Dove l’arroganza e l’avidità dell’uomo associata a superficialità e scarsa professionalità ha generato un fenomeno incontrollabile in grado di prendersi in meno di tre minuti tutto. L’iter processuale per il disastro di Stava si concluse nel 1992 con la condanna definitiva di dieci persone, ritenute colpevoli di disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Nessuno dei condannati ha scontato la pena detentiva
L’immagine di Giuseppe Zamberletti, allora ministro della Protezione Civile, al telefono, le sue parole scandite, fanno presagire la gravità del disastro ambientale: «…195 persone disperse… ospiti di tre alberghi spazzati via, sì, non c’è più niente». Così comunicava Zamberletti al telefono i dati provvisori di un disastro ambientale che il 19 luglio del 1985 si abbatté in Val di Fiemme, una delle principali valli dolomitiche nel nord-est del Trentino. Il disastro di Stava è simile a un evento che recentemente, il 5 novembre 2015, ha colpito il Brasile.
Nel Comune di Tesoro, in Val di Stava, all’epoca del disastro era in esercizio una miniera di fluorite, minerale impiegato per la produzione di fluoro. La lavorazione di questo minerale consisteva essenzialmente nella macinazione della roccia e successivo arricchimento del minerale. Gli scarichi provenienti dalla lavorazione formati da acque e sedimenti erano fatti decantare in vasche appositamente realizzate. Come nelle discariche di rifiuti, quando si esaurisce lo spazio del catino, anche nella miniera di fluoriti s’iniziarono ad alzare gli argini. Così più alti sono gli argini più melma si accumula, più alti sono gli argini più l’intera opera, se non progettata, eseguita e monitorata a regola d’arte, diventa staticamente vulnerabile. Al tempo del disastro le vasche erano piene ma la miniera non era esaurita, così il gestore della miniera con una soluzione antropocentrica decise di alzare gli argini delle vasche e garantirsi il maggior reddito possibile, trascurando la sicurezza e mettendo a rischio la vita d’inconsapevoli turisti e cittadini.
Alle ore 12,22 del 19 luglio 1985, in piena stagione turistica, si consumò uno degli eventi «geo-antropici» più catastrofici che hanno interessato il nostro paese.
A seguito del crollo improvviso di due bacini di decantazione della miniera di fluorite circa 180mila metri cubi di fanghiglia precipitando a valle alla velocità di quasi 90 km/h. In pochi secondi l’abitato di Stava (Tesero), case sparse, infrastrutture e tre alberghi furono cancellati dalla furia delle acque e del fango. In meno di tre minuti, il tempo necessario alla colata di fango fuoruscita a seguito del crollo delle vasche a raggiungere la confluenza con il torrente, l’arroganza dell’uomo si prese tutto. Saranno 298 le vittime: 30 feriti e 268 morti, dei quali 13 mai ritrovati e 71 non identificati per le condizioni dei loro corpi straziati.
La Commissione ministeriale d’inchiesta e i periti nominati dal Tribunale affermarono che «tutto l’impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane». L’iter processuale per il disastro di Stava si concluse nel 1992 con la condanna definitiva di dieci persone, ritenute colpevoli di disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Nessuno dei condannati ha scontato la pena detentiva.
Quello di Stava non è un dissesto idrogeologico dove la forza della natura si abbatte sulle opere dell’uomo, ma è un dissesto «geo-antropico», dove l’arroganza e l’avidità dell’uomo associata a superficialità e scarsa professionalità ha generato un fenomeno incontrollabile in grado di prendersi in meno di tre minuti tutto.