Ecco perché quello stadio non sarà sicuro

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«Il dissesto idrogeologico è un problema tipicamente italiano, perché solo in Italia la pianificazione del territorio è fatta in modo superficiale, con norme confuse e burocratiche, ed è condizionata da interessi economici-speculativi, piuttosto che da rigorosi criteri scientifici e analisi di rischio». Occorre un piano straordinario di investimenti di 2,5 miliardi l’anno per almeno 20 anni per ridurre il rischio a livelli socialmente tollerabili, come propone Italiasicura e come era stato proposto (invano) dalla Commissione De Marchi negli anni 70

Uno stadio quasi nel fiume

Si è svolto nell’ambito dell’iniziativa «La Spezia 20.20. La smart city alla sfida del cambiamento climatico», una settimana dedicata a innovazione, sostenibilità, energia e ambiente promossa dal Comune della Spezia e dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) e con il patrocinio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) Liguria, l’evento «La città resiliente: mitigazione del rischio idrogeologico e difesa del territorio. Soluzioni e prospettive».

Un tema chiave quello della mitigazione del rischio idrogeologico e della difesa del territorio alla luce della sfida a cui il cambiamento climatico chiama le città.
Tra i relatori Mauro Grassi, Direttore della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico ItaliaSicura; Gianvito Graziano, geologo già consulente di ItaliaSicura; Fausto Guzzetti, Dirigente di Ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche, Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Cnr-Irpi).
Nella sua esposizione Gianvito Graziano parlando degli indirizzi per la progettazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, l’esperienza di ItaliaSicura, afferma come nei vari testi di riferimento inerenti alle opere di difesa idro-geomorfologica del territorio si possano trovare certamente richiami ed avvertenze riguardo a come queste devono essere realizzate e agli accorgimenti che si devono adottare al fine di verificare la loro efficacia, non solo alla scala di risoluzione locale, ma anche per quel che riguarda gli effetti e le ricadute che l’opera può comportare.
Indirizzi che hanno proprio l’obiettivo di organizzare richiami e avvertenze secondo uno schema che possa essere di aiuto sia nella fase di predisposizione della proposta progettuale, sia come supporto operativo per valutare l’efficacia dell’opera e la sua rispondenza alla scala di sistema.
Pertanto partendo dalla conoscenza del contesto che include studi specialistici geologici, geotecnici, sismici e geoidrologici passare alle opere (per la mitigazione del rischio da frana di versante, di crollo, del rischio da esondazione, da erosione costiera) e ai progetti e finendo eseguendo la valutazione dei risultati attesi ex-ante ed ex-post.
Un problema quello del rischio idrogeologico che in Italia colpisce sempre maggiori porzioni di territorio e che vede la sua mitigazione necessaria al fine di difenderlo dandogli quella capacità di resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi dagli effetti di un evento perturbante in modo efficiente, sviluppare in altri termini resilienza.
Ma fatti di attualità confermano la poca comprensione del problema e del rischio che ne deriverebbe per la salute pubblica a seguito di scelte che non diano il giusto peso alla cosa; ed è questo infatti quanto sta avvenendo a Roma dove si sta pensando di costruire il nuovo stadio dentro un meandro del Tevere.
In argomento abbiamo voluto porre qualche domanda al prof. Nicola Casagli, Professore ordinario di Geologia applicata presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze.

Quale la situazione presente a Roma e nello specifico cosa, geologicamente parlando, impone una certa attenzione nello studio della zona scelta quale basamento alla struttura?
La zona scelta per il nuovo stadio della Roma si trova all’interno di un meandro del Tevere, subito a valle della confluenza con il fosso Vallereano e immediatamente a monte del drizzagno di Spinaceto, ovvero di un taglio artificiale di un antico meandro realizzato in epoca fascista.
Si tratta di un’area di pertinenza fluviale in quanto caratterizzata dalla presenza di un meandro attivo.
I meandri evolvono per effetto della dinamica fluviale: la corrente fluviale erode la sponda concava, mentre i depositi alluvionali si sedimentano su quella convessa. Prima o poi il meandro tende ad essere tagliato.
Nella grande alluvione del 1557 il grande meandro di Ostia venne tagliato in modo catastrofico.
Inoltre l’area si trova nella pianura alluvionale del Tevere, che si chiama alluvionale proprio perché è stata formata dalle alluvioni. I sedimenti deposti dalle alluvioni sono poco consolidati e molto compressibili, per cui tendono a generare fenomeni di subsidenza. Il monitoraggio del territorio con i satelliti radar mostra che, nell’area in questione, si hanno evidenti cedimenti del suolo per subsidenza e compattazione di sedimenti fluviali compressibili.

Una zona che non risulta inserita nel Piano di assetto idrogeologico (Pai) ma che comunque presenta le sue problematicità…
Con le arginature esistenti l’area non risulta essere a rischio diretto di esondazione del Tevere e in tal senso non è classificata come area ad alto rischio idraulico nel Pai. Il Pai classifica la zona come area di attenzione, per la presenza del meandro e del fosso Vallerano che può determinare esondazioni su una porzione dell’area considerata.
I Pai sono degli strumenti di classificazione del rischio del territorio di area vasta. I singoli interventi di edificazione richiedono valutazioni specifiche alla scala di sito.
 Purtroppo invece i Pai sono diventati sempre più spesso alibi per non fare alcuna valutazione tecnica di approfondimento, riconducendo l’analisi del rischio a un mero adempimento amministrativo.

Come si può intervenire affinché si preservi un luogo seppur non inserito nel Pai? E perché, se questo luogo presenta delle peculiarità idrogeologiche, non è soggetto a vincoli?
Il Pai classifica la pericolosità e il rischio di esondazione, cioè la probabilità che un’area venga alluvionata per sormonto degli argini. Nei modelli usati per le perimetrazioni dei Pai gli argini vengono considerati come barriere idrauliche vulnerabili solo per tracimazione. Inoltre il fondo e le sponde fluviali sono considerate fisse, come in un canale artificiale. In realtà le alluvioni si verificano sempre più spesso per rottura degli argini, non per sormonto, e gli argini si rompono per filtrazione interna e sifonamento oppure per franamento, per livelli idrometrici ben inferiori alle quote di sormonto. Questi meccanismi di rottura non vengono considerati negli strumenti di pianificazione di area vasta come i Pai, ma necessitano di analisi approfondite alla scala di dettaglio.
Inoltre nel Pai si considera come scenario di riferimento la piena con tempo di ritorno di 200 anni. Tuttavia gli eventi catastrofici degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato che, in un contesto di cambiamento climatico, il calcolo della pericolosità delle alluvioni in termini di tempo di ritorno è un concetto scientificamente superato che può condurre a risultati fuorvianti.

Il rischio idrogeologico, questo male oscuro di cui si parla solo a danno compiuto…
Quanti altri danni devono essere compiuti prima che si possa affrontare la questione con una certa maturità politica volta a rendere la nostra Italia un luogo più sicuro?
Il dissesto idrogeologico è un problema tipicamente italiano, perché solo in Italia la pianificazione del territorio è fatta in modo superficiale, con norme confuse e burocratiche, ed è condizionata da interessi economici-speculativi, piuttosto che da rigorosi criteri scientifici e analisi di rischio.

Quali le problematiche più urgenti da superare affinché venga data più attenzione alla salute del territorio?
Eliminare le troppe norme e i troppi regolamenti. Far recuperare ai professionisti (ingegneri e geologi) il valore tecnico-scientifico del loro lavoro, che adesso è ridotto alla mera applicazione di norme burocratiche, talvolta illogiche e quasi mai scientificamente basate. Individuare chiaramente le responsabilità tecniche e separarle da quelle politico-amministrative. Individuare e perseguire chi sbaglia in malafede, per incompetenza o negligenza.

Secondo lei quali sono gli step che in Italia bisogna percorrere affinché non si debba più parlare di rischio idrogeologico?
Fare una legge urbanistica semplice e comprensibile, coordinata fra Stato e Regioni. Fare un piano straordinario di investimenti di 2,5 miliardi l’anno per almeno 20 anni per ridurre il rischio a livelli socialmente tollerabili, come propone Italiasicura e come era stato proposto (invano) dalla Commissione De Marchi negli anni 70. Non costruire più niente nelle aree a rischio. Delocalizzare ciò che è possibile di quanto è già stato costruito nelle zone a rischio estremamente elevato. Insegnare la prevenzione del rischio idrogeologico e sismico nelle scuole di ogni ordine e grado.

Ritornando allo stadio di Roma…
Quale sarebbe la scelta più sostenibile da privilegiare?
Se proprio è necessario fare un nuovo stadio, costruirlo in zona sicura e geologicamente stabile. Evitare nuovo consumo di suolo. Riutilizzare aree già edificate abbandonate o sottoutilizzate, che si sono dimostrate storicamente sicure.