Per l’olio di palma dal 2000 al 2012 sono state eliminate foreste pluviali per oltre 6 milioni di ettari. Solo in Francia, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna dal 1980 al 2015 1.751.067 di incendi hanno distrutto 16.121.036 ettari
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Statistiche «poco studiate» ripropongono periodicamente l’aumento dei boschi in Italia ed in Europa. Da questi calcoli però non sono sottratti i boschi persi per incendi o per perdita di suolo. Per capire meglio che cosa sta succedendo alle nostre aree boscate pubblichiamo volentieri l’intervento inviato da Vittorio Leone, già ordinario di Protezione dagli incendi boschivi, presso l’Università della Basilicata. Ma soprattutto un esperto nel campo a livello internazionale che spesso ha fatto scuola con i suoi studi esaminando le cause profonde degli incendi.
Nel linguaggio mediatico che ogni giorno ci bersaglia, il termine «verde», declinato in tutti i modi ed in tutte le lingue, dal politico all’ecologico, contende il primato a quello di «terra». Madre Terra, Amici della Terra, economia verde, partito verde, Green Smart City, Green Energy, Green Environment, Green Architecture, sono tra i tanti slogan che sembrerebbero indicare un ampio interesse per la natura e per la sua tutela, in un rinnovato fervore ecologista.
In realtà le cose stanno in modo diverso e le capacità dei moderni mezzi di indagine, quali i numerosi satelliti di osservazione che ci sorvolano ogni giorno, confermano un dato di fatto: più i mezzi di indagine diventano efficaci, più ci confermano che le risorse ambientali sono oggetto di forme di aggressione globale organizzata, massiva, irreversibile.
È il caso delle foreste, la cui estensione non è agevole da calcolare per la molteplicità delle definizioni differenti di foresta nelle statistiche dei diversi paesi. Al di là del dato statistico, è però innegabile che esse siano in regressione, comportando ovviamente conseguenze che hanno riflessi su tutto il globo: tra le tante, riduzione dell’attività fotosintetica, quindi crescente e sostenuto aumento del tenore in anidride carbonica nell’atmosfera, oggi pari a 401,57 ppm, superiore al limite critico di 400 ppm (Osservatorio di Mauna Loa, ottobre 2016), alterazione dell’immissione in atmosfera di vapore acqueo, con conseguente impatto sul clima e sugli imprevedibili (o abbastanza prevedibili) cambiamenti climatici.
Dati che sembrano confermare il cosiddetto «effetto farfalla», la locuzione immaginata in un saggio di fantascienza nel 1952 da Bradbury e successivamente riproposta dal meteorologo Edward Lorenz del Mit nel 1963, spesso citata con lieve sarcasmo: Può il battito d’ali di una farfalla scatenare un uragano a migliaia di chilometri di distanza? In altri termini una singola azione può determinare imprevedibilmente il futuro?
La regressione delle foreste
Sembrerebbe di sì. In un articolo pubblicato sul numero di dicembre 2015 della rivista Nature (vol. 525, n.ro 7568), un nutrito team di scienziati e ricercatori di diverse prestigiose Università (Crowther et al.), tra cui il mio brillante ex allievo Giuseppe Amatulli di Gioia del Colle, oggi ricercatore presso l’Università di Yale, ha esposto i risultati della stima a livello mondiale del numero di alberi che crescono nelle foreste. Il precedente valore di 400,25 miliardi, ottenuto da immagini satellitari nel 2008, cioè di circa 61 alberi per abitante del pianeta, e ritenuto non ulteriormente modificabile, è stato aggiornato a 3,04 trilioni, con uno scarto di tolleranza di ± 0,096 trilioni, cioè di 422 alberi per abitante, quasi quattro volte di più.
Questo dato, risultato delle informazioni ottenute in circa 430.000 aree di saggio in aree forestali, aventi superficie complessiva di oltre 4.000 km2 di estensione, integrate con dati satellitari, ha consentito di stimare che negli ultimi 12.000 anni, dall’inizio cioè dell’attività agricola da parte dell’uomo nel post-Pleistocene, il numero di alberi si è ridotto del 45,8%. In dettaglio, con riferimento agli ultimi 12 anni, la foresta è regredita di 192.000 Km2 ogni anno (per intendersi, l’equivalente di due terzi dell’Italia). Questa regressione è da imputare alla deforestazione, cioè alla eliminazione definitiva della foresta, alle utilizzazioni forestali, a disturbi di vario genere e a cambiamenti nelle forme di utilizzazione del suolo che comportano ogni anno il taglio di 15,3 miliardi di alberi, con valore massimo nelle zone tropicali.
Qualche dato può servire a comprendere che forse l’effetto farfalla non è una locuzione ad… effetto: in Indonesia per produrre l’olio di palma (che da solo rappresenta il 65% dei grassi di origine vegetale usati a livello mondiale) utilizzato nella produzione di margarina, shampoo, rossetti, candele, detersivi, prodotti farmaceutici e prodotti alimentari quali pane, fiocchi di cereali, merendine ed altri prodotti da forno (in cui l’assenza di tale olio rappresenta oggi in Italia una efficace campagna pubblicitaria da parte di molti produttori) dal 2000 al 2012 sono state eliminate con il fuoco, dopo averle disboscate (tecnica detta slash and burn) superfici di foresta pluviale per circa 840.000 ettari all’anno, per oltre 6 milioni di ettari.
Nel solo 2015, 115.000 incendi hanno percorso 2,6 milioni di ettari; il fuoco ha però aggredito anche gli spessi strati di torba sottostanti, provocando incendi che sono durati mesi, con emissioni di fumo acre e tossico che hanno interessato 43 milioni di persone, indotto infezioni acute all’apparato respiratorio per oltre 500.000 persone, mortalità per 19 persone, persistente estrema riduzione della visibilità, chiusura delle scuole e degli aeroporti. L’indice di inquinamento atmosferico PSI (Pollutant Standards Index) ha raggiunto il valore di 2.000, circa 7 volte più grave del massimo fissato nel valore 300, per cui gli incendi del 2015 sono stati esplicitamente definiti un crimine contro l’umanità dall’Indonesian Meteorology, Climatology and Geophysics Agency (BMKG). I danni sono stati stimati in $ 35 miliardi, il 4% del Pil nazionale.
In Brasile e negli Stati contigui (Bolivia, Perù, Colombia, Venezuela, Guyana, Equador, Surinam, Guyana Francese), la foresta amazzonica, il tanto decantato «polmone verde» del pianeta, è stata aggredita per anni da progetti di viabilità ed insediamenti umani che eliminano la foresta pluviale per destinarne l’area a pascolo per l’allevamento di bestiame da carne (attività causa dell’80% della regressione della foresta in Brasile e del 14% a livello mondiale) o terreno agricolo per la coltivazione di soia (per alimentazione o per produzione di biofuel) utilizzabile per alcuni anni, salvo poi abbandonarlo per sopravvenuta quasi totale perdita di fertilità, procedendo al disboscamento di altre aree.
È stato stimato che tale processo abbia comportato, nel periodo 1970-2015, la perdita complessiva di 76.893.500 ettari pari al 18,9% della foresta pre-esistente; il fenomeno è fortunatamente in fase di rallentamento, essendo passato da 2.742.300 ettari nel 2004, a 1.291.100 ettari nel 2007 a 457.100 nel 2012. Valore comunque sempre estremamente elevato: per avere un’idea dell’ordine di grandezza, la riduzione di superficie forestale per sfruttarla a fini agricoli si stima pari a quella equivalente a 50 campi di calcio ogni minuto primo (ognuno con superficie regolamentare di 7.140 m2), a partire dal 2000.
Alla deforestazione si aggiunge la costruzione abusiva di strade: si calcolano in circa 170.000 i km di strade abusive finalizzate all’estrazione illegale del mogano.
In questo caso un battito d’ali è l’elevato consumo di carne che fino a qualche lustro addietro caratterizzava il regime alimentare delle nazioni più ricche (ricordiamoci dei menu di multinazionali della ristorazione con proposte di «burger» giganti) salvo poi a ridimensionarlo per effetto delle conseguenze sulla salute non proprio positive. Il consumo di carne forse si è un po’ contratto, ma le ferite irreversibili nella integrità della foresta amazzonica sono evidenti nelle immagini satellitari (per averne un’idea, si provi a cercare su Google Earth lo Stato di Rondonia in Brasile).
Fonte: Insediamenti umani e contrazione del manto forestale, Stato di Rondonia, Brasile; Google Earth
Le perdite di suolo in Europa e in Italia
Anche in Europa il consumo irreversibile di suolo raggiunge valori elevati, con conseguente eliminazione della copertura vegetale che, comunque, anche se non forestale, contribuisce al contenimento dell’effetto serra. Secondo l’indagine Lucas (Land Use and Cover Area frame Survey) di Eurostat la quota di territorio con copertura artificiale in Italia è stimata, per il 2012, pari al 7,0% del totale, contro il 4,3% della media dell’Unione europea. L’Italia si colloca al quinto posto dopo Malta, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania. Il consumo di suolo in Italia continua a crescere, pur segnando un rallentamento: tra il 2013 e il 2015 le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 250 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 35 ettari al giorno, circa 4 metri quadrati di suolo irreversibilmente persi ogni secondo, dopo aver toccato anche gli 8 metri quadrati al secondo degli anni 2000: in totale si è passati da 8.100 km2 all’anno negli anni 50 a 21.100 km2 nel 2015: migliaia di ettari di fertile suolo agricolo che vengono consumati, trasformati cioè in asfalto e cemento, edifici e fabbricati, servizi e strade, a causa di nuove infrastrutture, di insediamenti commerciali, produttivi e di servizio e dell’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità.
È altresì cresciuto il numero di insediamenti nelle cosiddette zone di interfaccia urbano/foresta o urbano/rurale, quelle zone in cui gli insediamenti sono a contatto immediato con ambienti naturali, spesso di pregio o con aree agricole. Negli anni 70 costruire palazzine immerse nel verde ne attribuiva un plus valore, salvo poi avvedersi del problema che tale condizione costituisce in rapporto al crescente numero di incendi. Situazioni del genere sono abbastanza frequenti in Puglia e se ne ha notizia quando gli incendi estivi incalzano, oggi forse meno frequentemente del passato: non so se per effettiva contrazione del fenomeno o perché è meglio non parlarne troppo…
Il fenomeno degli incendi, che in aree come l’Indonesia o il Brasile ha decisi moventi, sulla cui eticità si può discutere ma che evidentemente derivano da calcoli economici, in Europa e soprattutto negli stati meridionali dell’Ue, quelli del «fire club» (Francia, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, a cui si aggiungono oggi alcuni stati dell’Est come la Bulgaria) hanno moventi meno decisi e più sfumati, che spesso scompaiono dietro la notazione statistica dell’incendio per cause ignote o delle fandonie fantasiose come l’autocombustione o l’azione dei piromani.
Le cause sono in realtà ben note, ma si preferisce continuare a contenere il fenomeno nei suoi effetti, con una organizzazione di difesa «muscolare», basata sull’uso di mezzi aerei, elicotteri, fuoristrada, oggi anche i droni, piuttosto che intervenire sulle cause. I motivi di tale scelta sono molteplici e la letteratura specializzata oggi indica concordemente la necessità di passare dal modello basato sull’emergenza a quello basato sullo sviluppo della resilienza del territorio. Argomenti che mal si conciliano con l’esigenza politica di dimostrare che lo Stato c’è e interviene prontamente: in realtà molto più facile, evidente, e pertanto politicamente remunerativo che impegnarsi nella prevenzione.
Qualche dato può chiarire l’entità del fenomeno incendi: nel periodo 1980-2015 ben 1.751.067 incendi hanno percorso 16.121.036 ettari nei cinque stati…fondatori del «fire club» (Francia, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna). Di essi, ben 1.194.755, più del 68%, si sono verificati in Spagna e Portogallo, percorrendo 9.737.471 ettari (60,4% del totale); il Portogallo, il paese con la più piccola superficie a livello europeo (appena 9.068.000 ettari), ma con la maggiore superficie ricoperta da bosco, in valore percentuale (4.907.000 ettari, pari al 54,11%), a livello Ue risulta quello maggiormente colpito dal fenomeno incendi, spesso di dimensioni disastrose, i cosiddetti «megafires», con superficie percorse anche dell’ordine delle migliaia di ettari.
Incendi che hanno cause complesse, ma specificità nazionali, riconducibili alle complesse dinamiche sociali ed economiche che accompagnano i processi di trasformazione dello spazio. Per esempio in Portogallo la destinazione di spazi agricoli marginali a piantagioni di Eucalyptus (per la utilizzazione del legno nell’industria cartaria), che oggi rappresentano quasi il 10% della superficie territoriale; ciò ha comportato una copertura continua di vegetazione particolarmente combustibile su oltre 810.000 ettari, con conseguenze nefaste nel favorire (non nel causare, si badi bene!) l’insorgere e il propagarsi di incendi disastrosi.
Gli incendi nello spazio rurale non conoscono frontiere e limiti e sembrano prediligere le aree protette, dove la loro insorgenza, in contrasto con la logica della conservazione, appare spesso legata alla delusione per i mancati benefici che il regime di protezione comporta, in aggiunta a vincoli di uso che appaiono insopportabili, oppure come segno di protesta e di sfida di chi determinate regole non intende accettare.
Le ultime statistiche rese disponibili dal Corpo Forestale (2001-2012), indicano per l’Italia l’insorgenza di 9.535 incendi in aree protette di vario tipo (11,17% del totale nazionale per il medesimo periodo) con superficie percorsa di 129.264 ettari, pari all’11,85% del totale per il medesimo periodo. Il dato della superficie percorsa dal fuoco, quindi temporaneamente priva di copertura, si somma ai 32.400 ettari di suolo consumato nelle aree protette in cinque anni.
L’effetto serra
In conclusione, assistiamo ad una contrazione continua, sostenuta e diffusa delle superfici che con la loro copertura vegetale hanno un ruolo fondamentale nel tamponare l’accumulo di anidride carbonica contribuendo così a contenere l’effetto serra, cioè l’anomalo riscaldamento dell’atmosfera e le sue spesso imprevedibili conseguenze.
L’effetto serra non è una costruzione astratta generata dai modelli matematici, ma una realtà che ci interessa da vicino e che percepiamo quando assistiamo all’accrescersi di episodi temporaleschi di inaudita intensità nelle nostre latitudini (le «bombe d’acqua», precipitazioni di intensità superiore a 50 mm/ora, molto rare in passato), alle inondazioni in regioni siccitose come la Puglia, alle stagioni che sembrano impazzite con risultati disastrosi sulle produzioni agricole, all’andamento stagionale insolito.
Tutti fatti collegati all’anomalo riscaldamento dell’atmosfera dovuto ad azioni antropiche incaute, con effetti sui fenomeni globali che ci appaiono lontani e che pensiamo estranei ai nostri comportamenti, quali per es. El Niño (anomalo riscaldamento delle acque superficiali del Pacifico) e La Niña (anomalo raffreddamento delle acque superficiali del Pacifico).
Eventi disastrosi, a seguito di precipitazioni di particolare intensità, ci colpiscono con frequenza sempre più ravvicinata (si ricordino l’alluvione di Peschici due anni fa, le inondazioni di Castellaneta, Molfetta, le bombe d’acqua a Lecce, Ostuni, Fasano, sulla SS 16 qualche settimana addietro): non possono essi rappresentare l’uragano lontano che i battiti di ala di farfalla degli oltre sette miliardi di uomini (uno tra i tanti, la diffusione abnorme dei SUV che immettono in atmosfera quasi il doppio di anidride carbonica di vetture normali) determinano? Non sono un campanello di allarme delle conseguenze del ritmo forsennato di immissioni di gas serra (GHG) nel sottile strato gassoso che circonda la terra e che costituisce l’atmosfera? Cambiare abitudini e contenere certi fenomeni non è una velleità da contesse ecologiste, come si diceva sarcasticamente in passato, ma un imperativo: prima o poi i miliardi di battiti di ala di farfalla scateneranno la tempesta perfetta. È solo questione di tempo.