Non erano due semplici ore d’insegnamento di una materia. Erano due ore di esplorazione dello scibile umano. C’era la scienza, ma anche l’arte, la filosofia, persino la religione che lui non sopportava, perché andava contro quel raziocinio, contro quella laicità propri della conoscenza. Parlava, al nostro striminzito gruppo di studenti della facoltà di Biologia ambientale ed evolutiva, di evoluzione umana, ma in questo rientravano la meccanica quantistica, la geometria frattale, i film di Chaplin, l’architettura romana e tanto altro. Ogni volta con lui avevi la certezza che, al termine della lezione, saresti stato sbalzato su un gradino più alto della conoscenza
«Buongiorno prof come sta oggi?» gli chiedevo ogni mattina, entrando nelle stanze piene di cavi, Pc, microscopi, proiettori e migliaia di altre cianfrusaglie del Consorzio Digamma.
«Tutto male, grazie!» mi rispondeva ogni volta, col suo solito brillante sarcasmo.
Chi non lo conosceva bene spesso interpretava la sua maschera di serietà intellettuale come un segno di burbera superiorità. In realtà, il prof. Vittorio Pesce Delfino era tante cose, ma non certo scorbutico e spocchioso. Aveva quell’atteggiamento di chi nella vita aveva visto molto, conosciuto tanto e cercato di capire tutto. Persino la sua simpatia, le sue divertenti battute ogni volta che c’era occasione, lasciavano trapelare la sua genialità.
Ho incontrato per la prima volta il prof. Pesce Delfino all’Università di Bari, quando ero ancora uno studente. Ricordo di esser stato subito colpito da un antropologo con una combinazione così strana di cognomi. Capii che non si trattava di un professore qualunque già alla prima lezione. Nonostante la mia reticenza a frequentare la maggior parte dei corsi universitari, che ritenevo noiosi e una perdita di tempo, non persi una sola lezione del corso di antropologia. Non erano due semplici ore d’insegnamento di una materia. Erano due ore di esplorazione dello scibile umano. C’era la scienza, ma anche l’arte, la filosofia, persino la religione che lui non sopportava, perché andava contro quel raziocinio, contro quella laicità propri della conoscenza.
Parlava, al nostro striminzito gruppo di studenti della facoltà di Biologia ambientale ed evolutiva, di evoluzione umana, ma in questo rientravano la meccanica quantistica, la geometria frattale, i film di Chaplin, l’architettura romana e tanto altro. Ogni volta con lui avevi la certezza che, al termine della lezione, saresti stato sbalzato su un gradino più alto della conoscenza.
Quell’anno fu il suo ultimo corso all’Università di Bari prima del pensionamento e mi ritengo immensamente fortunato di esser stato, per un soffio, uno dei suoi ultimi studenti. Sì perché, al termine del corso, mi ripromisi di scrivere la mia tesi di laurea con lui. E non credo di sbagliarmi se dico che anche lui era contento di avermi come tesista.
C’era un’intesa speciale col prof. Ricordo che, durante una lezione sull’anatomia del cranio umano, mostrò a noi studenti un’immagine geometrica colorata e ci chiese cosa fosse. Dopo qualche attimo di silenzio risposi timidamente che si trattava dell’insieme frattale di Mandelbrot e lui ne fu stupefatto. Iniziammo subito a lavorare alla mia tesi di laurea. Col suo solito fare eclettico mi propose di testare un’idea così innovativa che, in quegli anni, spesso pensavo a quanto la differenza tra il Mit o la Caltech e un piccolo centro di ricerche nella zona industriale di Bari sia solo dovuta a una questione di soldi. Le idee, le menti, la scienza non sono ciò che manca all’Italia. Lavorai per 6 mesi in quei laboratori satolli di vecchie e nuove tecnologie. Ogni tavolo era una sorta di diorama dell’elettronica. Ogni stanza il regno dell’ottica. Verificammo, con la collaborazione del dott. Flavio Ceglie e del prof. Eligio Vacca, l’esistenza di una sorta di costante ottica fondamentale, nel sistema visivo dei primati, in grado di garantire la stereoscopia.
Tra gli oggetti più curiosi custoditi dal prof. Pesce Delfino, vi erano una serie di crani delle sue care scimmie (una delle quali gli aveva staccato un dito con un morso), un tempo soggetti dei suoi studi antropologici. Utilizzammo proprio quei crani per i test e i risultati ottenuti furono così interessanti che il prof. spedì la mia tesi, e le elaborazioni stereoscopiche associate, ad alcuni suoi colleghi in Giappone, che le utilizzarono per migliorare quello che oggi conosciamo come 3D. Abbiamo la possibilità di farci coinvolgere da un film in tre dimensioni perché scienziati eclettici come il prof. Pesce Delfino ci avevano visto lungo ed esplorando i meandri della scienza stavano per offrire al mondo un nuovo modo di guardarlo. Sono fortunato ad aver fatto parte di questa rivoluzione, ma ancor più di aver potuto lavorare con una mente così straordinaria.
Non posso dimenticare quando, durante la mia seduta di laurea, il prof. si avvicinò a mia nonna che assisteva dai banchi dell’aula e lei lo ringraziò. Lui, con l’infinità delicatezza che si riserva alle persone di una certa età, le disse, accarezzandole una spalla, che non aveva fatto niente, era solo merito di suo nipote. Mia nonna ha ricordato sino all’ultimo le parole e la delicatezza di quell’affabile illustre professore, chiedendomi spesso di lui.
Dopo la tesi, per proseguire gli studi di dottorato, ci separammo. Ne era dispiaciuto, ma non lo dava troppo a vedere. Siamo sempre rimasti in contatto, però, sino a ritrovarci dopo qualche anno a lavorare nuovamente insieme. Stavolta da colleghi alla ricerca di applicazioni del 3D per la micro e la macro chirurgia. «Il Callido [come amava chiamarmi quando ero studente] è ritornato all’ovile» mi disse.
Era in continuo fermento il prof. Pesce Delfino. Nonostante le difficoltà di deambulazione degli ultimi anni, si muoveva con la sua sedia a rotelle tra i tavoli del consorzio di ricerca come una formica operosa. Smanettava sulle sue decine di pc (passando a lavorare da un Linux, a un Microsoft, a un Macintosh) e microscopi, per poi urlare, qualche attimo dopo, alla sua fedelissima collaboratrice Lucia di scrivere una email al suo collega americano e tornare, completamente immerso nei suoi pensieri, a uno stato di profonda concentrazione. Lo osservavamo da lontano in silenzio, insieme al dott. Ceglie, come per paura di destarlo da una nuova illuminazione scientifica.
È stato il primo a fornire le prove di come si riuscì a falsificare la Sindone con tecnologie medioevali, analizzando l’immagine del presunto corpo di Cristo con la serie di Fourier e riproducendo, poi, in laboratorio la procedura completa di impressione sul tessuto.
Era un laico, convinto che la scienza venisse prima di tutto. Prima persino del suo essere un attivo comunista (risi per tutto il giorno quando, entrando per la prima volta nel bagno del consorzio di ricerca, mi ritrovai il faccione del Senatur attaccata sullo scarico del water). Ricordo la prima volta che vidi la sua libreria, testi di Marx e Gramsci a fianco a trattati di anatomia patologica e fisiologia umana.
Fu il primo a studiare e a identificare la specie di appartenenza del reperto ritrovato nella grotta di Lamalunga ad Altamura, noto con il nome di «Uomo di Altamura». Dedicò a questo scheletro, di straordinaria importanza scientifica, molti anni della sue ricerche. Comprese, da antropologo e anatomo-patologo di fama internazionale e da scienziato che aveva studiato in giro per il mondo, dall’ex Urss, alla Francia agli Usa, che quel fossile era non solo un’eccezionale scoperta scientifica, ma anche un tesoro per la sua tanto amata Puglia. Sapeva che all’estero per quattro pietre messe in piedi si creano enormi attrattive, mentre in Italia di uno dei più antichi fossili di Neanderthal esistenti se ne sarebbe fatto ben poco.
Si oppose fermamente alla balorda proposta di sradicare lo scheletro dalle sue concrezioni, per evitarne il danneggiamento e l’esposizione lontana dal territorio di ritrovamento. Propose, invece, un sistema di videocamere stereoscopiche e luci fredde in grado di fornire ai visitatori del museo, posto al di sopra delle centinaia di metri dove lo scheletro risiede, un’immagine in tempo reale. Il progetto fu realizzato nonostante mille controversie e poi smantellato per una presunta formazione di alghe dovute all’illuminazione artificiale.
In realtà gli interessi in ballo sull’Uomo di Altamura erano (e sono) tanti, ma l’unico che osò proporre qualcosa di concreto che permettesse di studiarlo e garantisse allo stesso territorio di trarne benefici, fu accusato di danneggiamento. Come al solito in Italia, il caso si chiuse con un’archiviazione, ma al pari delle impronte di dinosauri della cava vicina, l’Uomo di Altamura ha un numero di visitatori annui pari forse a un millesimo di quelli di Stonehenge. «Questa è l’Italia, questa è la Puglia» diceva a malincuore il prof.
Dove fossero tutti quei finanziamenti che in tanti erano certi fossero finiti e svaniti nel progetto Sarastro, quello appunto delle telecamere sul fossile coordinato dal prof. Pesce Delfino insieme all’Università di Bari, proprio non si comprendeva, visto che per trovare le risorse per mandare avanti le ricerche al consorzio era necessario ogni volta sperare nella pubblicazione di un bando di finanziamento regionale o nazionale. Eppure, nonostante l’invidia e l’ostracismo di molti, e le ristrettezze economiche, il prof. non ha mai smesso di fare scienza. Sino al giorno prima della sua scomparsa stava lavorando alla ricerca di avanzate tecniche di ripresa ed elaborazione delle immagini microscopiche tridimensionali in grado di aiutare i chirurghi durante gli interventi e di facilitare le analisi forensi.
Era uno scienziato fuori dagli schemi. Si preoccupava poco di Impact Factor e Hirsch index. Pubblicava ciò che era veramente importante. Faceva ricerca e non perdeva tempo a scrivere cose che nessuno avrebbe mai letto. Quella non era scienza per lui. Spesso pubblicava le innovazioni e le sue nuove scoperte su YouTube. Ha persino dedicato un ulivo secolare a Michelle Obama, che lo ha ringraziato personalmente, cogliendo l’opportunità di mostrarle le bellezze della sua Puglia riprese con avanzatissime tecnologie 3D da lui teorizzate e collaudate dai suoi fedelissimi collaboratori come il dott. Flavio Ceglie, Nicola Stucci, Tina e Salvatore Cagnazzi. Con entusiasmo accolse la mia idea di girare un documentario in 3D nelle foreste africane. Gli sembrava molto interessante e ora è online, visibile a tutti.
Il 26 aprile, un giorno prima della sua scomparsa per arresto cardiocircolatorio, è stata presentata al pubblico la prima ricostruzione del volto e del corpo dell’Uomo di Altamura, a cui lui aveva dedicato così tanto impegno scientifico e, suo malgrado, giudiziario. Vedere il viso di quell’uomo primitivo per la prima volta gli avrà fatto uno strano effetto e, sebbene lui fosse fermamente convinto dell’inesistenza di un destino o delle coincidenze, forse non è stata una casualità l’aver avuto la possibilità di portare con sé, per sempre, l’immagine di quell’uomo che per tanti anni era rimasto senza volto.
Qualche anno fa, il prof. organizzò l’evento di consegna di una laurea Honoris causa, da parte dell’Università di Bari, al famoso matematico Benoit Mandelbrot (scomparso nel 2010). All’epoca ero suo tesista e mi invitò a partecipare per farmi conoscere lo scienziato polacco personalmente. Durante l’attesa della preparazione ho realizzato di ritrovarmi tra due mostri sacri della scienza e ho pensato al famoso adagio «salire sulle spalle dei giganti».
Non so se davvero sono stato, o sarò mai, in grado di arrampicarmi su quelle spalle grandi, ma l’aver incontrato e l’aver potuto lavorare al fianco di un professore come Vittorio Pesce Delfino è ciò che auguro a ogni studente, a ogni giovane scienziato. Perché solo coloro che, nonostante tutte le difficoltà della vita, immaginano il futuro sino all’ultimo battito del proprio cuore sono in grado di rivoluzionare la scienza e, quindi, il mondo. Solo coloro che sognano la scienza sono in grado di influenzare, con una profonda attrazione gravitazionale, le orbite di tutti quei satelliti dispersi che per tanti sono insignificanti studenti, ma che per il prof. Vittorio Pesce Delfino erano, invece, nient’altro che futuri scienziati.
Ciao prof, mancherai a tutti, ma nessuno potrà mai dimenticarti.