Oggi possiamo sperare in qualche pur minimo cambiamento anche se può essere solo effetto della paura di una distruzione imminente anche dell’economia del libero mercato dei consumi. In effetti, sembra essere presente più la preoccupazione di non riuscire a porre rimedi alle condizioni critiche dell’esistente, che la consapevole responsabilità di dover affrontare la sfida epocale per una nuova economia. Sembra, però, aver acquisito un proprio valore, almeno nella condivisione, a livello globale, della necessità di contenere l’innalzamento della temperatura del pianeta (almeno entro due gradi fino al 2100, rispetto alla temperatura del 1850, prima dell’inizio dell’Era industriale).
Questo, però, non è ancora un modo concreto ed efficace per affrontare, oggi, il problema climatico che ha le sue radici nel modello economico della crescita del mercato libero dei consumi. Il problema degli equilibri vitali, messi in crisi dalle pesanti ricadute delle attività antropiche sull’ambiente, non può essere ridotto al solo controllo dei sintomi: in questo caso l’aumento della temperatura non è il fenomeno sul quale intervenire (per esempio, con improbabili misure di raffreddamento dell’aria o di deviazione dei raggi solari dai percorsi che la attraversano e che raggiungono il suolo).
È necessario, cioè, intervenire sulla fonte che attiva i meccanismi dell’effetto serra, è necessario intervenire sulla convinzione che «il fare e il consumare» non sono variabili, sostanzialmente indipendenti, che non incidono sugli equilibri vitali. Dunque, va cambiato, pur se in modo non traumatico, l’attuale modello economico che sostiene questa convinzione (o che comunque la pratica). Non si può immaginare di risolvere la deriva climatica facendo trattenere il respiro (non si sa per quanto tempo) a una struttura produttivo-consumistica che non pensa in modo alternativo, ma nei cambiamenti cerca ciecamente solo di migliorare le proprie posizioni di rendita e sfruttamento dell’esistente.
L’ostacolo al cambiamento dell’economia, risiede, in sostanza, nel fatto che, per l’attuale modello neoliberista, le crisi ambientali non sono considerate momenti per ripensare il ruolo socio-economico dei mercati, ma continuano a essere «provvidenziali» occasioni per stimolare la competizione, occasioni uniche per arrivare primi sulle nuove opportunità offerte dai mercati dei consumi!
Nelle conferenze su questo tema non sono proposti obiettivi di ridimensionamento della produzione e del consumo di massa di beni superflui (che sono causa della deriva climatica), ma c’è solo un impegno per una migliore gestione delle risorse, ancora comunque finalizzate, ai consumi e ai profitti. Sono queste le condizioni, purtroppo, ancora pretese da un sistema che non è disposto a perdere i profitti del libero mercato (sostenuto dalle forti convinzioni ideologiche di un salvifico neoliberismo) e che è disposto solo a cambiare i modi che consentano, comunque, di continuare a sfruttare, nell’immediato e anche con maggior vantaggio, tutto l’esistente. Rimane immutabile la sua convinzione che non vi sono alternative al mercato dei consumi: potranno cambiare solo qualità e tipologia delle merci, la loro distribuzione, ma sempre nella prospettiva di continuare sulla strada dei ritorni economico-finanziari che garantiscano un’indiscutibile crescita dei profitti.
Archiviata, almeno in questo momento, ogni speranza di progresso umano, anche la crescita del benessere materiale non segnerà passi in avanti. Il benessere potrà essere solo quello meccanicamente preordinato dalla compatibilità fra le risorse del bene comune, rimaste ancora disponibili, e la dimensione della platea di chi ha bisogni essenziali da soddisfare per sopravvivere (non è prevista, cioè, né una ridistribuzione, né un uso sostenibile delle ricchezze della Terra).
Le giustificazioni di senso comune, anche qui, mostrano la loro deviata potenza mistificatrice nell’affermare che: chi «più ha meritato» di avere e non è giusto che debba ridimensionare le proprie ricchezze in favore di chi «non ha saputo meritarle». La realtà, dunque, almeno nel breve termine, continuerà a dividersi nei pochi che avranno sempre più potere e ricchezze da una parte e dall’altra tutti gli altri che avranno sempre più difficoltà a soddisfare i bisogni essenziali e che, pur se non gratificati dal benessere di un alienante potere di consumo, non potranno far valere il loro dissenso neanche se volessero ricorrere a una loro disperata scelta, che sarebbe del tutto impotente, di opposizione estrema e violenta.
Qualsiasi forma di violenza si volesse usare, infatti, non solo non avrebbe armi per vincere, ma soprattutto farebbe venir meno quei momenti di riflessione, di condivisione delle diversità, di sintonia con gli equilibri ambientali, di creazione di sinergie che sono elementi unici, fondanti e insostituibili per un cambiamento che non sia solo di potere, ma che dia qualità alle relazioni umane e impegni a trovare il senso delle cose prima di passare a realizzarle.
Verrebbe quasi spontaneo chiederci, di fronte a questi scenari, che cosa ci trattenga, non da una rivoluzione, ma dal dare un consapevole passo diverso al nostro cammino. Un passo che non proceda solo in una direzione diversa, ma che sia momento vitale di un percorso costruttivo (consapevole, iterativo e condiviso) di prove, verifiche, valutazioni, revisioni, e quindi di nuovo di prove, verifiche, ecc. Un percorso così come sentiamo di volerlo seguire scambiando patrimoni di esperienze di vita e di conoscenze, necessari per essere attori responsabili delle scelte e delle decisioni e non per disporci irresponsabilmente a diventare oggetti di prepotenti scelte di altri.
C’è da sviluppare cioè la convenienza umana non nell’inseguire un successo quantizzabile in un merito esclusivo (da vendere col maggior profitto possibile), ma nel progredire in una visione del mondo, in una cultura, che trova risorse e senso nella condivisione delle diversità. Una convenienza che non si può trovare nei prodotti oggetto di un possesso o di un profitto fine a se stessi. Una convenienza da trovare, invece, nella scoperta del senso delle cose e delle relazioni, nel valore umano di un equilibrio che si esprime nella realizzazione, consapevole e responsabile, delle nostre aspirazioni più profonde. Una convenienza fatta di pensieri e di opere umane che sono risorse moltiplicabili e che, se condivise, generano sinergie sia a vantaggio di tutti, senza che nessuno perda qualcosa, sia in sintonia con gli equilibri naturali dei quali siamo parte intelligente.