E la politica si scordò dell’ecologia

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Tutto il mondo sembra avere a che fare con cose «più serie» della difesa dell’ambiente e, anzi, approfitta di questo momento di incertezza diffusa per chiedersi se abbia davvero senso sprecare forze ed energie per difendere un pianeta che, «tutto sommato», va per la sua strada e non ha bisogno di aiuti. E che può essere depredato come e più di prima

Sembra siano arrivati al capolinea i distinguo e le delusioni all’interno dei partiti sotto le sferzate che vengono dai cittadini e materializzatesi nei vari appuntamenti elettorali.
Ma in tutti questi unirsi e dividersi c’è un grande assente, l’ambiente. È come se le tematiche economiche e quelle del lavoro e della salute non c’entrassero per niente nella discussione. Insomma non si vola alto.
Il numero di marzo di «Villaggio Globale», che sarà on line fra qualche giorno, si occupa del volo. Ma il tema lo trattiamo a modo nostro, con interventi interdisciplinari come è nostra caratteristica sin dall’inizio.
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Qui vogliamo proporvi l’articolo di Carlo Casamassima, Medico, Gastroenterologo, proprio sulle tematiche politiche di questi giorni.

 

La fase di forti rivolgimenti politici a cui stiamo assistendo può essere letta in vari modi e può venir sottoposta alle più differenziate analisi ma, credo, si converrà sul fatto che nella sua determinazione ed evoluzione ha giocato e sta giocando un ruolo assolutamente periferico quella che potremmo chiamare «variante ambientalista».
Il dibattito che sta interessando le forze che si collocano sia nel centrodestra, sia nel centrosinistra, sia, infine, «oltre» gli schieramenti tradizionali sembra avere un denominatore comune nella totale assenza dei temi ecologici all’interno delle proprie riflessioni e della assoluta mancanza di una visione ecologista nelle pieghe del proprio confronto interno. Quasi simbolicamente l’ultimo dei partiti nati in questi giorni di grande travaglio politico fa un passo in direzione del proprio passato e si trasforma da Sinistra ecologia e libertà in Sinistra italiana eliminando anche nella denominazione quel riferimento all’ambiente che pure poteva significare una sorta di debito d’onore verso le tematiche ambientali (non che questo significhi necessariamente un minore interesse al problema ma di certo, in linea di massima, non è, nella fattispecie, di grandissimo auspicio).

Partiti e movimenti

I partiti che fanno riferimento al centrodestra storico hanno da sempre acriticamente abbracciato una visione sviluppista della politica, diluendola quanto basta in una salsa populista e nazionalista che fa l’occhiolino a ciò che sta avvenendo fuori d’Italia, provando a ricomporre, con una ricetta sovranista e protezionista, le mille contraddizioni di un capitalismo apparentemente quasi ingovernabile. In realtà, e lo abbiamo capito bene, il governo dei fenomeni di mercato, lungi dall’essersi reso «casuale», si è solo spostato in una cabina di regia molto meno accessibile al controllo democratico e nazionale.
La più grande forza di centrosinistra, quel PD sempre più acconciato a divenire il Partito di Renzi (ed in un futuro molto prossimo il Partito della Nazione), ha totalmente perso l’ancoraggio ai temi della difesa ambientale (lo ha riconosciuto lo stesso Matteo Renzi parlando all’Assemblea nazionale del partito convocata il 19 febbraio u.s., quando ha detto che il partito si è sostanzialmente dimenticato delle questioni ambientali) dopo aver chiesto agli italiani di non recarsi alle urne in occasione del referendum sulle trivellazioni e dopo aver incassato una sonora sconfitta al successivo referendum costituzionale (che, ricordiamolo, in tema di legiferazione e gestione in materia ambientale, tentava di realizzare, in nome del principio di sussidiarietà, un forte passaggio di potere reale dai governi regionali a quello centrale).
A sinistra, Sel, come si diceva, perde (non senza rischi) la Ecologia del nome e pare voler ripartire da una concezione più tradizionalista della dinamica politica quasi a volersi affrancare dalle implicazioni ecologiste della precedente denominazione mentre, spostandoci di qualche metro in là, il Campo Progressista di Giuliano Pisapia farebbe bene a cercare di dare una lettura autocritica ed in qualche modo «green» del maggior investimento del suo leader che, da sindaco di Milano, ha scelto con l’Expo di viaggiare sui binari del più antiecologico dei progetti di promozione della città, del Paese e della tematica scelta, quel «cibo per tutti» su cui non pare si siano prodotti, a fronte di rilevantissimi investimenti, sostanziali cambi di atteggiamento e di cultura. In cambio Milano ha guadagnato, ancora una volta, cemento e, qualcuno afferma, speculazioni e rinnovato affarismo.

Sempre meno verdi

Della sostanziale ininfluenza dei Verdi e della loro ormai quasi proverbiale incapacità di strutturare una classe dirigente all’altezza dei severi compiti che spetterebbero ad un partito che fondi sulla sostenibilità ambientale la propria azione politica è quasi inutile parlare (almeno sino a che non accada qualcosa di concretamente diverso da ciò che tocca vedere quando ci si incuriosisca delle vicende dei «Green» italiani) mentre è molto più delicata la situazione (e più ruvido il giudizio) riferita al primo partito italiano, quel Movimento 5 Stelle che pare essere affetto, nella propria azione politico amministrativa, da una sorta di sindrome dissociativa che ad enunciazioni di principio (spesso assai condivisibili) fa seguire comportamenti quantomeno discutibili (e basterebbe vedere da un lato la zoppicante vicenda della gestione rifiuti/discariche nella Capitale in questo primo anno di governo locale dall’altro il contestato orientamento a voler costruire un nuovo stadio comunale pur in presenza di obiezioni largamente ed ecologicamente motivate).
L’imbarazzo a definire una posizione accettabile e davvero solidale sulla spinosa vicenda dei migranti ed il ricorso a lunghi giri di parole per giustificare l’ingiustificabile (la resa alla richiesta di opporsi alle pratiche d’accoglienza dei naufraghi o dei clandestini) pone poi sul capo di quel movimento una seria ipoteca di insostenibilità politica, almeno dalle parti di coloro i quali difendendo il pianeta non si scordano di difenderne i suoi abitanti, da qualsiasi terra ed esperienze provengano.
La centralità ecologista, così presente nella politica sino a non molti anni fa e così ambita all’interno del dibattito e dei programmi di partito/i (almeno nella fase della «cartacea» buona dimostrazione d’intenti) si è di fatto persa, stemperata in mille altri rivoli programmatici, diluita nella sua forza d’urto capace di proporre visioni diverse e più avanzate, svanita nella nebbia di una emergenzialità economica che non riconosce all’ecologia quella priorità che, pure, le si dovrebbe tributare senza dubbi né perplessità.
Né il contesto internazionale aiuta a porre le questioni secondo un ordine differente, stretto fra il lepenismo razzista avanzante in Francia, il protezionismo «rassicurante» dei paesi del nord Europa, i fili spinati dell’est svincolato dalla Russia e la sempre poco malleabile inflessibilità tedesca.
Per non parlare, poi, del trumpismo d’oltreoceano che, oltre la facciata di pericoloso folklore, propone un indietreggiamento planetario sui temi più delicati, da quello del cambiamento climatico a quello dei diritti civili, da quello dell’accoglienza a quello dell’assistenza socio sanitaria. Delle attenzioni riservate da Russia e Cina alle questioni ambientali, infine, è meglio forse addirittura evitare di parlare.
Tutto il mondo sembra avere a che fare con cose «più serie» della difesa dell’ambiente e, anzi, approfitta di questo momento di incertezza diffusa per chiedersi se abbia davvero senso sprecare forze ed energie per difendere un pianeta che, «tutto sommato», va per la sua strada e non ha bisogno di aiuti. E che può essere depredato come e più di prima.

I nodi si aggravano

L’eclisse della istanza ecologista è un fatto inoppugnabile e, per gli ecologisti, ineludibile e drammatico. Al punto che per rendersi evidente o almeno manifesta nel dibattito pubblico è costretta a presentarsi sempre più spesso sotto le sembianze dell’ultima (stra)ordinaria emergenza.
È così che la politica, quasi a purificare la propria coscienza, concede (minimi) spazi all’ecologia rincorrendola sui mortificanti binari dell’allarme ultimo scorso. Ci si trova pertanto a parlare di «messa in sicurezza del territorio» dopo slavine e terremoti invece che parlare soprattutto di pianificazione urbana ed extraurbana razionale e sistematica; di «emergenza discariche» all’ennesimo buco riempito senza criterio invece che provvedere a creare impianti di compostaggio e filiere di riutilizzo dei materiali efficienti e diffuse; di «spiagge negate e bagni vietati» quando la cronaca racconta malesseri ed avvelenamenti in acque pubbliche usate come sversatoi invece che controllare il ciclo di raccolta e depurazione delle acque reflue delle città; di «opere di difesa contro la tracimazione delle acque fluviali» in occasione di allagamenti e straripamenti di fiumi invece che attuare una seria strategia di dismissione di aree golenali o comunque a rischio occupate illecitamente nel corso degli anni molto spesso dagli stessi che poi richiedono provvedimenti riparativi e che montano sarabande se e quando non li ottengono.
E si potrebbe continuare a lungo: sulle fonti energetiche o sulla qualità dell’aria, sulla tracciabilità dei prodotti o sulla bontà del cibo, sull’ipertrofia del traffico autoveicolare o sulla difesa dei diritti degli animali. Tutto quello che si affaccia sul dibattito pubblico, trovando spazio (minimo) nei programmi dei partiti è catalogabile sotto la voce «Ambiente ed emergenze» e presumibilmente gestibile con i tempi ed i modi di tutte le emergenze. Naomi Klein ed il suo contributo di approfondimenti sulla «shock economy» (che è molto meno casuale di quanto superficialmente non si possa pensare) e sul capitalismo dei disastri chiude il cerchio implicitamente domandando ad ogni serio ecologista responsabilità, senso di profondità analitica e razionalità progettuale.

Incapacità di scegliere

Il secondo dato di fondo, quindi, è che alla sostanziale vaporizzazione dei temi della difesa reale dell’ambiente si accompagna, a guisa di risarcimento consolatorio (ma fortemente interessato), la logica e l’interesse in direzione dell’emergenzialità così da annullare ogni possibilità di pianificazione strategica in nome della gestione dei disastri. Così tutti sono contenti, un po’ di ecologismo amministrativo viene spolverato su pietanze politiche assolutamente immangiabili ed un (bel) po’ di denaro pubblico impiegato per l’ennesimo pastrocchio e l’ulteriore bivacco dei proci.
Chiunque alzi lo sguardo non può non notare il fatto che da ormai molti anni, parlare di ambiente (specie in Italia) significa parlare in via esclusiva di emergenza di rifiuti, fiumi, inquinamento, dissesto e così via. La politica, priva di memoria, pensieri e parole quando si tratta di affrontare i nodi dello sviluppo e della pianificazione ecosostenibili, torna ad essere pienamente e splendidamente in forma quando si tratta di individuare, gestire, sfruttare le «emergenze».
Già, la politica. Ma a dirla così siamo nel generico: un generico che non solo è un frutto malato del debolissimo pensiero dei nostri tempi ma è a sua volta pianta malata per futuri frutti velenosi. La politica sono i partiti (e le associazioni, i movimenti, le organizzazioni no profit, certamente: ma innanzitutto i partiti) così come li vediamo e li viviamo oggi. Perché, anche costituzionalmente, è ad essi che deve riferirsi la fase ultima, quella finale e concreta, della politica che, nella sua accezione migliore, da riflessione e progetto si fa legge e quindi realizzazione.
E se oggi la politica si scorda dell’ecologismo è perché i partiti non sono interessati all’ecologismo. Perché abbiamo nel complesso una classe politica poco attrezzata a comprendere la complessità dei temi ambientali (è davvero incredibile l’incompetenza, in molti casi, di politici che vorrebbero gestire la cosa pubblica quando provano a trattare tematiche ambientali al di fuori del teatrino delle rubacchiate frasi fatte, degli agirelocalmentepensareglobalmente, dei rifiuti zero (perché no?), o dei chilometrozero conditi anzi sconditi con olio di palma. Nel caravanserraglio delle banalità la politica di questi partiti sembra essere il miglior palcoscenico per far finta di affrontare le questioni del degrado del pianeta dandosi un tono «green» e rimasticando e sputacchiando frasette al profumo di fiori e zenzero ascoltate qua e là e riproposte con tono triste e malinconico.
La verità è che questi partiti (oggi ed in Italia, contestualizziamo!) non sono all’altezza di porsi e gestire le contraddizioni più profonde eppure così strutturali dalle quali, con tutta evidenza, discendono comportamenti e scelte che danneggiando il pianeta ne danneggiano gli abitanti. «Questi» partiti non possono andare più in là di un retorico lamento che al pari di un discreto compitino in classe dimostri all’insegnante niente più che una veloce lettura sul tema, priva di mordente, di implicazioni operative, di capacità progettuali. Con questi partiti i temi della seria pianificazione ecologista non potranno trovare risposte per mancanza di humus.
Per di più e contrariamente a quello che accade in molti altri Paesi europei e non, l’Italia non riesce a dotarsi, stabilmente e solidamente, di un serio Partito «green», dotato di una classe dirigente degna, per qualità, competenze ed affidabilità, cosicché le esigenze ed i bisogni di un ecologismo di sostanza non trovano modalità di espressione e rappresentazione. Con la conseguenza gravissima di un orologio della politica che su queste tematiche viaggia quasi all’incontrario: riduciamo i finanziamenti per la mobilità collettiva mentre l’inquinamento dell’aria si fa via via più drammatico; ci lasciamo ammaliare dalla retorica dell’alleggerimento delle procedure d’impresa proprio mentre verifichiamo in ogni momento la superficialità con cui si costruisce e si produce; non ci scandalizziamo di proporre e predisporre trivelle ed airguns per estrarre petrolio e gas mentre tutto ci chiede di guardare altrove e riconvertire trasporti, riscaldamenti, industrie e così via.
Continuiamo a discutere del «cosa» (quanto è utile fare la raccolta differenziata? Quanto serve infrastrutturare con pannelli fotovoltaici? Meglio pedonalizzare ampie zone di città o no? E potremmo continuare a lungo!) mentre la vera discussione è quella sul «come»: come ottimizzare la raccolta ed il riutilizzo dei rifiuti? Come predisporre una filiera produttiva che vada in direzione di una reale riduzione produttiva degli scarti? Come incentivare la crescita delle energie alternative in ogni casa ed in ogni struttura pubblica? Come rendere piste ciclabili ed aree pedonali più confortevoli e praticabili per tutti? E, naturalmente, anche qui potremmo continuare davvero per molto.
Ma oggi, queste domande non c’è chi le fa. Associazioni e società civile paiono sprofondati in una sorta di quiete troppo somigliante al sonno (se non al coma), mentre i partiti hanno da inseguire la folle logica dello spread e della «crescita».
Quanto di meno ecologista, palesemente e paradossalmente, ci sia.