Rinvenuti 10 siti di Vitis vinifera per un totale di 33 ceppi. Se vi è la vite selvatica e se vi sono tanti vitigni autoctoni «come stanno facendo emergere le nostre ricerche», è possibile che anche qui sia avvenuta la domesticazione e la diffusione di vite e vino. Il Paesaggio vegetale del Gargano, si sta rivelando di una complessità unica: in tanti anni di ricerca non ci è ancora possibile tentare una sintesi: è segno che vi è ancora tanto da studiare, cercare, interpretare
Il Gargano non smette di offrirci veri e propri tesori a cui si aggiungono le rarità di origine agronomica che Nello Biscotti, noto conoscitore ed esperto, come un ricercatore settecentesco, paziente e, soprattutto, innamorato della sua terra, ci porge nei suoi studi e lavori accademici.
Il promontorio del Gargano rappresenta un centro mondiale di biodiversità. Si contano circa 2.200 specie botaniche (circa il 35% della flora nazionale). Il faggio cresce anche ad altitudini sorprendentemente basse e qui c’è il cosiddetto «Colosso della Foresta», un faggio dall’altezza di oltre 40 metri e con circonferenza alla base di oltre 5 metri. E non mancano altri alberi plurisecolari: il Cerro di Vico, di 400 anni e una circonferenza di ben 5 metri. Ed ancora due Pini d’Aleppo, di solito crescono nelle zone costiere, ma qui vi sono i più antichi di tutta Italia: lo Zappino dello Scorzone, 700 anni, una circonferenza che supera i 5 metri e mezzo e un’altezza superiore ai 20 metri e l’altro, lo Zappino di don Francesco, più giovane e più piccolo, lo si trova nel territorio di Calenelle.
A questi alberi monumentali vanno aggiunte altre preziosità, come le orchidee selvatiche. Ne sono state censite oltre 80 specie differenti appartenenti a 17 generi, alcune delle quali endemiche o subendemiche.
Ai tesori presenti sul Promontorio pugliese si aggiungono ora 10 siti in cui Nello Biscotti ha trovato 33 ceppi di vite selvatica, Vitis vinifera. Una scoperta straordinaria in ordine all’importanza che riveste la biodiversità nella biosfera e, in particolare, nel Gargano. La scoperta è presentata in una ricerca pubblicata dalla Società botanica. A Biscotti abbiamo rivolto alcune domande.
Dott. Biscotti, come è pervenuto alla scoperta di questi 10 siti dove ha trovato la Vitis vinifera per un totale di 33 ceppi?
Come è normale che sia, alle «scoperte» si arriva sempre per caso: cerchi una cosa e poi ne trovi un’altra. Solo che queste scoperte si fanno camminando, peregrinando per chi si vuole occupare di «cose fisiche», in questo caso di botanica. Camminare oggi lo fanno sempre in pochi, più comode le ricerche nei laboratori con molecole e geni. Noi siamo di quella scuola che vuole studiare la biodiversità come essa si esprime e cioè con forme, colori, adattamenti, comunità, paesaggi; su base genetica questa biodiversità si semplifica molto e allora perde di significato lo stesso concetto di biodiversità sul quale si spendono fiumi di parole, spesso si sparla, ma in pratica non si fa niente. Ma anche questo fa parte delle nostre cose…
Con le nostre «camminate» cerchiamo di capire come si struttura un paesaggio vegetale, che non è una sommatoria di specie come ci appare. Guardando bene ci si accorge che le specie non stanno da sole ma tendono a formare comunità (associazioni), tanti tasselli cioè che insieme, come un mosaico, formano poi il paesaggio. A volte questi tasselli sono gli stessi dalla Lombardia alla Sicilia, altre volte sono unici e diventano nuovi tasselli (nuove associazioni), che aiutano a comprendere sempre più come funziona la natura (paesaggio vegetale). Siamo abituati a sorprenderci di scoperte di nuove specie, meno o per niente di fronte alla scoperta di questi tasselli (comunità di specie vegetali). Ebbene il Gargano oggi non riserva solo scoperte di nuove specie, ma soprattutto di «nuove associazioni». E quello che stiamo cercando di «scoprire».
Un giorno studiando le specie presenti in uno di questi tasselli (lecceta di fondo valle) ti accorgi di un’imponente e lunga liana: «No! È tronco di vite» e allora? «Che vite sarà?». Poi osservando foglie, grappoli, ti convinci che non è vite coltivata? «Inselvatichita allora»! Altre osservazioni, altre camminate. Neanche! E allora non può che essere Vite selvatica (Vitis vinifera subsp. sylvestris). Ti confronti, mandi campioni, e la tua ipotesi è vera. La soddisfazione è tanta.
Sembra quasi un lavoro di archeologia botanica, se si potesse dire… ma che cosa ci racconta questa scoperta?
Ci racconta frammenti che possono aiutare a ricostruire la lunga e difficile storia della vite e del vino, che è stata parallela a quella dell’uomo. L’uva che mangiamo, o di cui facciamo i vini, le distinguiamo come «uve coltivate», cioè nostre creazioni, vere invenzioni tecnologiche, altre che cose naturali. Solo che per fare queste invenzioni siamo partiti, le ricerche, i libri ci dicono 4mila poi con il progredire delle conoscenze 6/7mila anni fa, da un materiale di partenza, altrimenti queste invenzioni non sarebbero state possibili, di qui l’importanza di salvare la biodiversità. Questo materiale di partenza erano popolazioni spontanee di Vitis, che davano piccoli grappoli, ma dolci, cercatissime dagli uccelli. Qualcuno un giorno ha cominciato a riprodurle a coltivarle poi quasi per incanto grappoli sempre più belli ce li siamo trovati sulle tavole dei Fenici, dei Sumeri, poi degli Egiziani e poi dei Greci, Romani e fino ai giorni nostri. È avvenuto in pratica un processo di «domesticazione» come abbiamo fatto con gli animali che poi sono divenuti domestici. Il problema sta nel fatto che ci è venuta la curiosità (interesse scientifico) di risalire alle origini solo quando la vite coltivata si è diffusa in tutto il Mediterraneo; un lavoro non facile perché si è trattato di ricostruire a ritroso il percorso di domesticazione, quello cioè che dalle viti spontanee (poi distinte come viti selvatiche) siamo arrivati a quelle coltivate. Tutto questo è avvenuto anche per mele, pere, ciliegie, ecc. Non è solo curiosità botanica, ma anche archeologica, poiché il problema resta anche da capire come e perché qualcuno ha cominciato a capire che dall’uva si poteva ottenere un vino.
Dove trovare le origini di questa storia? Ove intanto cresce la vite selvatica! I libri ci dicono che questo è avvenuto sui Monti Agros in Turchia, siti ove vi sono ancora oggi diffuse presenze di vite selvatica; poi l’archeologia ha trovato anche otri con residui vinosi e allora facciamo coincidere con queste terre l’origine di Vite e Vino. Siamo nelle mitica mezza luna fertile, insomma, ove facciamo coincidere anche la prima e grande rivoluzione: la nascita dell’agricoltura. La botanica però ci dice che questa vite selvatica cresce un po’ ovunque, dalla Turchia alla Spagna, certamente con minore frequenza. E allora perché solo in Turchia è potuto avvenire la domesticazione della vite selvatica? Chi ci dice che anche altre comunità europee, mediterranee, non abbiamo potuto fare la stessa cosa? In Sardegna qualche anno fa, da Milano, il prof. Attilio Scienza (che conosco e mi ha aiutato nella determinazione dei miei campioni), dimostra che in Sardegna è avvenuto un processo di domesticazione studiando le affinità tra le viti selvatiche di cui la Sardegna è ricca, e i tanti vitigni autoctoni presenti. Dunque è possibile che la domesticazione e lo stesso processo di vinificazione, abbiamo dinamiche policentriche.
Questa stessa relazione potrebbe verificarsi nel Gargano: se vi è la vite selvatica e se vi sono tanti vitigni autoctoni come stanno facendo emergere le nostre ricerche, è possibile anche qui che sia avvenuta la stessa cosa della Sardegna, un’altra conferma della policentricità della diffusione di vite e vino.
Come è possibile che questi siti siano sopravvissuti fino ad ora?
La vite selvatica ha avuto in tempi passati una maggiore diffusione specialmente lungo le fasce costiere, quelle più esposte alle attività antropiche, per cui nel corso del tempo le popolazioni si sono ridotte soprattutto per frammentazione del suo areale; come tante specie è oggi a rischio di estinzione. Già dal 1980 è stata inserita nella lista della specie in via di estinzione dell’Unione internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn, Categoria EN) e dal 2000 è specie rigorosamente protetta in Francia, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera e Italia.
È generalmente legata a presenze d’acqua, per cui la sua diffusione ha seguito fiumi, solchi torrentizi, questo da quanto sappiamo della sua ecologia, ma sono conoscenze ancora frammentarie. Le scoperte sul Gargano, ci dicono altro (la mancanza di corsi d’acqua la dovevano escludere dal Gargano); ci dicono che la vite può essere legata alle stesse faggeta (climi temperati, freddi), dato assolutamente nuovo, poiché leghiamo la sua presenza ad ambienti bioclimatici non temperati. Sappiamo insomma poco sulla stessa presenza in Italia: i siti di rinvenimento si concentrano nell’Italia centrale e sommano un numero veramente esiguo di ceppi (appena 814). In una faggeta del Gargano siamo riusciti ad individuare fino a dieci ceppi, alcuni ultrasecolare. Che sia legata al faggio apre altri capitoli di ricerca. Vite e faggio insieme significano una cosa semplice e che cioè queste due specie hanno avuto nel Gargano sicuramente una stessa storia. Il faggio trova nel Gargano un luogo di «rifugio» durante le glaciazioni; stesse condizioni di rifugio evidentemente avrà trovato la vite selvatica. Per spiegarmi meglio devo darle un’idea della storia molto affascinante della vite selvatica. Inizialmente era ermafrodita (sullo stesso fiore entrambi i sessi), quindi ogni pianta portava i grappoli, le glaciazioni (100mila/30mila anni fa) distrussero le popolazioni e modificarono la sessualità trasformando la specie in dioica (come la specie uomo, due individui, due sessi), per cui solo gli individui femminili portavano i grappoli. Un bel problema per i viticoltori di oggi. Alle glaciazioni però sopravvissero piccole popolazioni ermafrodite, rifugiandosi (metafora) in luoghi meno esposti; si stima che si salvarono solo il 5 % delle popolazioni originarie. Ebbene da queste popolazioni è partita la domesticazione per fortuna salvate. Il resto delle popolazioni sopravvissute sono divenute unisessuali, e sono queste che sono arrivate fino ai giorni nostri. Se le glaciazioni avessero distrutto tutto, non avremmo avuto nella storia umana né vite e né vino. Immagina che dramma! Chi ci dice che il Gargano non possa essere stato un luogo rifugio, come per il faggio, per la vite selvatica?
Come si fa a distinguere una vite coltivata da queste piante che lei ha trovato?
Le forme di vite selvatiche odierne abbiamo imparato a distinguerle su base sessuale intanto: non sono ermafroditi come la vite coltivata ma unisessuali (individui maschili e individui femminili); poi vi sono caratteri diagnostici indiscutibili, nella forma delle foglie e soprattutto nei grappoli (piccoli) e nei chicchi (piccoli e acidulo dolci). Questi caratteri per quando significativi non sono sempre costanti poiché le popolazioni di vite selvatiche essendo molto ridotte nel corso del tempo si sono incrociate (flusso pollinico) con quelle coltivate; questa interruzione di flusso pollinico all’interno delle popolazioni selvatiche mette oggi a serio rischio di estinzione la specie, già compromessa a seguito alla distruzione degli habitat a cui la specie è legata. Pertanto la distinzione tra le due specie, quella selvatica (Vitis vinifera subsp. sylvestris) e quella coltivata (Vitis vinifera subsp. vinifera) è sempre più difficile e perde, secondo recenti revisioni, anche di valore tassonomico, nel senso che dovremmo parlare ormai di un’unica specie. E qui si può non essere d’accordo; per noi almeno nel Gargano la distinzione è ancora evidente e non difficile da riconoscere almeno su base morfologica. Insomma questioni nuove per quanto combiniamo all’ambiente, alla vegetazione. Il Gargano, è indiscutibile, riserva popolazioni abbastanza pure di popolazioni di vite selvatiche (le differenze rispetto alla coltivata sono evidenti) e questo è motivo di grande interesse scientifico. Ci conforta poi quanto ne sanno ancora i contadini che la conoscono: è localmente chiamata «viticusa», o «vite selvaggia». Gli anziani ci hanno ricordato che si era soliti raccogliere la sua «acqua» per uso terapeutico (cura infiammazioni agli occhi). Si tratta della linfa grezza che in primavera fuoriesce abbondantemente dopo un semplice taglio praticato con le forbici (pianto della vite); altri raccontano che l’hanno utilizzata come portainnesto per la vite coltivata.
Sulla base di questa scoperta possiamo dire che se ci fossero più ricercatori, pazienti e accurati come lei, che non è nuovo a questi ritrovamenti, il nostro territorio potrebbe fornirci altre scoperte?
Mi permetta però qui qualche «premessa». Non sono, per mia sfortuna, un accademico; per necessità ho dovuto seguire altri percorsi. Molti anni dopo la laurea feci un dottorato di ricerca (di nuovo fila in mensa, ecc.) e qui la fortuna di riprendere contati con l’Università, ma soprattutto la fortuna di aver incontrato e di diventare poi amico di Edoardo Biondi, uno dei grandi botanici contemporanei con il quale da oltre vent’anni cerchiamo di capire questo Gargano, che non finisce mai di stupire. Queste opportunità mi hanno creato le condizioni ideali per continuare a coltivare i miei interessi di studio a cui ho dovuto rinunciare nei percorsi universitari. E poi la fortuna di vivere nel Gargano che è un terreno di ricerca sterminato per botanici e naturalisti in generale. Vi è posto per tutti insomma! Ma occorrono indagini sistematiche (quello che stiamo cercando di fare), che mancano e invece si continua in ricerche occasionali, parziali, probabilmente anche perché manca una regia (un obiettivo, un interesse) istituzionale, locale.
E poi, sì, tanta fatica, ma senza nessuna ambizione di diventare qualcosa, tante soddisfazioni come lavoro di ricerca, e tante amarezze soprattutto che questo «scoprire» rimaneva puro interesse scientifico, senza che potesse trovare applicazioni, e tante erano le possibilità (corretta gestione del territorio, recupero di risorse agricole, ecc.); potevano almeno avere risvolti culturali da spendere nella stessa offerta turistica (turismo rurale, turismo scientifico). Invece Niente! Poi sono bombardato di richieste (dalla California a Israele) di piante di fico, di qualche vitigno, ecc. Il Paesaggio vegetale del Gargano, si sta rivelando di una complessità unica: in tanti anni di ricerca non ci è ancora possibile tentare una sintesi: è segno che vi è ancora tanto da studiare, cercare, interpretare. Ci vorrebbero intere vite di lavoro. I ricercatori sono pochi e spesso vanno a caccia di puri «bottini», quando il problema è comprendere questa complessità.