Ristrutturare un Territorio, da parte dell’uomo, è cosa profondamente diversa dall’opera con la quale la Natura cura i propri complessi equilibri vitali. Molti immaginano che gli equilibri vitali siano spontaneamente assicurati anche nelle opere con le quali l’uomo modifica e adatta l’ambiente alla propria volontà. Di fatto, imponendo questa visione falsamente positiva (come se fosse una prospettiva reale che consente qualsiasi modifica di un Territorio), si vorrebbe far prendere atto dell’esistenza di uno sviluppo chimico-fisico-biologico artificiale sempre del tutto assimilabile a quello naturale.
Uno sviluppo deciso dall’uomo, senza impatti negativi, in sintonia con la complessità degli equilibri naturali che, in realtà, è decontestualizzato rispetto alle caratteristiche vitali del Territorio e che viene anche sottratto a quella riflessione, sui significati dei fenomeni, che la nostra mente è capace di sondare per valorizzare e non, invece, per modificare, senza vincoli, l’esistente e il suo divenire. Uno sviluppo, dunque, che interpretiamo solo come risorse e meccanismi di produzione di beni di consumo, messi gratuitamente a nostra totale disposizione, per farne un uso quanto più profittevole e per vantare nostre specifiche capacità di modificare l’ambiente in ogni occasione. Questo tipo di sviluppo, l’uomo non solo lo persegue ciecamente, senza alcuna valutazione critica che non sia solo formale, ma lo usa anche come strumento per distruggere addirittura le condizioni naturali che ne permettono la sua riuscita.
Con i potenti mezzi, oggi disponibili per modificare i Territori, l’uomo è, di fatto, entrato in competizione globale con la Natura, ma non avendo le capacità di gestire la complessità dei suoi equilibri, con i propri interventi, sta determinando l’impoverimento della diversità necessaria per renderli vitali.
Fin quando non assumeremo la responsabilità di scelte collaborative, che trovino senso nelle prospettive di un progresso della qualità della vita umana in sintonia con lo sviluppo degli equilibri naturali, non riusciremo a venir fuori da quella distruttiva spirale del «fare le cose» che opera senza tener conto del contesto sul quale interveniamo e che avvilisce e nega le peculiarità uniche della riflessione, valutazione e decisione responsabile che qualificano la condizione umana.
Siamo una risorsa unica di creatività e di sinergie che non possono essere espresse dagli altri esseri viventi della Terra, ma non ce ne rendiamo conto e, troppo spesso, ci limitiamo a una vita guidata da un progressismo istintivo di sopravvivenza, sempre più condizionato da sprovveduti entusiasmi per le tecnologie avanzate, anche se non è molto chiaro verso quale direzione stiano avanzando. Interpretiamo le opportunità di integrazione, con gli equilibri specifici di ogni Territorio, con una razionalità e ingegno che, finalizzati a un bene individuale ideologico, diventa automaticamente un male, anche estremo, per tutti gli altri.
Abbiamo disegnato mappe per conoscere, valorizzare il poterci muovere sui Territori, ma queste sono state e continuano a essere usate (ancor più con le attuali e sofisticate rilevazioni satellitari) per appropriarsi delle risorse, per dividere popolazioni, per confinare inventate comunità, per attivare scontri tribali fino a trasformarli in guerre globali con le armi più micidiali (quelle costruite, dai paesi tecnologicamente più avanzati, nella previsione o, forse, addirittura preordinando ciò che apparirà, poi, solo un destino di violenza per interi popoli, sviati dai loro percorsi di progresso, per il vantaggio di qualche forte interesse esterno, individuale o di gruppo).
La tecnologia, a parte lo sviluppo delle «app» che promuovono pericolose alienazioni dal senso delle cose reali, potenzia, di fatto, un distruttivo e arbitrario «fare le cose» che l’uomo impone ai Territori da lui occupati. Disboscamenti, grandi opere idrauliche, cementificazioni, passano velocemente, con valutazioni solo formali degli impatti, dai progetti sulle mappe, alle fasi esecutive, all’esercizio di attività produttive e al confinamento terminale (se non addirittura alla dispersione nell’ambiente) di tutti i consumi trasformati in rifiuti. Opere e attività, a volte neanche utilizzate o comunque destinate a un abbandono terminale, che finiscono, così, con l’attivare una presenza crescente, di tipo tumorale, di ruderi che con il loro degrado incidono profondamente, sul contesto di vita umana connesso, generando metastasi sociali e non solo economiche. In queste condizioni anche la prospettiva e il mito dell’archeologia industriale non possono che impallidire per la vergogna.
Siamo così assuefatti a immaginare come naturali i Territori completamente antropizzati delle nostre città, delle vie di comunicazione e dei luoghi abitualmente frequentati (per affari, per acquisti, per il tempo libero) che un paesaggio, senza la presenza dell’uomo e delle sue opere, può dare la sensazione di un luogo vuoto. I dati forniti da una recente inchiesta sul nostro Territorio nazionale («L’Espresso», n.40, del 2-10-2016) raccontano di un consumo di suolo passato dal 2,7% del 1956 al 7% del 2014 e di un consumo di cemento che negli anni passati è arrivato fino a 800 Kg a testa. La situazione è poi ancor più preoccupante se prendiamo atto, oggi, che si tratta di cemento che ha sottratto soprattutto spazio agli equilibri vitali, che non è stato aggiunto, cioè, solo nei luoghi già cementificati e da noi attualmente occupati (città, seconde case nuove o più ampie, allargamenti delle vie di comunicazione, nuovi insediamenti in zone commerciali e industriali). Stiamo perdendo (senza averne una percezione critica) le diversità dei Territori che sono elementi fondamentali per la tenuta degli equilibri naturali.
Ma a questi segni negativi si contrappongono (e si spera possano continuare a contrapporsi) quelli positivi di un’azione, già in atto nei nostri Territori, impegnata efficacemente a rivitalizzare, molti luoghi e risorse uniche a rischio, con il coinvolgimento della sensibilità e dell’impegno di un gran numero di cittadini.
Per evitare, poi, di cadere nella fatale e sommaria accusa rivolta all’uomo di essere «causa di tutto il male della Terra», conviene anche evidenziare, qui, che la colonizzazione umana dei Territori, quando è un modo per prendersi cura della loro manutenzione e per assicurare il futuro di attività economiche primarie, non è causa del loro degrado. Sono, invece, le finalità, il tipo di progetti, il modo e gli strumenti usati che li condannano al degrado. Nella presunta neutralità delle modifiche o addirittura in nome di una strumentale valorizzazione dei luoghi, la vitalità immaginata di un Territorio, in molti casi è formalmente rappresentata, da un prato verde, da alberi che decorano i siti oggetto della trasformazione, dai filari degli impianti ortofrutticoli meccanizzati per curare non qualità ma quantità in eccesso della produzione agricola (tutta da smaltire, poi, come rifiuti) necessaria per non far mancare le merci ai mercati (ogni anno, secondo una stima del 2006, nella sola Ue, sono sprecate 90 milioni di tonnellate di cibo).
I Territori sembrano ormai asserviti, come strumenti di produzione, alle mode dei consumi, alle novità geneticamente modificate che vorrebbero riempire, il vuoto di quel senso delle cose che viene a mancare quando vince l’idea di poter perseguire un mitico successo tecnologico o nuove e più vantaggiose opportunità di profitto. Oggi, si confonde, con preoccupante frequenza, la qualità di un prodotto con il livello delle tecnologie «avanzate» presenti nel suo processo di produzione. Alla mancanza di senso nella produzione agricola delle filiere Ogm, suppliscono le garanzie dell’ingegneria genetica (sull’estetica del prodotto, sulle misure perfette di ogni pezzo messo in vendita, sul colore reso più attraente) e gli illusori vantaggi millantati sulla qualità, anche per un «diverso» uso di prodotti chimici messi in campo.
Non è da sottovalutare quanto questa artificiosa ricostruzione della realtà, seguendo opportunità di mode inventate, possa incidere sulla condizione del nostro benessere. Certo è che in questi casi finiamo con l’essere indotti a cercare altrove le cause dei nostri malesseri e, magari, a trovare rimedi in qualche pratica esoterica o in qualche suggestivo «centro benessere». Ma così non troveremo una vera cura per le ansie, a noi procurate, ma cercheremo solo qualcuno che surroghi, a pagamento, un conforto alle nostre solitudini competitive o alle alienazioni consumistiche o ai nostri bisogni relazionali mancati, pur se tutti questi, nella sostanza delle nostre deluse attese, continueranno a rimanere inevasi.
Oggi non è, neanche, da sottovalutare l’elevata e innaturale mobilità che ci consente con qualche ora di volo di raggiungere Terre lontane e diverse per cultura e ambiente di vita. Siamo catapultati, per rimanere anche una sola settimana, in luoghi estranei nei quali la nostra identità è messa da parte ed è impossibile costruirsene, in breve tempo, un’altra che abbia senso e che sia in equilibrio con quelle già esistenti. Diventiamo veicoli che trasportano, senza senso, nel giro di qualche ora, le presenze vitali di un primo ambiente, quello di partenza, in un secondo e diverso ambiente di arrivo, senza preoccuparci delle conseguenze, senza prevenzioni e precauzioni che non siano solo quelle per la difesa fisica della persona e della sua salute. In questo tipo di esperienze, realizzate in ambienti e culture lontane, possiamo anche rischiare di perdere le nostre identità, di diventare una sorta di organismi con identità artificiosamente sospese e forse anche modificate, nel tentativo di adattarle formalmente alle suggestioni dei nuovi contesti. Corriamo il rischio, così, di finire col perdere il senso della diversità in un sincretismo formale che disorienta la nostra mente invece di arricchire le nostre esperienze per favorire sinergie efficaci, adeguate alle realtà da affrontare.
A fronte di questi possibili scenari, la ricerca di alternative non può essere solo una meccanica, pur necessaria, diminuzione dei consumi, ma deve essere soprattutto una ricerca condivisa (nella diversità delle valutazioni personali) sul senso dei processi naturali e sulle scelte che siamo chiamati a compiere, mentre avvengono i fatti dei quali siamo esplicitamente, o anche solo implicitamente, responsabili.
C’è da riflettere sui significati e sul senso di quei consumi effimeri, frutto di ricercate e volubili fantasie che incentivano profitti senza limiti: c’è da chiedersi se questi siano sostenibili a fronte di una contemporanea mancanza di risorse necessarie per dare risposte a bisogni primari inascoltati di miliardi di nostri simili. C’è da riflettere sulla tecnologia: c’è da valutare quanto incida, il suo sviluppo incontrollato (spinto dai lauti profitti di un mercato di applicazioni superflue, se non anche micidiali), sul bene primario del progresso umano. C’è da riflettere per capire se ha senso subire da inetti le sconfitte della pace, confidando nella vittoria delle tecnologie che avanzano producendo sempre più insostenibili stragi di civili e lasciando che la brace, della violenza subita, possa accendere nuovi (ma anche preordinati) incendi. C’è da riflettere sulla finanza, oggi tutta impegnata a favorire i profitti (come se il denaro fosse un fine e non solo un mezzo), che depredano le risorse di attività economiche anche essenziali e che sovvenzionano, invece, l’acquisto di armamenti per la distruzione reciproca fra popolazioni diverse messe in contrasto fra loro: c’è forse da pretendere che la finanza torni a svolgere il ruolo di strumento economico finalizzato allo sviluppo dell’economia reale (essenziale per soddisfare i bisogni delle persone) e del progresso della qualità della vita e delle relazioni che rendono più giuste le società umane. C’è da riflettere sulla formazione dei giovani (ma anche sulla formazione continua degli adulti): oggi, sull’onda di un progressismo tecno-scientifico, sembrano necessarie solo intelligenze conformate alle esigenze dei mercati e applicate allo sviluppo di prodotti e processi necessari per una competizione globale, per diventare capaci di vendere di tutto, anche quelle cose, uniche e impagabili, che sono un bene assoluto, fisico e mentale, e che non è opportuno che diventino oggetto di un commercio. Per esempio l’acqua (la cui identità e quantità, cioè le sue molecole, i suoi sali e le sue fonti, sono effetto solo di fenomeni naturali e non di tecnologie avanzate), per la quale si tende a favorire un fiorente mercato che vorrebbe «monopolizzare» la sua distribuzione e «liberalizzare», invece, il suo inquinamento.
C’è da riflettere su un mondo della produzione che con l’automazione può fare a meno dei lavoratori anche per grandissime opere: oggi sono sufficienti pochi vassalli tecnologici per modificare, in breve tempo, anche ampi Territori, trasformati in feudi, di poteri assoluti, dal mercato libero e da una rendita finanziaria che contrastano, invece, lo sviluppo delle attività, necessarie e vitali, dell’economia reale. C’è da riflettere sul fallimento di quel paradigma, fondato sul libero mercato, che punta al massimo profitto, come giusta ricompensa del saper fare affari, ma che favorisce, soprattutto, la concentrazione del denaro (un bene comune) in pochissime mani e che crea centri di potere economico-politico finalizzati alla crescita dei profitti e dell’arroganza con la quale sono imposti i modelli ideologici del libero mercato dei consumi. Un paradigma che viene regolarmente usato, senza un consapevole consenso democratico e solo per depredare ciò che ancora non si possiede. La prospettiva, per questi scenari, sembra definita dalla volontà di vincere e portare (come già prefigura oggi, il generale e inarrestabile decremento dei redditi e del potere di acquisto) tutto il mondo (tranne le caste detentrici del potere) verso condizioni di diffusa ed estrema povertà.
C’è ancor più da riflettere sulle indisponibilità delle alternative dovute alla globalizzazione pretesa dall’assoluto liberista che (senza informazioni, necessarie perché i cittadini possano acquisire consapevolezze e responsabilità) ha fatto terra bruciata nel mondo, per ogni altro sistema economico e ha imposto la scelta, quella ideologica, di un’etica asservita al mercato e al profitto.
C’è da riflettere sulle politiche culturali che, di fatto, trasformano i valori e le specificità «socio-culturali» dei Territori, in alienanti ed effimeri consumi rituali: turismo, attività del tempo libero, manifestazioni popolari di ogni genere, paesaggi e perfino musei, visite a luoghi delle nostre memorie storiche e artistiche (che pur sono testimonianze del nostro senso dell’esistere e hanno dato sostanza al pensiero umano), tutti valori che ora (messe nelle vetrine dei consumi di moda e vuotate delle occasioni per esplorarne il senso fra passato, presente e possibili futuri) non permettono certo, con le loro formali rappresentazioni quantitative, un’interpretazione critica, diffusa e condivisa, della realtà e, tantomeno, un coinvolgimento sinergico di risorse umane.
Il pragmatismo del «fare le cose che si sanno fare», eliminando tutto ciò che il senso comune considera «amenità» (cioè, pensieri umani non riducibili nel mitico e fattuale ambito del determinismo tecnico-scientifico), riduce la conoscenza a infertili meccanismi logici fine a se stessi. La conoscenza diventa, così, solo un intrigante labirinto di percezioni fisiche e di meccanismi mentali da scoprire, di eventi imprevedibili da incontrare, finalizzati a testimoniare e convincere su una entusiasmante capacità umana a tradurre i fenomeni naturali e sociali (osservati solo nelle loro dimensioni macroscopiche) in attività finali concrete e connesse ai consumi compulsivi. Un contesto che rischia, dunque, di portarci dalla nascita alla morte, senza aver vissuto, sospesi in una società senza senso, nel vuoto dei consumi a perdere, senza esperienze di riflessione, senza relazioni creative e senza condivisioni sinergiche. Tutta una realtà che ha come destino la competizione formale, sui mercati, fra attività produttive e consumi, separata da quei contesti culturali, sociali, politici ed economici sostanziali ed espressi dalla diversità creativa delle condizioni e delle esperienze umane autonome, consapevoli e responsabili.
C’è da riflettere sull’infertile senso comune che, diversamente dalla ricerca sul senso delle cose, non è espressione di qualità umane, ma della loro riduzione in forma di mistificanti, alienanti e rassicuranti, ma illusorie, ricette di vita semplice e senza problemi, di fatto ricette di «non» vita.
– La complessità rimossa degli equilibri naturali