Per gli Usa un muro invalicabile. Chi non vuole abbandonare l’energia fossile. L’India la più dura a mollare
Cominciano ad essere pubblicate le prime bozze dell’ipotesi di accordo frutto del lavoro di ministri dell’Ambiente, subentrati ai capi di Stato e di governo che hanno inaugurato la conferenza, con l’aiuto di 7.000 «sherpa» tecnici, nella «zona blu» di Le Bourget, presieduta in massa dalla Polizia.
L’accordo di Parigi (verrà chiamato così) dovrebbe puntare a contenere il riscaldamento globale (temperatura media del pianeta Terra) nel limite di più 2 gradi Celsius rispetto all’era preindustriale, cioè l’inizio 1800.
La presidenza francese della Conferenza, tenuta da Laurent Fabius, insiste che il documento che verrà varato venerdì 11 dicembre dovrà essere «vincolante».
La Conferenza di Durban, nel 2011, aveva dato mandato ai negoziatori di incardinare «un protocollo, uno strumento giuridico, comunque un risultato avente forza di legge», che, dopo l’adozione, dovrebbe essere ratificato dai 195 Paesi firmatari della Convenzione Onu per il clima (Ccnucc).
Non è questione semplice perché in base al tipo di accordo si aprono le possibilità o meno di essere accettato dai vari Stati. Da questo punto di vista il nodo politico è come l’accordo dovrà essere presentato al Senato Usa, la cui maggioranza repubblicana è, diciamola tutta, molto scettica sulle origini anche antropiche dell’effetto serra.
Se quello di Parigi verrà presentato come un «Trattato importante», che pone base ad una nuova legislazione, allora il testo dovrà ottenere obbligatoriamente l’approvazione dei due terzi dei senatori americani. Ecco perché il segretario di Stato Usa, John Kerry, si sbraccia a definire quello di Parigi un semplice accordo e non un trattato: vuole, per bypassare il voto del Senato, che sia classificato come semplice «executive agreement» che approfondisce la legislazione già esistente.
Gli accordi internazionali dal carattere vincolante esigono che gli Stati cedano una parte della loro sovranità: di conseguenza più un accordo è «ambizioso» e «vincolante» meno adesioni di Paesi ottiene. Qui viene fuori il dilemma: proporre un accordo vincolante taglierebbe fuori gli Stati Uniti, secondo emettitore di gas-serra dopo la Cina. Come risolverlo? I giuristi del circo di Parigi si stanno scervellando in proposito. Il negoziatore americano, Todd Stern, ha parlato di «contratto ibrido» o di «accordo parzialmente vincolante». Sarebbero proposti dei «vincoli a geometria variabile».
Le clausole vincolanti a priori sarebbero quelle relative alla trasparenza dei registri d’emissione dei gas-serra e a tutto ciò che dovrebbe misurare e verificare gli obiettivi che gli Stati si daranno per ridurre la CO2; non riguarderebbero in sostanza gli obiettivi stessi di riduzione, che andrebbero sotto lo statuto di impegni volontari. Non si adotterebbe insomma il «modello Kyoto» del 1997 che, appunto, gli Usa non vollero ratificare. E che, a conti fatti, non ebbe un grande successo.
Nella bozza attualmente in discussione, per quello che se ne sa, per certe proposizioni c’è la scelta tra il termine «shall» (si deve), o «should» (si dovrebbe), o «is invited to» (si è invitati a), che designano vari livelli di impegno. Pare che nella versione provvisoria sul tavolo gli «shall» si stiano moltiplicando. (Questo servirebbe a far cantare vittoria agli ambientalisti).
Diamo per assodato che passi un testo «ambizioso», ci sarebbe poi il problema della sua applicazione. Come dovrà essere recepito il trattato nelle legislazioni nazionali? Ci sarà un comitato internazionale per la sua gestione? Ci saranno meccanismi di controllo? e sanzioni effettive?
Ma non tira affatto aria di ambizioni eccessive stando alle dichiarazioni francesi che già mettono le mani avanti su quello che uscirà come prodotto finale. A cui si sta lavorando, da parte dei negoziatori, con ben quattro tavoli tematici: il finanziamento, la differenziazione, l’ambizione e le azioni pre 2020.
In ognuno di questi gruppi di lavoro dovrà essere tentato l’avvicinamento di divergenze notevoli. Il finanziamento del Nord al Sud del mondo (si è parlato di 100 miliardi di dollari all’anno) dovrà essere definito in termini di obbligo legale o di contribuzione volontaria?
L’obiettivo stesso del tetto dei 2 gradi di aumento è in discussione: c’è chi, come l’Australia e il Canada, sostiene gli 1,5 gradi rivendicati dai piccoli Paesi insulari minacciati dall’innalzamento dei mari. Ma, ammesso e non concesso che gli 1,5 gradi passino, avremmo con ciò risolto quello che Hermann Sheer, lo scomparso presidente di Eurosolar, ha definito «minimalismo organizzato alla base del circo delle Conferenze sul clima»?
Non è un problema sicuramente che si pongono le Ong che di questo circo sono parte integrante, presenti a Le Bourget con ben 10.000 osservatori. La sigla che più le rappresenta è il Climate Action Nework (Can), che raggruppa 950 associazioni di livello mondiale.
Il Can, ben addentro alle logiche mediatiche correnti, si fa notare per l’attribuzione, ogni giorno, di un «Premio Fossile», che assegna di volta in volta ai Paesi che giudica più frenanti rispetto ad un «buon accordo».
La lobby del Can ha anche organizzato, ad inizio conferenza, una Festa presso il Players, un bar del 2° arrondissement, a cui hanno partecipato un migliaio dei delegati ufficiali presenti a Le Bourget.
Ogni inizio giornata il Can tiene la sua riunione di coordinamento individuando le priorità di intervento e distribuendo i compiti di contatto ai gruppi membri che lavorano in modo indefesso con modalità manageriali.
A me viene in mente il nostro detto: «Can che abbaia non morde». Infatti questi amici corrono, si affannano, smanettano sui loro PC negli spazi ufficiali che l’Onu ha loro riservato… e pensare che tutto questo potrebbe essere per niente, dato che sovente capita che si usino le gambe al posto del cervello che latita.
Riflettiamo sul migliore accordo che potrebbe venire fuori dentro l’attuale impostazione: quote obbligatorie assegnate agli Stati per stare negli 1,5 gradi di aumento, 100 miliardi ai Paesi del Sud con contribuzioni obbligatorie, sistema del commercio delle emissioni ben regolato, verifica quinquennale su parametri correttamente focalizzati, etc.
Siamo sicuri che avremmo con tutto ciò salvato il clima che serve ad una dignitosa esistenza umana per i nostri posteri?
Stando a quello che afferma la comunità scientifica (nella sua maggioranza, con distinzione tra i climatologi e i fisici) c’è da dubitarne. Ed in ogni caso avremmo ritardato quella che è la presa di coscienza radicale da acquisire: non possiamo più permetterci di prorogare (sia pure transitoriamente) il «sistema fossile» che è garanzia non di crescita ma di catastrofe globale.
Crediamo che a sopravvivere sia l’economia sia l’equilibrio sociale degli Usa (non stiamo parlando della Nuova Guinea!) se gli uragani come Katrina, invece di verificarsi annualmente, assumessero un ritmo mensile? E per le zone costiere sommerse dai mari potremmo parlare di «crescita»?
Sì, regaliamo pure 100 miliardi ai Pvs mentre nel frattempo (e continuiamo così) ogni anno il pubblico sovvenziona con 500 miliardi di dollari l’economia fossile (di questo nessuno parla per i testi ufficiali di Parigi)!
Dovremmo fare un ragionamento analogo a quello da compiere sul nucleare: la deterrenza non è una polizza di sopravvivenza, ma la garanzia dell’Apocalisse, la certezza che prima o poi una guerra nucleare scoppierà.
Non serve una «transizione» che proroghi l’attuale sistema (con i suoi assetti di potere ed i suoi pessimi vizi), ma la «rivoluzione» del disarmo subito: è questa la ragionevolezza, non muoversi con piccoli passi non sapendo bene dove andare, ma imboccare subito la direzione contraria al precipizio verso cui lo spirito del gregge ci sta precipitando.