Non possiamo, dunque, dare per scontata una corretta comprensione (da parte degli attori di queste conferenze) degli allarmi economici e ambientali che pur si presentano, oggi, in tutta la loro evidenza. Sembra continuare a mancare, ancora, una lucida lettura di quanto incidano, sugli equilibri ambientali, le conseguenze del potere assoluto acquisito dall’attuale finanziarizzazione del sistema economico globale. Con il suo dominio, su ogni cosa del nostro mondo, non solo è stata indotta una nostra dipendenza patologica dai consumi compulsivi, ma sono state anche prese in ostaggio le nostre capacità creative, il nostro lavoro, i nostri misurati risparmi, il nostro senso del vivere.
Siamo stati privati, infatti, dell’interesse e del tempo per esplorare relazioni, per strutturare conoscenze, per interrogarci, con verifiche continue sulle nostre consapevolezze e condivise responsabilità sociali. Tutte cose, queste, che non solo non trovano spazio nella produzione, possesso e consumo di cose superflue, ma che, se restano indisponibili, ci rendono impreparati e disarmati ad affrontare un possibile disastro globale.
Oggi, sembra proprio di essere di fronte a un destino da subire perché siamo in un mondo, solo puntato a uno sviluppo tecnologico autoreferente, che ha espropriato l’uomo degli strumenti per entrare in sintonia con i fenomeni complessi degli equilibri naturali. Ci affanniamo inutilmente sulle tecnologie da applicare per porre rimedio ai danni che le stesse tecnologie hanno prodotto. Anche i rimedi (ai danni derivanti dall’incontenibile avidità di un profitto immaginato come una variabile indipendente, priva di qualsiasi vincolo) pretendono di continuare, in questo stato di emergenza, a produrre irriducibili profitti, perché altrimenti «non se ne fa niente», come alcuni fanno, minacciosamente e cinicamente, intendere.
Articoli e trasmissioni radiotelevisive, sorvolando sulle devianti logiche che portano a considerare «dovute» le opportunità di profitto (anche se sono le stesse logiche che hanno creato danni profondi al bene comune Terra), spacciano per buone soluzioni tecnologiche, anche avanzate, ma di dubbia efficacia e spesso causa di ulteriori danni. Eppure, non possiamo sostenere di non accorgerci che queste soluzioni possono superare solo formalmente e momento per momento, le complicazioni (create da un saccheggio e spreco di risorse) e che, invece, è molto improbabile che possano affrontare relazioni essenziali e trovare sinergie necessarie per entrare in sintonia con la complessità degli equilibri naturali e, quindi, anche per affrontare i problemi ambientali a cominciare dalla loro radice.
Dunque, le attività che procurano danni agli equilibri ambientali, non sono solo quelle legate agli interessi forti di chi opera con strumenti e strutture nei settori della trasformazione e uso dei combustibili fossili e di altre materie prime, ma anche di chi produce e vende tecnologie (magari anche solo con propositi fantasiosi, di mitigazione degli impatti e senza vantaggiose innovazioni).
C’è chi vorrebbe inondare l’atmosfera con polvere riflettente per far diminuire la radiazione solare sul sistema Terra. C’è chi vorrebbe tecnologie più avanzate per la prevenzione e per la cura delle malattie da inquinamento (più che dei mali sembra, così, che ci sia chi si preoccupa dei profitti da realizzare con costosi rimedi, da mettere in vendita, e più che del benessere delle persone, sembra che ci sia chi si preoccupa solo di allungare la vita dei consumatori).
C’è chi vorrebbe un piano di appalti più che un progetto di messa in sicurezza del dissesto idrogeologico, c’è chi vorrebbe creare fabbriche non inquinanti nelle cellule di microrganismi Ogm per produrre materiali plastici e carburanti. C’è chi vorrebbe risolvere ogni forma di mobilità trasformando la vita in un’esperienza virtuale; dove però si possa continuare a consumare, a fare profitti e ad alternare connessioni in rete per lavoro, per acquisti e per l’intrattenimento pubblicitario a ciclo continuo. C’è anche chi vorrebbe educare alla «libera» dipendenza dal mercato e dalla rete delle sue cose.
C’è chi minimizza e fa notare che non siamo al punto di ebollizione e, dunque, che possiamo continuare ad andare avanti ancora per un bel po’. C’è chi (ricordando l’avvicendarsi delle variazioni climatiche nelle diverse Ere geologiche), nega che l’innalzamento della temperatura stia avvenendo ad opera dell’uomo, mostrando, così, di essere anche incapace di spiegare perché la temperatura cresce a ritmi maggiori proprio in corrispondenza delle zone a più elevato consumo di risorse (gli aumenti di temperatura sono particolarmente evidenti nel nord America, in Asia e in Europa, ma non in Africa e sud America).
C’è chi, aspirando a uno sviluppo da «grande della Terra», ritiene doveroso offrire un proprio significativo contributo al degrado globale. C’è una coscienza civile e politica che preme e chiede alternative, ma c’è subito l’economia dei liberi mercati che (forse senza neanche rendersi conto di accusarsi implicitamente di aver dato, finora, sostegno a una black economy) ha colto al volo l’opportunità di mettersi in linea e fare profitti, anche con le attese di alternative, cavalcando e forse inventando un proprio concetto di green economy sostenibile. Alternative decise, forse, anche per non rischiare un cambiamento, non in linea con il libero mercato, che avrebbe potuto mettere in crisi il libero profitto.
Ci sono, poi, anche simpatici ottimisti che vorrebbero rassicurarci con alcune loro tremende prospettive. Quelle per esempio di un uomo che, in realtà, non sta distruggendo il pianeta, ma sta creando (immaginando di poter generare eventi epocali) le condizioni per una nuova e più gloriosa Era. Si fa riferimento al passaggio dall’Olocene a un ipotetico Antropocene, frutto delle potenti modifiche, del clima e dell’ambiente, causate dalle attività antropiche, a partire dalla prima rivoluzione industriale (Antropocene è una definizione usata, in particolare dal premio Nobel P.J. Crutzen in una pubblicazione nella quale, però, richiama le responsabilità umane connesse alla creazione e gestione di questa eventuale nuova Era).
Le attese entusiastiche per questa nuova Era sono ispirate da un’idea di sviluppo che dovrebbe generare un nuovo mondo e portare a un nuovo, efficiente e rassicurante ordine delle cose. Si immagina che tutto questo possa avvenire ad opera dell’uomo e che permetta di esprimere con più potenza la sua capacità di condizionare, a proprio favore, gli equilibri naturali con l’uso di tecnologie sempre più avanzate. Ma il nostro mondo non è una semplice scacchiera sul cui piano è sufficiente spostare le pedine in modo lineare per ottenere un cambiamento e tantomeno per renderlo virtuoso.
In realtà, la complessità degli equilibri naturali, non solo non è riducibile, ai livelli delle nostre capacità di comprenderla e di gestirla, ma anche il solo suo scenario non può essere semplificato: sono necessari, infatti, ben altri supporti già solo per sostenere un suo maggior numero di dimensioni e una sua maggiore articolazione geometrica.
Sulle dinamiche degli equilibri naturali, c’è il rischio di continuare a fare alienanti scommesse e giochi pericolosi come è dimostrato, già oggi, dall’impotenza dell’uomo nel cercare, anche solo, rimedi agli effetti del cambiamento. I partecipanti alla Cop21 erano senz’altro motivati a promuovere almeno rimedi. Tutti si sentivano sicuramente coinvolti, in questa direzione, dalle allarmanti responsabilità di tenere sotto controllo le attività che contribuiscono all’aumento della temperatura del nostro pianeta. Ma la popolazione civile, più attenta e consapevole, dopo estenuanti attese e delusioni, potrebbe, ora, essere vinta dalla disperazione del nulla di fatto e accettare ciò che avviene come un destino.
Il problema è, allora, da considerare anche nella prospettiva che, se si dovesse confermare nel tempo la deriva dell’impotenza degli accordi (e non solo sul clima) e se la popolazione dovesse essere messa di fronte ad una continua attesa tradita di rimedi, potrebbe venir meno non solo la sua partecipazione, ma anche, nel momento delle decisioni, l’impegno dei responsabili non più incalzati da un’opinione pubblica critica.
Una prospettiva che offrirebbe un buon alibi per poter ancora rimandare le soluzioni concrete. Infatti, nei tempi brevi (se le scadenze dei rimedi sono lontane) tutti possono limitarsi ai soli e tradizionali buoni propositi che lasciano il tempo che trovano. Un rischio, questo, che si può, invece, evitare rispettando le scadenze delle verifiche e delle eventuali revisioni a breve termine e dei risultati intermedi previsti dalle misure di contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta.
Sui miracoli umani non c’è da fare affidamento e dunque oggi, di fatto, se non interveniamo con misure efficaci, realizzate in tempi ordinari, finiremo con il rimandare gli interventi e con il procedere sempre più velocemente verso un punto di non ritorno. Anche se si è capito quanto sia fondamentale mettersi d’accordo sulle strategie, se viene meno il senso di ciò che, poi, concretamente si deve decidere di fare, alla fine, ciecamente, prevarranno gli interessi economici del mercato dei consumi. In questo caso è come se (in riferimento a quell’esperienza formativa precedentemente riportata) tutti lasciassero la presa di quella corda (cioè di quei vincoli essenziali per mantenere l’equilibrio), lasciando così che tutto il sistema vada verso il collasso finale.
– In questo stato delle cose, che fare e con quali motivazioni