo naturale. Siamo continuamente invasi da quantità immense di prodotti di facile consumo, non necessari e che ci affliggono, in molti casi, anche con angosciose scadenze. Prodotti tecnologici e fenomeni naturali, appaiono tutti indistinti e così scontati che l’essenziale per vivere è diventato un tutt’uno con ogni forma di consumo effimero: ogni cosa diventa essenziale e deve essere consumata, solo perché esiste.
Una convinzione questa che vive anche nei pensieri e nella pratica di vita di chi ha conoscenze in tema di entropia e non solo in quella gran parte di cittadini che non ha familiarità con questo concetto. La fine entropica (come conseguenza di una società ad alto consumo di energia e risorse, fino al consumo totale di ogni loro forma disponibile e non rinnovabile), se viene prospettata come esito degli attuali modelli di vita, viene da tutti percepita in modo indefinito e come lontana nel tempo, pur se, almeno la relativa responsabilità, riguarda in modo rilevante il nostro presente.
– Senso comune e senso della vita