La prassi consolidata nel tempo ha sovente opposto all’oggettività del Diritto l’opportunismo costituito in legge che ha proclamato la dinamica Diritto-Legge come prerogativa della costituzione dello stato. Quando il potere si è autodefinito emanazione dello Spirito allora il Diritto e la Legge sono diventati i capisaldi della giustificazione dell’assolutismo: l’autorità discende da Dio, si diceva, e il suo rispetto è sacralità pura del vivere civile.
Perché si riconoscesse jus et debitum, altre teorie hanno affermato la necessità di principi universali e perenni indicando come base del Diritto la natura e rendevano ossequio all’indefettibilità del Diritto Naturale. Così sarebbe stato stimato giusto il potere se avesse emanato, applicato e fatto rispettare le norme definite conformi alla natura. Ma era una sorta di petitio principi perché lo stesso potere definiva come principi naturali quelli che esso stesso aveva catalogato come tali. La soluzione del problema: che cosa è naturale? era solo rimandata.
Con la filosofia si sono intrecciate le religioni e le teologie che si sono assunte il ruolo di interpreti della «natura» e della stessa filosofia per definire la dignità degli uomini, delle donne e dell’agire etico in generale. Ma, in questo campo, sono fioriti anche fondamentalismi e conservatorismi in ossequio alla definizione del valore assoluto della natura perenne.
Il problema sull’estensione della condizione naturale non le ha sfiorate; l’ortodossia ha prevalso sulla ricerca e sulla scoperta affidando le controversie ai tribunali ed agli inquisitori. Per esempio la distinzione tra maschio e femmina, come preambolo della struttura stessa della famiglia come prima cellula sociale, non ha lasciato spazio alla riflessione e alla ricerca sul genere, abbandonando alla sola possibilità lessicale classica del neutro la definizione della diversità dei generi, riservata solo a cose reali ed astratte.
Oggi si discute e si sposta la riflessione verso il Diritto singolare come richiesto dagli individui e dalle loro esistenze. Le Parti Sociali in epoca moderna si sono fatte promotrici di questo riconoscimento, esteso a tutti coloro che costituiscono una classe in base all’identità dei bisogni. Il Diritto sindacale ha preso così il posto di molte latitanze del potere o della vacatio legis a cui i sindacati sopperiscono con la rivendicazione e con la difesa dei contratti di categoria.
Il giuoco non è semplice, gli ambiti non sono facilmente circoscrivibili; la porta è aperta alla visione globale del rispetto delle individualità: una natura i cui orizzonti si fanno sempre più vasti e più lontani dal punto di osservazione che resta micro rispetto all’ampiezza e alla complessità dell’indagine.
Le dinamiche sono complesse perché il dovere non può limitarsi all’obbligazione concepita come comportamento necessario del governato; là dove nasce il diritto del singolo, infatti, si fonda anche il dovere del governatore, di chi amministra la res publica e la giustizia per cui, a prescindere dall’appello del governato e dell’amministrato, il potere costituito, d’ufficio, deve disporsi al riconoscimento e alla difesa dei diritti individuali e all’eventuale sanzione da emanare contro i violatori.
A questo si riduce la fondamentale differenza tra dittatura e democrazia. Per la prima il Diritto risiede tutto nell’istituzione autarchica; per la seconda il diritto è l’unificazione dei diritti individuali che convergono nella fondazione, riconoscimento e affidamento delle parcellizzazioni all’istituzione pubblica, che si ritiene giusta verso tutti e verso ciascuno. Di conseguenza, al reato per «lesa maestà» fa riscontro, in democrazia, quella per «lesa comunità» perché la condivisione e la partecipazione sono regole del vivere comune a garanzia del quale il potere esercita il suo servizio.
Le distinzioni di cui parliamo sono questioni attinenti alla Filosofia del Diritto e della Politica.