Prima l’intesa discussa di Parigi, poi la luna di miele fra Usa e Cina. Alcuni ambientalisti applaudono altri no. Si è riusciti a rompere la compattezza europea e quella dei movimenti. Le più grandi potenze economiche e finanziarie mondiali, cercano soluzioni politico-economiche che permettano il «traghettamento» dei vecchi equilibri creati dal «business» e dal potere contrattuale dei combustibili fossili verso nuovi equilibri sostitutivi che non hanno più il «business» dei combustibili fossili, almeno come perno centrale dell’economia e della finanza
Si parla di disinformazione e di controinformazione e i lettori sono disorientati perché non riescono a cogliere le differenze e c’è chi insinua sospetti a piene mani. A noi è sempre piaciuta la chiarezza e cerchiamo di praticarla. Ci chiamiamo Villaggio Globale, una parola che evoca McLuhan (che fra l’altro abbiamo «rivisitato» con un Dossier proprio nel Trimestrale che è on line) colui che ha anticipato i temi del grande fratello, dello stato unico, della manipolazione dell’informazione.
E ci occupiamo di ecologia, non perché è di moda, ma perché è la chiave di soluzione dell’organizzazione della nostra società.
L’esempio più concreto, per ragionare intorno a questi temi appena tracciati, ci viene dalla gestione del clima. Perché si ha fretta (anche da parte di alcuni ambientalisti) di dire che ormai abbiamo la soluzione in tasca per risolvere i nodi e che Cina e Usa hanno firmato l’accordo di Parigi?
Perché il clima è la madre di tutto, è l’atto di accusa del nostro stile di vita, è la base su cui si poggia la speculazione totale sul pianeta che stiamo letteralmente divorando.
Sull’accordo di Parigi, fummo fra i pochissimi ad essere critici. E non era difficile ragionarci su: un tema così impellente come l’intervento sulle fonti energetiche non rinnovabili che stanno accelerando i cambiamenti climatici, può essere affrontato con un accordo volontario? Si puntava a tenere l’innalzamento globale delle temperatura al di sotto di 1,5°C ma si diceva che ci si accontentava anche di 2… ma già si sapeva che era polvere negli occhi perché la temperatura stava galoppando. Lo si diceva fra la delegazione canadese a Parigi: «Se tutto questo fosse stato fatto 20 anni fa, allora potremmo dire che oggi siamo fuori dal pericolo dei 2 gradi in più di temperatura. Ormai si è attivato un processo fisico irreversibile che alimenta da solo il clima, quindi se tutti noi oggi cessassimo di immettere gas serra in atmosfera, i due gradi in più li raggiungeremmo comunque». Infatti, già a luglio, quando sono arrivati i primi bilanci riferiti al 2015, si è registrato in alcune aree il superamento di 2°C della temperatura media…
Ma questo non basta, sembra che anche la politica abbia raggiunto il punto di non ritorno… e pochi giorni fa i media annunciavano trionfanti che Usa e Cina avevano firmato l’accordo di Parigi. Sono quindi 26 i Paesi che hanno ratificato l’accordo che per entrare in vigore deve essere ratificato da almeno 55 Paesi produttori del 55% delle emissioni globali. Ora siamo a 38%. Guardando la velocità con cui stanno avvenendo i guasti dei cambiamenti climatici, non sembra che i Paesi si stiano scapicollando.
E l’Europa? Ancora non si muove foglia, eppure eravamo in testa a portare la bandiera e siamo fra i più esposti alle emigrazioni quando a quelle delle guerre si aggiungeranno quelle del clima.
Cerchiamo di capire di più l’intreccio fra politica-economia-ambiente e le varie intese che segneranno la nostra vita futura.
Parigi segna l’intesa fra le economie
L’attuale intreccio politico-economico è tale che deve apparire evidente sul piano formale e comunicativo, la volontà dei governi di combattere i cambiamenti del clima, ma deve essere anche altrettanto pragmatico sul piano sostanziale ed attuativo la necessità di non modificare gli attuali equilibri economico-finanziari internazionali, né di minacciare le egemonie geopolitiche mondiali esistenti. Il problema negoziale che sta alla base dell’Accordo di Parigi, molto scenico, ma poco concreto, così come negli accordi precedenti, non sta nell’incapacità dei negoziatori di giungere a soluzioni concrete per combattere i cambiamenti del clima, perché i negoziatori hanno avuto il mandato di discutere, non di risolvere, il problema del cambiamento del clima. Le soluzioni del problema dei cambiamenti climatici, visto l’impatto che eventuali soluzioni negoziali efficaci avrebbero sulle egemonie e le economie mondiali, devono prima essere trovate tra le forza dei grandi gruppi di potere economico internazionale, transnazionale e multinazionale. Si tratta in pratica di trovare, fra le più grandi potenze economiche e finanziarie mondiali, soluzioni politico-economiche (per loro affidabili), che permettano il «traghettamento» dei vecchi equilibri creati dal «business» e dal potere contrattuale dei combustibili fossili verso nuovi equilibri sostitutivi che non hanno più il «business» dei combustibili fossili, almeno come perno centrale dell’economia e della finanza.
Negli anni passati questi gruppi di potere economico e finanziario, per frenare decisioni o operazioni pericolose per i loro equilibri, hanno puntato sul negazionismo climatico finanziando studi fasulli e discutibili per dimostrare che i cambiamenti climatici non esistono o sono una bufala degli ambientalisti. Poi, quando le prove sono diventate inoppugnabili ed hanno dimostrato di fatto che i cambiamenti climatici sono reali e stanno andando avanti velocemente, la strategia è cambiata. Si è passati prima ad affermare che i cambiamenti climatici esistono ma non sono provocati dalle attività umane ed ultimamente, quando ormai la sensibilità ambientale di cittadini è diventata troppo alta e perfino la Chiesa, nella persona di papa Francesco, si è mossa con una Enciclica, si è passati ad affermare, sul piano comunicativo, che è necessario fare qualcosa e ad attuare sul piano pratico il minimo superfluo.
L’accordo di Parigi, rispecchia questa evoluzione strategica dei poteri economico-finanziari: proclamare buone intenzioni, ottimi propositi e obiettivi tanto ambiziosi quanto irreali, ma essere privo di contenuti pragmatici, concreti verificabili e misurabili.
Un accordo, quello di Parigi, che elimina il contenzioso del muro contro muro del passato tra sostenitori dello sviluppo e sostenitori dell’ambiente. Un accordo che fa contenti gli ambientalisti e ottiene il plauso dai cittadini più attenti e informati sulle questioni del clima e dello sviluppo. Ma, è un accordo che rende felici anche i gruppi di potere egemonico internazionali più intransigenti su possibili variazioni degli attuali equilibri economici senza il loro consenso, perché negli accordi di Parigi non ci sono soluzioni concrete. Gli impegni da assumere e rispettare sono discrezionali, volontari, ma soprattutto elastici, sono affidati al buon cuore e alla buona volontà dei paesi firmatari, che ogni 5 anni possono modificare gli impegni, rinnovarli, rilanciarli o cancellarli del tutto.
L’«intesa ambientale» Usa-Cina
L’intesa Usa-Cina prima di qualsiasi avvenimento sul clima in questi ultimi anni è, in genere, un atto di propaganda politica che spesso e anche preludio di un insuccesso. Nel 2009, prima della Conferenza sul Clima di Copenhagen, una conferenza cruciale che avrebbe dovuto decidere del rinnovo del protocollo di Kyoto e di un nuovo più severo accordo nuovi basato sulla cosiddetta «road map di Bali», accadde qualcosa di analogo. Usa e Cina firmarono il 20 luglio 2009 un protocollo di intesa per la cooperazione nel campo dei cambiamenti climatici e per la riduzione delle emissioni sulla base della «intensità carbonica». Era propaganda.
Infatti, il negoziato successivo nella Conferenza di Copenhagen del dicembre 2009 si concluse con un fallimento. Più recentemente, prima del grande avvenimento della Conferenza di Parigi, l’evento propagandistico si è ripetuto: il 12 novembre 2014, nella conferenza Apec Asia Pacifico, Usa e Cina hanno annunciato riduzioni apparentemente record delle loro emissioni, enunciazione poi tradotta in una intesa Usa Cina nel settembre 2015, cioè proprio a ridosso della Conferenza di Parigi per dare più enfasi alla propaganda. Questa volta però il negoziato di Parigi del 2015 non è formalmente fallito come quello di Copenhagen, ma la sostanza dell’accordo manca di concretezza attuativa.
L’Unione europea ha svolto un ruolo guida nel Protocollo di Kyoto, lo ha fortemente sostenuto e lo ha anche applicato all’interno dell’Unione europea con una serie di direttive, disposizioni e politiche d’avanguardia nel campo dell’energia, dell’efficienza energetica e del risparmio di energia, nel campo della decarbonizzazione della produzione industriale e più in generale nel campo ambientale.
Ma quando gli altri Paesi al di fuori della Ue, soprattutto paesi inquinatori, che non avevano, e non hanno mai avuto, intenzione di attuare il protocollo di Kyoto, hanno approfittato dell’economia di mercato per avvantaggiarsi con il loro «dumping» ambientale, il loro «dumping» sociale e il loro «dumping» fiscale per rendere concorrenziali i loro prodotti sui mercati europei, danneggiando le aziende europee, allora alcuni Paesi europei sono insorti per osteggiare molte delle politiche europee nel campo del clima dell’ambiente e dell’energia, ritenute autolesioniste. La forza e la compattezza dell’Europa si è così via via indebolita, ancor più dopo la chiusura definitiva del Protocollo di Kyoto, che era il fiore all’occhiello dell’Europa. Non c’è da meravigliarsi ora se l’Europa è un po’ defilata. Essere primi della classe non sempre ripaga.